27 settembre 2011

Raymond Carver: Vuoi star zitta, per favore?

Ma si ma per carità questo libro è una bomba perché io non credo che carver sia stato in grado di scrivere delle cose brutte se ci pensi carver è come tom waits e tom waits può aver fatto delle cose più facili o più difficili ma brutte no brutte mai nemmeno the black rider che onestamente è un po' una palla o le cose più stoppacciose di real gone si possono dire brutte perché conservano un fascino intrinseco nel tessuto nell'odore non lo so non importa però ecco ci sono cose che arrivano meglio e cose no e questa raccolta di racconti ogni tanto un po' qualche sospirone lo si tira non è esattamente una lettura esaltante da portarsi appresso il libro nel tranve o in ufficio o nel bagno forse è per questo motivo che ci ho messo così tanto e ho pensato Ma sì ma perché leggere un libro per volta e nel frattempo ne ho finiti altri tre.

Poi vabé ci mancherebbe da qui a sposare la posizione del Saggio Nanni ce ne corre però ecco quando ho finito questo libro io ho tirato notte per ingoiarmi le ultime sessanta pagine e non l'ho fatto perché non riuscivo a schiodarmi ma perché questo volumetto senape sul comodino ormai avvizzito d'ogni entusiasmo iniziava a farmi un po' pena e soprattutto non volevo più vederlo il giorno dopo e infatti ho fatto una cosa che non faccio mai e cioè ho tirato via l'ultima decina di pagine quelle del racconto in cui lui si incazza perché la moglie l'ha tradito mille tempo prima e ha mandato a puttane la sua vita perfetta cosa che mi è dispiaciuta - tirar via intendo non la vita perfetta di questo porocristo qua - perché tutto sommato questo era il racconto sigillo del volume anche a livello concettuale è l'ur-racconto di carver e cioè un momento di intensa epifania esistenziale in cui le cose ti comunicano che la vita così come l'hai vissuta finora non era lei ma un'altra cosa a cui non eri stato attento quindi come vedete qualcosa m'è rimasto e non ce l'ho con carver solo che mi sa che devo diradare ecco, diradare.

15 settembre 2011

grazie mille e arrivederci

Cara Scarlett,
ti ricordi quando qualche anno fa osai darti un consiglio per la tua carriera? Eri appena uscita col tuo disco nuovo e a nessuno gliene fregava un cazzo, ma tutti hanno continuato a dirti di sì perché di fatto nessuno stava pensando al disco, in realtà avevano in mente solo le sise, e non mancai di fartelo notare, ricorderai di certo.
Ti scrivo per dirti che sono contento che tu adesso abbia finalmente seguito il mio consiglio, e mi permetto di alzare la posta e dartene un altro. Accanna, Scarlett. In amicizia.
Ora che ci hai dato ciò che volevamo, ciò che ti abbiamo chiesto a gran voce sin dai tempi di Ghost World, ciò che ha impennato gli incassi al botteghino nella speranza che Hai visto mai che a 'sto giro ce dice bene, ora che le nostre aspettative sono state soddisfatte, ora che sei all'apice della tua parabola, potrai finalmente goderti la tua fama e i tuoi soldi e ritirarti in quiete non so, in Molise, o in Kamchatka.
Addio, Scarlett. Ora potrai tornare da dove sei venuta senza aggiungere altro, per non rovinare questo momento.

Grazie e addio,
cane.

14 settembre 2011

"Commovente!" - (Barbara D'Urso)

Dice Si fa presto a fare a pezzi un libro se non l'hai nemmeno finito ditemi così e io vi risponderò Parlate con Pennac l'ha detto lui che accannare un libro a metà si può fare e se necessario si deve e insomma non c'è niente di male e vi sottolinerò pure che sto citando Pennac perché lui pure fa letteratura pop ma pop nel senso di Sting ma almeno se la fa prendere a bene non come la Sebold che insomma ha scritto questo libro che se lo sono comprati tutti e anche le loro nonne e questo libro ti dice chiaro e tondo che è un libro di dolore perché la ragazzina muore subito e sta in una specie di paradiso da cui osserva i familiari che cercando di far fronte alla faccenda e alle indagini per scoprire l'assassino e in questo paradiso sono tutti felici e tutti i desideri che avevano in vita si avverano e io non lo so come va a finire perché a un terzo del libro ho capito che lo scopo della Sebold è quello di scrivere un libro non tanto sulla morte perché insomma nessuno può scrivere un libro sulla morte ma sul rapporto con la morte e quindi ci sono i familiari che non sanno cosa fare e vagano nell'esistenza e l'investigatore che almeno fino a dove sono arrivato io anche lui vaga ma c'ha l'aria di uno che alla fine capisce e quindi ci sono i compagni di scuola tutti con un punto interrogativo in faccia perché insomma Noi siamo regazzetti pensano noi non dovremmo avere a che fare con la morte tutto ciò è barbaro e tu pensi Fantastico, le premesse ci sono, ora per carità, che accada QUALCOSA.
Invece la Sebold continua a dipanare questa ragnatela di dolore e di ricordi e di riferimenti e di continui sprazzi di aldilà consolante ci mancherebbe ma a cui mancano solo i miominipony per essere stucchevole come il gelato al puffo che sono SICURO vi ricordate ancora e allora io quando sono arrivato a un terzo del libro ho avuto la netta CONVINZIONE che niente sarebbe successo fino e allora ho pensato che sommando il cattomisticismo alla lenta e schiumosa elegia di ricordi che indugia su ogni dettaglio e strazia il cuore e mette tutt'e due le mani nella piaga la somma restituisce l'immagine di mia madre che di sabato pomeriggio guardava questi drammoni su Canale 5 e stirava e piangeva e piangeva e stirava e io giustamente davanti alla lacrima materna turbato apostrofavo A ma' ma che cazzo te stai a vede? e lei con la faccia rossa mi rispondeva tipo Una mano sulla culla o Ridatemi mia figlia o Infanzia lacerata e io alzavo le mani al cielo e dicevo Madonnasanta e me ne andavo e non volevo sapere più niente, basta.

20 agosto 2011

Novecento Italiano [Laterza - 2008]

ottimo libro come mi aspettavo ci mancherebbe nonostante il capitolo sul miracolo economico che mi avrebbe addormentato anche su anfetamine il resto è tutto da paura preciso intuitivo non per forza nozionistico anche le riflessioni sono buone poi ci mancherebbe sono tutte firme di primissimo livello però ecco quel "Giuseppe Falcone" a pag. 192 mi ha fatto serrare istantaneamente il retto e convinto che l'editor di Laterza dev'essere un Teletubbie.

Paolo Berizzi: Bande nere [Bompiani 2009]

berizzi tu hai fatto un gran lavoro non ci piove sei andato a indagare a investigare a intervistare sia la gente che i legami che la genesi hai fatto bene ci mancherebbe io non ho niente da dire sul tuo libro che in parte mi ha confermato cose che purtroppo già sapevo in altre mi ha messo in guardia su alcune cose che potevo solo sospettare bravo berizzi hai fatto proprio bene.
però:
sei sicuro che sia giusto dire che l'abbigliamento tipico di un nazi siano le LA trainer o le New Balance e le polo e le teste rasate? no perché io pure di tanto in tanto metto le NB con le polo e ho la testa rasata dal 1999 eppure non sono nazi anzi è meglio che i nazi via dalle palle. no perché io berizzi ho avuto l'impressione che te hai sovrapposto gli skinhead in generale con i nazi e questa cosa oltre ad essere storicamente sbagliata e un'ingenuità imbarazzante oltre a questo francamente mi manda un po' in puzza perché non vorrei che per strada qualche radical chic un po' male informato che non ha mai visto uno skinhead in carne e ossa possa pensare che io sto dalla parte SBAGLIATA. o peggio: che qualche idiota pensi che io stia dalla sua.
no perché poi tocca che mi fai fare a botte, berizzi, non ci avevi pensato.

22 luglio 2011

Appunti per un dylanismo contemporaneo

Ricordo di aver letto su “Chronicles, vol. 1”, l'autobiografia del giovane Bob Dylan, di come, una sera, il Vate, seduto in macchina con Robbie Robertson di The Band si sentì porre la seguente domanda: “Dove hai intenzione di portarla?” (o era qualcosa del genere... n.d.a.). Di primo acchitto le ipotesi che lo sventurato Bob dovette prendere in esame erano due: A) la domanda riguardava l'itinerario che i due stavano seguendo in auto (domanda: dove hai intenzione di portarla?, risposta possibile: a Fregene.)
B) la domanda era inerente a qualcosa di recondito nella mente di Robbie Robertson e dunque, l'unica scappatoia era rispondere con un'altra domanda e così fece Bob; Bob guardò Robbie e disse: “Cosa?”. Risposta di Robbie Robertson: “Come cosa? La scena musicale! La musica!”... e il povero Bob cadde in depressione per la milionesima volta.

Una cosa che emerge chiaramente dall'autobiografia di Bob Dylan è il fatto che rispetto alla notorietà e all'importanza che TUTTI gli attribuivano, lui nutriva di sé un'opinione ben più sobria, e di tutto quel casino che si faceva intorno alla sua icona ne avrebbe fatto volentieri a meno.
Adesso, noi potremmo anche malignare sul fatto che è tipica delle grandi star questa distaccata versione di se stessi: umilmente Immortali. E però resta la sensazione che al fondo di Bob Dylan tutta 'sta storia rompesse genuinamente il cazzo.
La manfrina appena conclusasi serve ad introdurre una band su cui l'ombra lunga di Dylan si estende come la luce della luna in una limpida notte nella valle della morte. La band: i Felice Brothers.
Come al solito arrivo tardi e sempre con versioni parziali della realtà, rivedibili in secondo grado e perfino ribaltabili in cassazione. Le mie sentenze si fanno via via più approssimative e più che a questioni di tempo credo le ragioni profonde dell'attenuarsi della mia lapidarietà siano da ascrivere all'anagrafe. Con l'età, cioè, sto perdendo la tendenza alla santificazione e conservo solo una sana intolleranza verso ciò che non potremmo definire in altro modo se non come: MERDA.
Dunque, per chiarire, sto parlando qui di UN SOLO DISCO, che può o meno definire interamente il carattere di una band.
Nel mio caso The Felice Brothers sono per me una piacevole sorpresa, soprattutto se letti con la lente che ho cercato di fornirvi nell'introduzione.

La letteratura, il gossip, la critica musicale e una consistente parte del sentire popolare mondiale hanno sempre preso Bob Dylan molto sul serio. I Dylaniani sono spesso persone pesanti e monocorde che in ossequio ad una ortodossia tutta “Dylaniana” fraintendono grossolanamente il messaggio che da sempre il loro menestrello diletto cerca di comunicare. Non dico tutti ma una buona parte di essi è così.
Ma, per fortuna, mentre ancora si dibatte sulla presunta o meno valenza politica di Mozambique, sulle strade mai abbastanza affollate d'America, gli americani fanno del loro patrimonio culturale il cazzo che gli pare. E, aggiungo di mio pugno: MENO MALE!
Dalla culla del dylanismo fricchettone e spiritualista, da quella stessa Woodstock dove Dylan andò ad abitare per ritrovarsi con gli hippies dentro casa che gli chiedevano “L'illuminazione” mentre lui doveva andare a pisciare (pessima idea Bob n.d.a) ecco che escono fuori The Felice Brothers: una versione possibile di un Dylanismo contemporaneo.

La voce del cantante, Ian Felice, che del nostro Bob ricalca senza vergogna toni, inflessioni, e financo la vena ritmica-strofica, insieme con un sound PENSATO e SENTITO e, ovviamente, costruito su Highway 61 piuttosto che Blood on the tracks, The Felice Brothers suonano DIVERTENDOSI. Il che, lasciatemelo dire, è TUTTO!
Siamo lontani da quella che su un Tom Petty possiamo definire come “influenza fondante”, o su di un Elliot Murphy “Vorrei ma non posso”; siamo lontani dalla ricerca di un novello Dylan (portata avanti da un mercato musicale che, ad un certo punto, per pararsi il culo, prende per morto un'artista ancora vivo e attivo e sforna prodotti variamente buoni o scadenti tutto purché abbiano il marchio “Dylan” impresso addosso...) che produsse figure di buona caratura come Willie Nile, buona caratura sì ma imparagonabile con quella della fonte primaria.
Qui, in casa Felice, Bob Dylan lo si è mangiato a merenda come, a suo tempo, Dylan stesso avrà mangiato, che ne so, Pete Seeger (quello che voleva staccargli la corrente a Newport quando si presentò con le chitarre elettriche, per intenderci).
E dunque, la versione che The Felice Brothers propongono oggi di quel sound è fresca e attuale come lo sono i Fleet Foxes per altre cose.
Ho trovato, nell'album ascoltato – il terzo in ordine d'uscita, omonimo, datato 2008 – una scrittura saggia, intrigante e disinibita. Viene riletta la bibbia elettrica del menestrello di Duluth senza timori reverenziali, con modernità e intelligenza; con accostamenti di vecchio e nuovo – penso al finale della quarta traccia in cui si profilano sonorità che definirò per mio comodo “drones dal sapore folk” – con soluzioni valide a prescindere dal fatto che la band si definisca attraverso l'INFLUENZA per eccellenza di un bianco americano di provincia.
L'ho detto già, lo ripeto: ciò che conforta è che nel suonare sotto l'influenza di Bob Dylan, The Felice Brothers si divertono. Come pure è lampante che si divertano a SCRIVERE sotto detta influenza.
La materia è diventata plasmabile; oggi, finalmente, ho trovato una rilettura dell'ebreo sonante che vada oltre l'adorazione incondizionata e la trasfigurazione; oggi, ho capito che mentre da qualche parte ancora si dibatte su Dylan con l'impostazione che avevano le riunioni di Lotta Continua, da qualche altra parte si ASCOLTA attentamente e, cosa più essenziale, si TRAMANDA.
Il linguaggio Dylaniano, questo immutabile leviatano dai molti tentacoli, sta diventando, nel nostro tempo, un giocattolo come un altro: digerito nelle regole di funzionamento, compreso nelle dinamiche e nelle varianti di gioco, finalmente dilettevole.
Situato nel bel mezzo della loro produzione, “The Felice Brothers” (nome della banda e del disco, in questione) porta con se una buona notizia e tramanda con gusto l'immortale e splendido messaggio del nostro Bob: “Suona e fa’ quello che ti pare”.
Prestategli orecchio.

15 luglio 2011

Fucked Up: David comes to life [Matador - 2011]

Mannaggia ai Green Day e a quando gli è venuto in mente di sturare questo tombino del concept album punk rock. Mo' giustamente figuriamoci se non venivano tutti giù a valanga. Tipo 'sti Fucked up, che sono un gruppo punk rock canadese ambiziosissimo, che ha scritto un concept album su un tizio che per scappare dalla monotonia della sua cittadina di provincia si fa le storie con una rivoluzionaria. Fin qui non c'è niente di sbagliato, ma se vi dico che il disco dura SETTANTOTTO MINUTI ci credo che vi viene la sudarella.
Perché ho capito che la storia va seguita e sviscerata e raccontata per bene, però perdio, ragazzi: diciotto pezzi poco arrangiati (nel senso che un occasionale intervento di chitarre acustiche SMETTE di essere una variazione sorprendente già la seconda volta) e cantati sostanzialmente in screaming fatta eccezione per qualche coretto unisono-indie di quelli che tanto piacciono al popolo degli skinny jeans, ma giusto per fare brodo, cioè onestamente, raga', ma che cazzo pensavate di fare?

Sentenza: 4

4 luglio 2011

The Smithereens: 2011 (eOne - 2011)

Uno dei pochi lati negativi dell'ascoltare SOLO bluesmen morti da un paio di secoli può essere essersi persi gente come gli Smithereens, che stanno in giro da 25 anni almeno e vallo a sape'.
Per rimediare, mi sono ascoltato questo disco loro nuovo che si chiama 2011, ed è uscito nel 2011, e fin qui direi che ci siamo.
Gli Smithereens sono del New Jersey e ci avrei scommesso un pochetto perché sono ruspanti e le influenze si sentono. A differenza di New York, dove tutta la musica del mondo si vede che si percepisca SIMULTANEAMENTE (e poi collassa in gente come i Sonic Youth), il Garden State dev'essere un posto dove non essendoci poi un po' un cazzo da fare, c'è ancora tempo per mettere un disco dopo l'altro e assorbirlo per bene.
ECCO perché gli Smithereens riescono a suonare come i Jam che suonano cover degli Who con Elvis Costello alla voce. E ciò nonostante non sembrare i manichini dell'Upim con il giradischi dentro. Il disco è buono, non ha troppi momenti di adrenalina ma cala solo raramente.
Insomma va bene, va bene: niente per cui strapparsi i capelli ma co' 'sti chiari di luna ditemi voi se già non è qualcosa.

Sentenza: 3,5/5

30 giugno 2011

Mean Jeans: Are you serious? (Dirtnap - 2009), ovvero: Da grande voglio essere qualcun altro.

Allora esattamente come Mark Chapman aveva sparato a John Lennon perché gliel’aveva detto Gesù, o Satana, adesso non ricordo ma dopotutto credo sia uguale, io mi sono procurato il disco dei Mean Jeans perché me l’ha detto Ratboy69. Ora voi potreste chiedermi chi è Ratboy69 ma son sicuro che Google ve lo dirà meglio di me, cosa più o meno valida per qualsiasi cosa tranne – forse – quello che sto per dirvi.
Io sono contento, quasi sempre, di ascoltare musica che si rifà direttamente ai capostipiti, nel senso: dopo aver ascoltato per anni roba derivativa che si rifaceva a una sola città o a una sola etichetta o addirittura a un solo LOCALE, perdio, avere tra le mani un gruppo che pota la fuffa (bella ‘sta frase) e salta a pié pari al centro della questione è rinfrescante, corroborante, e pure incoraggiante: scoprire che nonostante i decenni passati gli eroi della tua infanzia continuano ad essere eroi dell’infanzia di qualcun altro ti fa sentire meno solo, e detto tra noi ti autorizza pure a tirartela perché li hai scoperti prima tu e queste mezze seghe ti possono soltanto che offrire da bere. Ma la polemica dopo. Per una volta.
Insomma ’sti Mean Jeans sono tre manici di scopa di Portland, non ci metterei la mano sul fuoco che siano maggiorenni, ed escono per un’etichetta piccolissima e coraggiosa. Non c’è assolutamente motivo per NON dargli una chance, tanto più che il disco dura 25 minuti e io se c’è una cosa che premio a prescindere è il dono della sintesi, tanto più da quando sono diventato vecchio e impaziente (in opposizione a quando ero giovane e impaziente, ma lasciamo perdere).
I Mean Jeans, detto questo, se chiudete gli occhi – o se state camminando sotto il sole giaguaro delle quattro di pomeriggio di un fine giugno qualsiasi che non è qualsiasi ma QUESTO, che già ci stanno dicendo sarà il fine giugno dell’estate più calda da parecchio – ve li vedete, tutti e tre, con le magliette attillatissime (il batterista no, il batterista non ce l’ha, la maglietta) a suonare dentro un club scuro scuro, pieno di gente con i giacchetti di pelle e le Converse, e rigorosamente senza palco (e fin qui va bene), e magicamente sarà la musica sarà il caldo bestia sarà l’asfalto che evapora e chissà che visioni provoca, il locale si trasforma nel CBGB, è il 1976 e i tre manici di scopa in realtà sono quattro e noi sappiamo benissimo tutti i loro nomi, e anche il loro cognome che poi è la cosa più importante.
Insomma che i Mean Jeans non solo si ispirino, non solo paghino tributo ma vogliano senza troppe chiacchiere ESSERE i Ramones è chiaro come il sole di questo fine giugno tanto che proprio come questo sole di fine giugno non si può guardare.

Cosa voglio dire con questo:
Mi stanno simpatici e suscitano tenerezza i gruppi che coronano senza timore i loro anni di studio, soprattutto in ambito punk rock, ma il punk rock è un campo minato, la sua inclinazione alla semplicità, unita al suo calendario pieno zeppo di santi e semidei da venerare è cosa da prendere con la massima delicatezza.
Già perché se ascoltando i Mean Jeans mi viene voglia di ascoltare i Ramones è un conto, ma se ascoltando i Mean Jeans mi rendo conto che TANTO VALE ascoltare i Ramones, allora abbiamo un problema. Che poi per carità, io pure sto ancora rosicando che sia morto Joey e che Marky vada in giro con un suo manichino a fare tournée patetiche come un parrucchino, e a ben pensarci rosico che i Ramones non abbiano saputo quando tirare giù la saracinesca e che non abbiano saputo gestire tutta la seconda metà degli anni 80, io rosico per un botto di cose e anche io vorrei tanto svegliarmi una mattina e sapere che oggi esce Leave Home ma non è così: ma con questa cosa tocca farci PACE, non i DISCHI.
Quindi in definitiva io personalmente non sono sicuro che i Mean Jeans abbiano fatto un buon lavoro, nel senso: Are you serious è cariiiiiiino cariiiiiino, ve la farà prendere a bene e per l’estate è una mano santa ma se esce un'altra cosa loro io penserò Ah da paura i Mean Jeans me li ricordo no non me li ricordo, no, me li ricordo benissimo ma non erano loro: erano i Ramones.
Ecco perché i Mean Jeans mi hanno divertito tanto e ve li consiglierei pure.
Ascoltateveli, ascoltateveli voi, così almeno qualcuno se li ascolta, perché io, veramente: non credo che mai più.

Sentenza: 2/5

28 giugno 2011

La morte, la vita e l'assolo di Jungleland

La vita è un mozzico, Big Man, lo diceva sempre l'amico mio, diceva: “La vita è un mozzico”. Nel mio dialetto significa più o meno che tanto vale godersi quel che viene senza tenersi ceci in bocca, senza censurare i propri istinti, bassi o elevati che siano, e senza amareggiarsi troppo quando le cose non vanno: la vita è un mozzico, Big Man.
Così mentre tu un paio di sabati fa, ti facevi venire un ictus e te ne andavi trasportato da una brass band di angeli tutti neri di pelle e bianchi di veste, io venivo travolto da un lutto personale, familiare, di quelli che resti impietrito per mesi con la paranoia che possa succedere QUALUNQUE cosa a CHIUNQUE sia solo minimamente legato a te.
Così, mentre lo tsunami emotivo mi travolgeva venivo a conoscenza della tua dipartita e, francamente – spero non te abbia a male – là per là ho pensato: “È morto PURE Clarence Clemons... vabbè, ’sti cazzi”.
I dispiaceri personali incidono la nostra scorza più degli eventi storici: vediamo di capirci Big Man.
Alla persona che ho perduto si è spezzato il cuore, letteralmente. Nella vita non ha goduto di uno solo degli agi e della gloria nei quali invece hai meritatamente sguazzato tu grazie ai tuoi talenti: dovrei essere dispiaciuto per te?

Non fraintendermi, lo so che la tua scomparsa si misura su una scala di valori differente. So riconoscere con facilità l'importanza del tuo contributo alla storia del rock’n’roll – lo so che col tuo stile hai definito uno standard impensabile. Il linguaggio del sax, nel rock, ha fatto storcere la bocca a tanti, dal derisorio purista jazzofilo al rockettaro tutto ortodossia e chitarroni ma tu sei riuscito a rendere credibile e gagliardo un vocabolario che nella maggior parte dei casi (Sonics esclusi) smosciava la pompa selvaggia del combo rockarolla o, peggio, imbarocchiva a dismisura lo spartano frasario che il genere richiede. Lo so che sei stato un grande.
E devo anche constatare che, in culo ai fichetti mezze seghe che non hanno mai compreso il tuo “Roboante artigianato” sei comunque riuscito ad infilarti nel gotha dei sassofonisti no-jazz insieme a, che ne so, James Chance (infinitamente più geniale di te, ammettilo...) che invece LORO apprezzano assai. Bel dispetto Big Man, bella mossa.
Che lo si voglia o no sei nella storia e il fatto di non essere mai stato un genio ma semplicemente un bravo suonatore con un gran cuore e un orecchio attento alle direttive del tuo Boss ti rende, agli occhi miei, anche più simpatico.

Dell'importanza della tua figura nell'estetica della E Street Band e del tuo essenziale apporto al sound di una delle migliori e più celebrate band di tutti i tempi penso abbiano scritto e scriveranno abbastanza altri, meglio informati e fomentati di me al momento.
Quanto a me, invece, ti giunga il sentito ringraziamento per aver composto la colonna sonora dei miei romantici sogni di giovane uomo, sull'assolo di Jungleland, prima del epilogo esistenzialista di questa saga urbana in 4 tempi, quando in quella lunga nota d'attacco precipitavo in uno squarcio dello spazio-tempo e danzavo con la mia bella (che spesso era immaginaria) in un'improbabile notte stellata di New York City.
In quel mozzico che è la MIA vita, ci sei stato e ci sarai anche te.

25 giugno 2011

Dr. Dog: Easy beat [Park the van, 2005]

Ci sono due possibili recensioni di questo disco. Sono entrambe pessime.
Ad ogni modo: questa è una.

Ah i Dr. Dog dov'è che ne avevo sentito parlare non mi ricordo mettiamoli su vediamo ah ecco c'è dell'americana e poi ci stanno i kinks e tutto è condito di una certa bislacca angolosità alla pavement e poi c'è il post-rock e il kraut-rock tante tantissime cose loro si vede che sono intellettuali che prendono tutto poco sul serio anche se stessi talmente poco sul serio che poi fanno il giro e prendono un sacco sul serio il loro non prendersi sul serio e poi c'è bowie e tutto suona come se fosse registrato con un Nagra dell'OSS e le canzoni serpeggiano e deviano come fiumiciattoli ma non vanno da nessuna parte sono degli sketch di ispirazione che però non si incollano una all'altra c'è tutto un filone di indie rock che va avanti così si vedere che la forma canzone gli sta sul cazzo ma a me non mi sta sul cazzo e a me questi mi sembrano dei tizi che non si capiva bene cosa volevano fare e nel frattempo hanno fatto tutto e dev'essere per questo che m'è venuta un'improvvisa voglia di ascoltarmi i Meters.

Questa è un'altra:
Madonna che palle ma quando finisce sto disco oddio sto ancora a metà non ci posso credere mamma mia che palle che palle chppll non è possibile ma come mi è venuto in mente ma perché pitchfork non si fa i cazzi suoi ma perché mi fido ma perché ma perché non ascolto solo i Meters?

21 giugno 2011

Un invito al cinema

Roberta Bla scrive:
ieri io ho visto il film piu brutto. Ti prego guardalo

Cane scrive:
ok
spara.

Roberta Bla scrive:
The Tree of Life
no, va bè: un misto tra l'acquario di genova e super quark. ti prego guardalo.
tutto. sono 2 ore e 15 minuti

Cane scrive:
ah

Roberta Bla scrive:
eh.

Cane scrive:
gli ambienti snob
si riferiscono a questo film semplicemente come
(pausa drammatica)
Il nuovo Terrence Malick.
(occhiata d'intesa)

Roberta Bla scrive:
ahahahah giuro la sala rideva per le stronzate che dicevo. del tutto appropriate, poi capirai. "piero angela ha preso parte al progetto, e anche lara croft volendo. che della jolie c'è il marito con un labbro insolitamente storto, non si sa se per autorità paterna o per semplice paralisi da post trauma copione."

Cane scrive:
continua ti prego
sto annotando minuziosamente.

Roberta Bla scrive:
beh. beh. poi appare un sean penn e tutti si credono salvi. ma invece il caro ex consigliere comunale gay di castro finisce per alienarsi in terre inesistenti tra meteoriti e ghiacciai, in smoking, cercando il suo vero io, una sorta di seduta di quei gruppi di fight club dove la marla scivolava con i pinguini

Roberta Bla scrive:
anyway, quando l'avrai visto

Roberta Bla scrive:
ci faremo due risate.

I'ts kind of a funny story (Ryan Fleck, Anna Boden - 2010)

Un pischelletto americano di sedici anni si vuole ammazzare però non si ammazza e chiede di essere ammesso in una clinica psichiatrica dove trova se stesso e l'ammore (con due M); nel frattempo, capisce che stava sbagliando tutto e che si stava mettendo troppa pressione addosso e che non voleva fare niente di quello che pensava di voler fare e riesce pure a sbloccare un paio di casi clinici, tiè, che altro andate cercando?
Quindi vediamo un po': scoperta del proprio vero io, contatto con le proprie emozioni, autoaccettazione zen-fricchetton-californiana, ragazzina problematica con la maglietta degli Stooges, Galifianakis fa il disagiato, Emma Roberts è bona, tutto è perfettamente leggibile come un cartello autostradale.
Sì, questo film è la pasta al burro.
Però almeno Jeremy Davies per una volta non fa la breakdance al rallentatore: meno male, va'.

sentenza: 2/5

20 giugno 2011

Tedeschi Trucks Band: Revelator (Columbia Legacy - 2011)

Derek io ti voglio bene e pure tanto, Derek tu sei una delle poche persone per cui metterei in dubbio alcune certezze sessuali mie che mo' non ti sto a dire. Ti stimo e non perdo una cosa di quello che fai. Roadsongs non era un granché ma non ti sono stato a cacare il cazzo, però adesso due o tre cose te le devo dire.
Sta bene che tua moglie è una bella fiòla e je vòi tantobbène e c'ha pure una bella voce però guarda che solo con l'amore non ce li alzi 61 minuti di disco, nel senso: teoricamente è un bel disco, c'è il soul, c'è il blues - tanto - c'è l'r&b e c'è pure un bel po' di sudore NOLAno, e ci sono dei pezzi anche carini che io insomma al volante di una macchina su un'autostrada mi ci sono anche immaginato e mentre spolveravo ho pensato Questa canzone (che poi è Midnight in Harlem, se non ricordo male) starebbe bene in una playlist da viaggio notturno se mai ne avessi una ma prima o poi ce l'avrò. Però ecco, ci sono dei momenti che l'occhietto sul timer della traccia un paio di volte m'è cascato e mi sono chiesto se per qualche motivo stessi viaggiando indietro nel tempo. Quindi meno cose, Derek, che io ho capito che essere cresciuti con gli Allman Brothers, per te la stringatezza questa sconosciuta, però ecco, meno cose uguale, che alcuni pezzi m'hanno fatto l'effetto del petto di pollo appena tolto dal frigo e senza manco un filo di maionese.
E poi un'altra cosa, Derek, tua moglie abbiamo detto sì bella brava bella voce interpreta bene siamo d'accordo, ma come solista non è mai stata 'sto che, e non mi venire a dire Però è brava per essere una donna, perché non attacca. Quindi fai una cosa buona, Derek: fai il maschio di casa e IMPEDISCI a tua moglie di fare gli assoli, tanto basti tu. È semplice, vai da tua moglie e le fai Susan, se fai un assolo ti spezzo le dita. Credimi, funziona. Così poi magari che ne sai, funziona anche il disco prossimo.
Ah, e già che ci siamo, cacci 'sto cantante de mmerda che te ritrovi che è l'unico nero al mondo che fa l'imitazione di Joe Cocker? Sii bono, su.

Sentenza: 3/5

18 giugno 2011

Sucker Punch (Zach Snyder, 2011)

Allora quindi ricapitolando: c'è questa pischella che viene rinchiusa in manicomio dal patrigno perché ha rosicato per una faccenda d'eredita, e mo' finisce lobotomizzata perché sempre il patrigno si mette d'accordo con un infermiere fiodenamignotta, però quando Don Draper sta per esaudire i suoi sogni ramonesiani, si ferma tutto e siamo in un vaudeville che secondo imdb è negli anni 60 ma potrebbe essere in qualsiasi momento del XX secolo e lei non è più una presunta pazza ma una ballerina costretta a fare un po' la mignotta. Tuttavia per sfuggire a questa situazione di disagio, sta pora fija quando vede le brutte danza e la danza diventa un'ULTERIORE dimensione fittizia in cui lei è una specie di Beatrix Kiddo che ammazza i mostri in slow motion e così affronta e risolve le situazioni sul piano della realtà che poi si capisce subito che realtà non è. Bene. In questo modo la porafija architetta un piano di fuga che coinvolge anche tre altre porefije (di una abbiamo visto le tette su internet).
Ora, il film va a finire in maniera veramente poco sorprendente, è cattolico, inesorabile, mai una gioia; ma non è questo il punto.
Il punto è che nonostante il film contenga delle lezioni sulla fiducia in se stessi, e sull'essere padroni del proprio destino, e insegni che anche in condizioni di grande difficoltà una soluzione c'è sempre, questo film è boh, ciclotimico.
Già perché la differenza tra il ritmo delle scene d'azione (che è forsennato, alla scena del dirigibile pure un po' di capogiro, e non erano le quattro peroni, sono mica un principiante) e quello verameeeente blando delle parti di sviluppo e dialogo è veramente smisurata, e posso anche capire che tutto il film è basato sui diversi livelli di realtà e di percezione che più che intersecarsi si avvicendano, ma il risultato è un po' straniante, e viene accentuato da continui elementi di destabilizzazione - e non parlo tanto della presenza di armi fantascientifiche nell'immaginario di una post-adolescente degli anni 60 quanto anche dell'uso di pop songs nel normale flusso narrativo, che spesso e malvolentieri accentua il taglio da videoclip a cui il film ammicca anche troppo.
Non solo, il film è anche strutturato a livelli. Ma attenzione: NON livelli narrativi o che, a livelli come un videogioco, come SuperMario, o boh, Tekken. Le scene di combattimento sono sequenziali e progressive, di intensità, coreografia e complessità sempre crescenti, e con tanto di briefing iniziale e bullet time come uno sparatutto degno di questo nome (e credetemi, io ne ho giocati, io ho occhiali con la montatura nera). In questo modo, la quasi catatonia delle scene di non-combattimento non fanno altro che aumentare l'attesa del prossimo carnevale in CGI montato al microsecondo, il che è curioso, tenuto conto che il film vuole veicolarti una morale, e nemmeno tanto implicitamente. Insomma non è Scott Pilgrim vs. the world, tanto più che ve lo dico, Sucker Punch non fa ridere PER NIENTE, manco una risata, zero, nada: possono farvi il calco della faccia nel frattempo.

Insomma io ho capito che Tarantino ha aperto il filone dello zuppone postmoderno anche nel mainstream milionario hollywoodiano, e sono anche sicuro che Snyder prima o poi un film in cui tutti questi contesti diversi verranno omogeneizzati piuttosto che giustapposti lo farà, dato che con questo c'è andato vicino (e in culo al genietto di Knoxville), però io normalmente tendo sempre ad avere in uggia di chi fa un film e poi si sbrodola e perde di vista il fatto che:
1. se mi devi raccontare una storia raccontala e non rompere il cazzo (insomma: SOOONAAAA!)
2. se non mi devi raccontare una storia, almeno fammela vedere una sisa, e invece in 1 ora e 49 minuti di Sucker Punch, nonostante quattro puelle di invidabile fattura, di sise, nemmeno l'ombra.
Quindi ha detto bene Valerio dopo meno di mezz'ora dall'inizio: Se fossi stato al cinema mi sarei già addormentato, questo è il film più lento di sempre.
È vero, ho pensato, e dire che lui non ha nemmeno visto il Nosferatu di Herzog.
Io invece sì.
Cioè, capito?

6 giugno 2011

Jim Carroll: The land of laughs

e chi se lo ricordava che carroll scriveva come quando hai sedici anni e scrivi una storiella e dici Allora questa storia fa così e così c'è tizio e c'è caio tizio dice questo e caio dice quest'altro e poi succede questa cosa e tizio pensa e caio dice io pensavo che scrivere fosse una cosa un po' più complicata che tirasse in ballo che ne so un retroterra psicologico o culturale e invece i personaggi di carroll hanno due dimensioni e vivono unicamente nella storia il libro è il mondo non c'è niente fuori e se vogliamo ci sta pure perché lui scrive cose surreali insomma questo libro è una variazione sul tema È tutto scritto e la vita non segue che un percorso già segnato da qualcuno che in questo caso è il protagonista come quasi sempre sennò è dio e noi stiamo leggendo la bibbia non questo carroll che tutto sommato ricordavo che doveva essere un po' meglio l'avrò letto da qualche parte non ricordo dove maledetti critici marchettari.

The Green Hornet (Michel Gondry, 2011)

Sarà il caldo sarà la domenica quello che vi pare però ieri ho pensato che non avendo niente di meglio da fare tanto valeva guardarsi The green hornet. Sì, sì, ho pensato proprio TANTO VALE guardarsi The green hornet perché adesso ve lo spiego perché.
Abbiamo capito, ci sono sempre un milione e mezzo di motivi per guardarsi un film e per questo film ce n'erano diversi: è diretto da Gondry e poi c'è dentro Rogen che finora non ne ha sbagliata una e questo film l'ha pure scritto. Quindi mettiamo su questo film che i presupposti ci sono, ho visto cose che si preannunciavano peggiori per molto meno.
Allora questo film parte e l'impressione che hai è che Rogen sia capitato su un set di un film che non è il suo e abbia recitato una parte che non è di quel film e nessuno se ne sia accorto. Eh sì perché lui dovrebbe essere il figlio di un magnate della stampa che a un certo punto decide di diventare una specie di kingpin clandestino e tu dovresti capire il perché, e invece lui continua ad essere Ben Stone, lo sfigatello goffo dal cuore tenero di Knocked Up. Cioè, intorno a lui esplodono macchine e ci sono dei ninja che fanno volare shuriken e pure il bullet count è piuttosto elevato, e lui dice Woah da paura. E te pensi Mmm...
Allora dici Ok, probabilmente questo film parte come una specie di mobiletto fatto coi rimasugli in maniera tale che capisci dal loro tono le scelte successive dei personaggi e poi però si amalgama un po' meglio e col tempo si rivela solido e affidabile. Poi però no.
Allora cerchi di darti una spiegazione diversa, dici Ho capito, questo è un film fumetto scritto da nerd che finalmente fanno la parte di un supereroe ma non rinunciano a metterci dentro l'umorismo da everyman che dissacra e umanizza la figura del vendicatore mascherato, e questo tutto sommato, ma dico TUTTO sommato è finora l'unica spiegazione che mi sono dato. Pure l'assolo di regia con gli effetti di Gondry volendo te la spieghi così. Ma pure volendo è poco, pochissimo, cioè se io non sapessi di chi è Rogen e cos'ha fatto questo film mi sembrerebbe SBAGLIATO. Magari voi mi chiederete Perché non puoi partire da questo presupposto con lui, cioè con Woody Allen devi sempre ricordarti che stai guardando un film di Woody Allen e con Rogen no? Voi potete chiedermelo ma io vi chiederei di contro Mi state davvero facendo questa domanda?
E nel frattempo il film va avanti e esplodono ancora più cose e lui è sempre Ben Stone e dopo aver fatto pace col fatto che qualcosa che non torna adesso devi far pace col fatto che qualcosa non tornerà fino alla fine e inizi a star seduto scomodo come se avessi portato degli amici a vedere Aspettando Godot e non sapevi che era una versione musical gay con dentro pezzi di cartone animato e documentari sui mattatoi. Cioè, davvero, troppe cose tutte insieme.
E poi Cameron Diaz sta iniziando a invecchiare, si vede proprio.

Sentenza: 3/5

2 giugno 2011

Broken Social Scene: Bee hives (Arts & Crafts, 2004)

Sarà che me la vado pure a cercare ad ascoltare un disco di B-sides dei Broken Social Scene i cui A-sides già non brillano in quanto ad amichevolezza, però metti che un giorno tra un tot di anni in un domani post-atomico qualcuno dovesse trovare questo disco tra i rifiuti tra le macerie, io lo faccio per i posteri di ascoltare tutto e allora questo è un messaggio per i nostri discendenti, un memento scagliato dritto nel futuro:
A regà, lasciate perdere questo disco, dura cinquanta minuti scarsi e non succede NIENTE, o peggio: a un certo punto PARE che stia succedendo qualcosa perché in mezzo a questa specie di silenzio molliccio che fa da brodo di cottura a tutto il disco, parte un accenno un microtema un abbozzo di canzone qualcosa e voi penserete Beh meno male, e invece NIENTE, non succede NIENTE e se succede qualcosa poi lo RIPETONO finché non dite Aò. Lasciate perdere, posteri. Piuttosto, continuate a scavare nelle macerie che magari trovate un cofanetto di Sanford & Sons.
Verdetto: ** (ma solo per Lover's spit che ci voleva Feist per fargliene imbroccare una, a 'sti pallosi)

23 maggio 2011

Connan Mockasin: Please turn me into the snat (Phantasy Sound, 2010)

In permesso dalla clinica psichiatrica, i Radiohead fanno una festa sotto un lago con David Bowie e a un certo punto saltano fuori una valigia piena di pillole e un Harmonizer settato sul detune. Voi volete sentire questa musica, voi dovete sentire questa musica nonostante sia OVVIO che non è per tutti.

Sentenza: ****

14 maggio 2011

Jonathan Lethem: La fortezza della solitudine

anzo di de-formazione una specie di bildungsroman controvoglia perché nessuno di questi due ragazzini alla fine riesce a fare pace col fatto che le strade in cui sono cresciuti ormai sono sparite e non solo dentro di loro ma perché quella brooklyn innocente alla vigilia delle tensioni razziali dell'esplosione di criminalità della fine degli anni 70 sparisce letteralmente come risultato di un gioco di prestigio della borghesia che riesce a trasformare quei quartieri per anni capitale del borseggio in un nuovo polo del fighetto e allora non c'è più posto per dylan il bianco che cercherà se stesso nell'indagine sulla negritudine più pura della musica soul dylan il bianco che cresce all'ombra del suo amico mingus rude il nero e di suo padre barrett rude jr. astro minore e misconosciuto della musica nera e del loro fascino e del loro carisma in opposizione a quello di suo padre eremita dell'avanguardia artistica che meno male che non è venuto su come woody allen mentre mingus invece che cercarsi si perderà in una foresta di decisioni sbagliate che lo porteranno dietro le sbarre da cui dylan stesso cercherà di tirarlo fuori con l'aiuto di un anello magico regalatogli proprio così da un barbone nero che sosteneva di poterci volare con quell'anello ecco questa cosa di questo libro si capisce poco però pure noi uno sforzo di immaginazione ce lo dobbiamo fare perché è chiaro che la realtà e la trasfigurazione si possono mischiare e come potrebbe essere altrimenti in un libro in cui il protagonista cerca di tornare alla purezza del suo essere bambino in maniera costante e testar 

nclusione soltanto dylan riuscirà a fare pace con il bilancio della sua innocenza perduta nel ripercorrere a ritroso i suoi passi dalla california in cui si trasferisce e inizia ad affastellare progetti fino alla brooklyn ormai gentrificata e completamente trasformata incomprensibile ai suoi occhi di adulto disincantato che continua a sentire la musica soul trasudare dalle finestre e vedere i suoi amici d'infanzia rincorrersi tra le macchine prima di diventare ciò che un destino carentissimo di fantasia riserverà loro ecco in questo senso la fortezza della solitudine è la racconta di una lunga lenta e inesorabile sconfitta di tutti i personaggi che dovranno rinunciare a diventare ciò che vogliono per diventare invece ciò che non possono fare altro che essere e allora è normale che questo anello magico che da bambino ti faceva volare e ti elevava da queste strade che iniziavano a putrefarsi di buchi nelle braccia e denti marci inizia a farti diventare invisibile che casomai ti guardi in uno specchio e non hai idea di cosa sei ora i conti non tornerebbero per nien 

zza della solitudine è un contraltare o elemento del coro in una tragedia in cui pastorale americana è protagonista è un romanzo dell'incubo americano da cui nessuno riesce a svegliarsi e allora quantomeno si provano a fare degli esercizi di concentrazione per vedere se si riesce a pilotarlo questo sogno perverso e catastrofico che poi è la vita se la guardi da una certa aqngolazione che poi è l'unica possibile almeno per questa gente che si vede che sta talmente male da scrivere dei capolav

George Martin: All you need is ears

beh io pensavo che leggendo l'autobiografia di george martin avrei imparato qualcosina in più sui beatles perché dopotutto diciamocelo george martin non ha l'aria di essere la persona più interessante del mondo almeno a livello autobiografico se non fosse appunto stato per i beatles perché prima dei beatles lui era un semplice funzionario della emi che sì ok era già la emi e faceva uscire i dischi di peter sellers e spike milligan o non mi ricordo però niente in confronto ai beatles il nome di george martin sarà per sempre legato a quello dei beatles perché insomma lui era il produttore dei beatles è quello che ha permesso ai beatles di diventare i beatles mica cazzi allora io ho pensato Leggendo la biografia di george martin capirò qualcosa di più sui beatles e sul modo in cui sono stati fatti i dischi dei beatles e in realtà poi leggendo la biografia di george martin ho capito che lui dei beatles ne certamente per una larga porzione ma c'è anche dell'altro che però io non ricordo perché a me interessava solo dei beatles insomma a una certa salta fuori dudley moore e uno scazzo in termini di soldi con la emi e la salvezza della parlophone e la creazione di un'altra casa discografica sua che pensate quanto me ne importava da non ricordarmi nemmeno il nome quindi alla fine tendenzialmente se volete sapere qualcosa di preciso su come sono stati fatti i dischi dei beatles sì questo libro leggetevelo però insomma guardatevi l'anthology.

19 aprile 2011

fidarsi è bene, non fidarsi è meglio ma in questo caso fidarsi, fidatevi.

Cuoco, Cuoco, io lo so che non ti sfugge niente e che probabilmente segnalandoti questa chicca ti sto parlando dell'acqua calda ma tu devi, tu devi, tu devi ascoltare Anna Calvi.
Io la prima volta che mi hanno detto Ah Anna Calvi mi sono pure mezzo stranito ma questo è un altro discorso che poi ti farò con una grappa in mano, io la prima volta che mi hanno detto Ah Anna Calvi mi hanno detto E' una che l'ha scoperta Nick Cave è una cantantessa mica male tiè ascolta e il pezzo che mi hanno fatto ascoltare è un singolo che si chiama Desire che io la prima volta che l'ho ascoltato la prima volta che mi hanno detto Ah Anna Calvi ho pensato Ah allora vedi che il collegamento tra l'indie rock e Springsteen non è una cosa che avevano capito solo gli Arcade Fire? E' possibile mettere d'accordo il folk erudito e quello di strada, tra il New Jersey ormai epico e il Canada che dopo gli anni 90 c'ha pure ragione ad averci la puzza sotto il naso.
Ma andiamo con ordine: Ah Anna Calvi, non si capisce quanti anni ha ma di sicuro meno di 30 e se ce la vogliamo azzardare è addirittura possibile che ne abbia meno di 25, insomma lei è inglese e non si direbbe anche se sì, e il suo lancio - lo leggi ovunque - è che Brian Eno ha detto che è la mejo cosa dopo Patti Smith. Oh, Brian Eno, non Vincenzo Mollica: Brian Eno il principe dell'understatement, uno che una cosa del genere probabilmente non la direbbe nemmeno a Patti Smith.
Dice che suo padre stava in fissa coi dischi e perdio se questa cosa si sente. Già, caro cuoco, perché alla signorina Calvi si sente che non solo i riferimenti non mancano, ma li ha interiorizzati in maniera talmente radicale che non può aprire bocca o muovere le mani senza farli schizzare come scintille. Ma andiamo - di nuovo - con ordine.
Insomma mi dicono Ah Anna Calvi andiamo a sentircela al Circolo degli Artisti e io Va bene, che dopotutto ero in una delle migliori settimane della mia vita e avrei detto Sì anche agli Inti Illimani alla basilica di Massenzio (non è vero e lo sai, ma è per farti capire) e quello che vedo è una minuscola bionda boccoluta con una tele sunburst già mezza magnata che quasi la nasconde (essendo appunto minuscola, già detto). Insieme a lei una pischella che a giudicare dall'impalcatura dietro la quale si va a posizionare suona tutti gli strumenti e le loro nonne, e un batterista. Ma attenzione: non uno di questi emaciati mingherlini; uno con due spalle così, con i MUSCOLI che infatti quando suona il colpo è secco, non occorre lavorare troppo di expander e io che ho avuto la fortuna di stare per un pezzettino dietro il fonico vedevo questi VU che saltavano come cocainomani, una bellezza, una bellezza, non me l'aspettavo. E tra l'altro questa cosa è un bene, dato che come bene sai, al Circolo ti tocca suonare per forza più forte del locale altrimenti la sua rinomata acustica di merda ti castiga. E qui succede il miracolo.
Quando questa gnappetta bionda coi pantaloni a vita alta che pare una Marlene torera inizia a cantare, si spegne la luce, anzi: la luce s'è già spenta perché prima di cantare ha iniziato a suonare e io non ho mai sentito una donna suonare così bene l'elettrica. Nel senso, avere questa sintesi tra tocco, suono (hai presente quella zona dorata in cui se spingi un po' più sulle corde l'ampli inizia a frignare, hai presente) e scioltezza: la regazzetta si permette pure degli svolazzi niente male che più di una volta m'è toccato di dire Woah. Lo stesso approccio, cuoco, lei ce l'ha anche vocalmente: tutto, tutto, viene guidato sulla sottilissima linea che separa la quiete dal fragore, e la musica è dinamica, dinamicissima, oltre che, e questa è la cosa notevolissima, scritta da paura.

Le canzoni di Anna Calvi sono una prova di cultura singolarissima. Lei si sente proprio che deve aver passato tutta la sua adolescenza ad ascoltare dischi con attenzione religiosa (il che mi fa strano perché è pure una discreta sventola, vuol dire che c'è giustizia a questo mondo) perché non solo la scrittura è articolatissima e coraggiosa, in grado di ridere e piangere, di colpire e di accarezzare, ma è nei dettagli che nasconde le grazie migliori. A differenza dei e delle indie rockers contemporanee, il suo approccio è tutt'altro che minimale: dal suono alle progressioni spesso mira al sontuoso, al prezioso (benché per fortuna mai al preziosismo), e aggiunge senza mai nemmeno avvicinarsi ad essere stucchevole.
Insomma un incrocio tra Buckley figlio, Patti, il miglior indie folk odierno (leggi Arcade Fire, appunto) e un continuo incrociare rotte percorse e intrecciare discorsi già presi: la severità wave, la forza d'urto di uno stadium rock innico (il prossimo che dice anthemico gli taglio i pollici), e il baroque pop più caloroso e avvolgente. Il tutto con dentro una tele suonata benissimo e riverbero-a-mollata al punto da strizzare un occhio al surf So-Cal e uno a Ribot nel deserto; colori e strati di suono e una batteria che pare prodotta da Steve Albini, ma non lo è perché per fortuna è più tiepida.
E questo solo il suono, perché la sua voce, impietosa, approfondisce e scava: sia dentro il tuo petto che dentro decenni di musica buona: Patti, la Callas, Yma (in basso), Jeff e Ian pure, più tanta chanson noir. Mai punk, eh, zero punk: limpida e diaframmatica come poche ne ho sentite: però che botte, perdio.
Io, cuoco, quando sono uscito dal Circolo ho pensato Oh Anna Calvi, e questo è quello che dico da allora, dato che tra l'altro è la cosa migliore che ho sentito da un bel po' di tempo a questa parte, che di cose ne sto sentendo a nastro che sembra che non ho mai tempo e invece il disco suo l'ho già sentito tre volte in una settimana
Cioè, quando mai.

4 aprile 2011

José Saramago: Memoriale del convento (director's cut)

a sarama' ho capito: santo lazzaro e santo barnaba e santo marcello e santo eusebio e santo ciro e santo giovanni e santo michele e santo antonio e santo massimiliano kolbe e i santissimi cosma e damiano ho capito sarama'. ennamo su.
questo libro è come quando la pischella te la dà una volta al mese.

3 aprile 2011

un eterno zero a zero

José Saramago
Memoriale del Convento
Feltrinelli - 1987

Io a Saramago gli voglio tanto bene, lui è uno degli scrittori che consiglierei e consiglio a chiunque, in qualsiasi circostanza, ammesso che abbia le spalle abbastanza larghe da sostenere il peso di ognuna delle sue righe, che sono tante e non vanno a capo se non quando finisce il foglio, e la mente – pure – abbastanza larga da fa passare l’ampiezza di una narrazione che a tratti sembra non avere soluzione di continuità, nemmeno quella dell’interpunzione che sappiamo benissimo è ridotta all’osso: virgole e punti perché insomma, Poche chiacchiere, dice Saramago, e ha ragione: tutto quello che scrive serve e poche volte ne ho dubitato.
Io di Saramago ho letto buona parte della produzione e ho sempre chiuso il libro con un senso di pienezza, di sazietà e di leggera ebbrezza, come dopo un pasto lauto e carico di sapori genuini, veraci, raramente sofisticati, quanto piuttosto figli di una tradizione popolare, benché elevata da un’erudizione ai limiti dell’enciclopedico.
Bene. Ora:
Sul Memoriale del convento mi avevano preallarmato: mi avevano detto che non era la cosa più brillante che aveva scritto. Ed è vero. Ci mancherebbe, il libro ha esattamente lo stesso carattere di ciò che racconta, ed è il tentativo di liberarsi dal fango dell’epoca ed erigersi verso l’alto. Lo fa re Giovanni V con la costruzione del convento a Mafra, lo fa l’infanta al termine del romanzo nelle sue nozze che la libereranno dalla bruttezza da cui è piagata dalla nascita, lo fanno Baltasar e Blimunda, i due effettivi protagonisti del romanzo, nell’aiutare il padre Bartolomeu in odor d’alchimia a costruire una macchina volante.
Né manca l’elemento surreale, come altrove nella sua letteratura: al di là della macchina che effettivamente riuscirà a volare, la capacità di Blimunda, orfana di rogo, di vedere sotto la pelle delle persone, cosa che le permetterà di collezionare le volontà, uno degli ingredienti della ricetta alchemica che permetterà all’uccello meccanico di spiccare il volo.
Ciò che non spicca il volo, invece, o che almeno non riesce a mantenere quota, è il tono generale del romanzo, che più che in altri libri del portoghese è un centellinare continuo di intuizioni, verità e avvenimenti, un continuo temporeggiare e ritardare l’azione del romanzo, per attardarsi non solo in riflessioni continue su ciò che è in cielo e in terra, superbamente filtrate dall’ottica del tempo (e ciò sarebbe bene), ma impastoiate da ripetute e lunghe enumerazioni che va bene rispecchino le litanie che punteggiavano il quotidiano dell’epoca, però più volte suscitano impazienza.
Difficile insomma resistere alla tentazione di scavalcare qualche riga durante le elencazioni dal sapore omerico del corteo del re che accompagna la figlia a sposarsi, delle statue di santi e degli ordini monastici nelle processioni che tornano e ritornano nel libro, seguite e osservate appassionatamente dal popolo, anch’esso rapito nel tentativo di elevazione – più sensuale che spiriturale.
Insomma, chi sosteneva che Memoriale del convento è un libro “pesante” anche nel senso più banale del termine, aveva ragione. Abituati a una scrittura e a delle vicende che sanno anche accattivare, il Saramago del Memoriale risulta un po’ stoppaccioso e difficile da mandare giù, anche per i lettori più pazienti. Se dovete iniziare a leggerlo, iniziate da altrove, se invece andate di fretta, io direi quasi che potreste pure passare avanti, ecco.

30 marzo 2011

Dakota Suite: The end of trying (Karaoke Kalk, 2009)

Tristi e intensi come poche altre cose al mondo, i Dakota Suite sono un trio chamber ambient postrock (ammesso che significhi qualcosa) ampiamente debitori dell'approccio elettro-orchestrale di gente come Rachel's (di cui ricordano lo struggimento) e della levità ambient di gente come Harold Budd (di cui ricordano la scrittura). The end of trying è un disco che vi strappa il cuore dal petto, tenetelo a mente, ma almeno oltre al cuore tira fuori il poeta che è in voi. Avercene, insomma.
5/5

25 marzo 2011

Black Moses: Royal stink (Times Beach, 2004)

Seriamente, ragazzi, a meno che non stiate in fissa con i New York Dolls più di quanto vogliate ammetterlo oppure volete ascoltare tutti i dischi che sono stati fatti al mondo, questo disco non vi servirà a un cazzo. In più il loro batterista è una vera crepa, no no, lasciate perdere.
2/5

18 marzo 2011

giusto una cosa

mo' anche finardi dice che a 60 anni riscopre la sua anima blues.
ma io dico: ma se avevate l'anima blues come cazzo avete fatto a fare musica di merda negli ultimi 30 anni?
oh.

10 marzo 2011

J Mascis: Several shades of why (Sub Pop, 2011)

Così quando ho saputo che stava per uscire un disco solista di J Mascis mi sono precipitato a procurarmelo. Questo perché gli ultimi due dischi dei Dinosaur Jr. onestamente erano ottimi, inoltre va sempre seguito qualcuno che ha messo su un gruppo che vuole essere il frullato di Neil Young & Crazy Horse, e dunque ero curioso di capire se il loro cantante/motore avrebbe resistito alla prova della nudità, dato che insomma si tratta pur sempre di un disco chitarra-acustica-e-voce che o sai scrivere le canzoni o t'attacchi e tiri pure forte. Del resto Keith Richards non è che non sa cosa dice quando ricorda che per essere sicuro che una canzone funzioni la devi sentire suonata su una chitarra acustica (del resto Keith Richards non è esattamente l'ultimo arrivato e nonostante continui a cascare dai banani a settant'anni io gli CREDO qualsiasi cosa dica).
Il disco è relativamente breve, ed è effettivamente un disco di canzoni eseguite per chitarra acustica e voce. E non a caso dico eseguite, dato che non hanno l'aria di essere state SCRITTE per chitarra e voce, o quantomeno pensate. Il disco è in realtà una raccolta di inediti dei Dinosaur Jr. che Mascis ha pensato di registrare da solo (benché con l'aiuto di quel santo di Ben Bridwell dei Band of Horses e altri scalcagnati di cui non ci importa proprio nulla), ma nonostante tutte queste premesse insomma, s'è capito già che non è un granché.
E non è un granché non tanto per la completa mancanza di sorprese che il disco riserva (se si può riservare una mancanza, ma passatemi il termine che è quasi pronta la cena e vado di fretta), ma perché oltre ad essere monocorde nella concezione è anche monocorde nei suoni (si può dire tutti i pezzi sono suonati col capo al sesto tasto), ma anche perché non ha senso un disco acustico pensato come un disco elettrico, con un volume spropositato e nemmeno un minimo di ambiente a restituire l'intimità: le chitarre suonano nel vuoto come se ti uscissero dal cranio e insomma è tutto troppo schiacciato e i compressori lavorano sempre a tutta callara e io non so se sono d'accordo a fare un disco acustico così.
Quindi questo disco si merita due stelle perché comunque le canzoni schifo non fanno, ma non di più perché sembra veramente tutto sbagliato, come se Mascis avesse pensato Ecco, io non vi devo dimostrare un cazzo, queste sono le mie canzoni esattamente come ve le aspettereste e non ho intenzione di sforzarmi nemmeno un po'.
Non basta, J., non basta. Dai, sforna un altro disco come si deve dei Dinosaur Jr., piuttosto, e se non sai bene come, fatti una ripetizione di Rust never sleeps, che non fa mai male. Ecco.

Sentenza: 2/5

27 febbraio 2011

Nascondere il figlio strano in cantina: il suono sotto il suono dei Cowboy Junkies.

E insomma così, di punto in bianco, il cane venne al cuoco e gli chiese di spiegare in tre parole perché è opportuno ascoltare i Cowboy Junkies.
E io ho pensato - Beh cane mio, magari “Opportuno” non è la parola più adatta, specie ora che per la regola della degenerazione esponenziale del relativismo culturale praticamente è diventato “Opportuno” ascoltare tutti e rintracciare in tutti una particella di genio, una scintilla di qualità…
Ma insomma, io sono il cuoco, un pre-moderno, uno che ha creduto nella “Politicità” delle proprie scelte musicali – salvo poi precipitare nella disperazione anni dopo, al momento di comprendere che tante delle filippiche in cui mi ero gettato anima e core giravano intorno a solenni cazzate preconcette – e dunque in omaggio ad un antico retaggio eccomi qua a spiegarvi PERCHÉ sarebbe giusto ascoltare i Cowboy Junkies e dargli almeno una possibilità.

Un po’ di psicologia.
I Cowboy Junkies sono canadesi, il loro digestivo per la musica sono stati Neil Young e il paesaggio canadese (che poi è la stessa cosa…) e questa è già un’indicazione.
Tra i loro ascolti si desume una passione per i Velvet Underground, Townes Van Zandt, Hank Williams e Bruce Springsteen, tanto per citare alcuni dei musicisti cui tributeranno la loro stima con almeno una cover. Questa è un’ulteriore indicazione.
C’è poi, ad integrazione e nutrimento, la solita messe senza tempo (e spesso senza nome) di american music del tempo che fu, da cui puoi spuntare a caso una Carter Family, un Johnny Cash piuttosto che un Robert Johnson per cominciare a definire il “Quadro Cowboy Junkies” un po’ più accuratamente che solo nei contorni: indicazioni aggiuntive.

Un po’ di storia.
Il loro primo lavoro è roba del 1986. Il contesto americano è fin troppo clemente verso questi figli della grassa terra del nord. Diciamoci la verità: avere la compagnia di Rank and File, Violent Femmes, Rain Parade, Dream Syndicate, Opal, Walkabouts (per citarne qualcuno) vuol dire non essere propriamente SOLI AL MONDO nel portare avanti un discorso di rielaborazione delle radici dell’american music, della ballata, attualizzarla e bla bla bla…
I nostri eroi si confrontano con questo contesto:anche questo va tenuto a mente.

In un’intervista che lessi su un Buscadero di un milione di anni fa Michael Timmins, band-leader, chitarrista nonché fratello della cantante della band, dichiarava che i suoi ascolti erano stati solo i Clash per un sacco di tempo, salvo poi scoprire che oltre alla migliore band di tutti i tempi c’erano stati anche altri interessanti ed apprezzabili artisti di cui aveva fatto esperienza in seguito.
Da questo possiamo tranquillamente desumere che l’elemento fondatore della band (nonché autore) è stato un ragazzo normale che, come tutti, ascoltava la musica del suo tempo e ne traeva giovamento. Non siamo, dunque, di fronte ad uno di quei fenomeni tipo SONO UN DISSOCIATO IN FISSA SOLO E SOLTANTO CON LA MUSICA DEGLI APPALACHI E CON LE GIGHE IRLANDESI CHE SI SUONAVANO PRIMA DELLA GUERRA DI SECESSIONE oppure con una di quelle famiglie di campagnoli la cui radio, nel 1979-80, trasmetteva magicamente solo la collezione di 78 giri di Joe Bussard e non captava nulla di suonato dopo il 1957.
Può non sembrare così ma vi assicuro che vi sto fornendo l’ennesima indicazione.

Una gelida scheda analitica delle loro caratteristiche ne parlerebbe così.
Voce femminile dal tono etereo; chitarre taglienti suonate con garbo e con un approccio blues che trasfigura a volte nella psichedelia se non, addirittura, nel raga; atmosfere sospese e richiami al folk, al blues e al gospel; notte; autunno; foglie che cadono… perché è opportuno ascoltare i Cowboy Junkies?
Perché Oliver Stone ha scelto la LORO versione di Sweet Jane invece di quella dei Velvet Underground per il suo Natural Born Killers forse?
Francamente no, anche se fa curriculum.

I Cowboy Junkies non hanno avuto una carriera sempre in crescendo. Sono una band che sulla distanza spesso si è persa e, nel complesso, una loro discografia consigliata, compilata dal sottoscritto, non andrebbe oltre i primi due album più qualche altro preso a macchia di leopardo tra la loro produzione ma, cosa essenziale, i Cowboy Junkies ci hanno fatto dono di un “Suono” e questo è quello che vi serve per andarveli a cercare.
Le radici americane sono state declinate in molte disparate maniere.
Sono state sporcate di punk, distorte di metal, evirate di hard rock, imbastardite di southern, rinvigorite di altro rock e contaminate di elettronica. E, ultimamente, fraintese di pre-war fricchettone e depressone che alterna rari, altissimi momenti ad uno standard francamente involuto e dispersivo che non si sa più se vuole riformare, partire da/per superare, sovrapporre per sperimentare o eiaculare per non scopare (sì, sto parlando di Will Oldham, sì sto parlando di Devendra Banhart, sì, sto parlando delle Cocorosie e anche di Low Anthem....).
Ma le radici americane come le hanno declinate i Cowboy Junkies sono un esempio di varie perfezioni formali e di una certa, passatemi la parola, PUREZZA dell’approccio.
Purezza, perché c’è filologia; purezza nella ricerca di soluzioni che coniughino eleganza e fruibilità; purezza di suoni e, si badi, di atmosfera.
C’è quasi sempre molto SPAZIO nelle canzoni dei Cowboy Junkies, uno spazio in cui il silenzio, senza farsi protagonista indesiderato della musica, gioca un ruolo strategico.
Abbiamo detto “Notte”, ”Autunno” ma potremmo dire anche “Neve” per evocare il mondo suggestivo delle loro canzoni.
I Cowboy Junkies hanno la capacità di far comparire un camino, una coperta e possono accompagnarti placidamente mentre guidi nella notte e fuori dall’abitacolo sta piovendo il finimondo.
Se passi in un bosco dopo la pioggia e li ascolti TUTTO MAGICAMENTE È AL SUO POSTO.
Non dovrei forse essergli grato per questo?
Ma c’è di più.
Al di sotto della superficie su cui il sublime, il solenne, la voce bianchissima di Margo Timmins (vero elemento chiave della band), le foglie che cadono, i buoni cari vecchi tempi andati, dio, il country e il blues scorrono assieme e concorrono a comporre l’edificante quadretto c’è… l’America.
L’assassino che è in me, le mani sporche di sangue, gli anni ‘50 che suonano sempre bene quando è appena stato consumato un atto di crudeltà, un delitto.
Un’inquietudine, un senso di vaga obliquità, un’ appena accennata e sensuale perversione.
Per questo, i Cowboy Junkies, nella loro purezza e ineffabilità, sono un’ottima colonna sonora se hai accoltellato qualcuno venti minuti fa; per questo, la morbida voce di Margo, le sfuggevolezze chitarristiche (prelibate peraltro) e la base ritmica invece sempre così discreta e puntuale quasi a dirti: “vedi che le cose stanno COSÌ e non nell’altro modo…” fanno, a volte, un po’ paura.
Avete mai ascoltato Blue Moon nella versione di Elvis? Non sembra di sentir cantare un assassino sbronzo di sangue e di alcool (il secondo sicuro…) che canta riverso sul cadavere di cui è responsabile?
Quell’effetto eco spettrale sulla voce, la chitarra pizzicata in lontananza, con timore quasi, meccanica come un organetto da luna park, quel silenzio…
Mi ha sempre terrorizzato quella canzone.
Anche la loro versione è terrorizzante. Dolcemente. Ne è praticamente la figlia.
Oppure potreste ritrovarveli a cantare di angeli o a rileggere un gospel con questo silenzio attorno, DENTRO al disco, come se suonassero di notte su una montagna nel nulla canadese di uno di quei loro inappuntabili parchi nazionali che, alla fine, non sapete se commuovervi o scappare a gambe levate.
Qualcosa come Twin Peaks con la dolcezza che Twin Peaks non doveva avere.

Una precisazione è d’obbligo, lo stile della band non giace staticamente sul notturno, l’autunnale, l’aereo e il noir, questo è quello che io definivo il “Suono” che di loro, a mio avviso, rimarrà.
Negli anni hanno girato attorno all’argomento in vari modi, provandosi persino, con risultati non convincenti, a riempire un po’ di quel vuoto che è la pietra angolare del loro stile.
Hanno ripercorso stesse vecchie strade impolverate calpestandole con passo rispettoso e mai iconoclasta.
Se siete riformisti, forse i Cowboy Junkies non fanno per voi, meglio un gazebo del PD.
Tuttavia a mio modo di vedere, sono riusciti, attraverso quel “Suono” di cui vi ho detto e di cui ci hanno fatto dono a diventare, rapidamente e senza troppo clamore, un gruppo “classico”, minore senz’altro ma ugualmente classico. Una di quelle band che, quando si incontrano, si amano o si detestano e questo è un merito.
Sanno farti sentire caldo e sanno farti sentire freddo. Sanno farti compagnia.
Sanno metterti a tuo agio, farti volteggiare come se fossi dentro a una placenta per poi gettarti gentilmente, e freddamente, all’aperto, sotto il cielo, sulla nuda terra.
E là sta a te decidere se metterti a piangere o a ridere.
Alla prossima.

24 febbraio 2011

M'hanno rimasto solo, 'sti cinque c-c-c-cornuti !

Devo essere onesto: non sono stato a contare i giorni che mi separavano dall'uscita del nuovo disco dei Radiohead come era capitato per In rainbows. Sarà che prima ero più attento e meno sommerso dai sensi di colpa per aver trascurato gente come Neil Young o Mississippi Fred McDowell o i New Bomb Turks. Sarà che effettivamente anche sulla stampa non particolarmente specializzata se n'era parlato molto di più, magari in virtù del fatto che stavano per dare un bel calcione nel culo dell'industria discografica, cosa di cui sono sempre stato e sempre sarò fan (del calcione nel culo, ovviamente). Anzi, se devo essere del tutto onesto, che stesse per uscire un disco nuovo dei Radiohead non ne sapevo direttamente un cazzo. Questo insomma era il clima.
Tuttavia a un certo punto quando ho letto che The king of limbs era fuori da un momento all'altro ero contento. Noi trentenni del 2010 non possiamo contare su chissà quanta gente per regalarci un sogno, e pure quelli che sono sopravvissuti dall'epoca d'oro iniziano a scricchiolare: Bruce Springsteen sta rimediando una toppa dopo l'altra e forse c'è bisogno di mettersi a fare i sit-in davanti a casa sua per fargli capire che è arrivato il momento di dedicarsi all'intimismo e soprattutto (perdio) LASCIAR PERDERE le canzoni basate sugli obbligati, che c'hanno rotto il cazzo. Del resto forse l'ha pure capito, dato che la cosa migliore che ha messo fuori negli ultimi due o tre anni è stato un cofanetto di outtakes che non fa altro che dimostrare che 1. il boss aveva buon gusto e capacità di selezione, almeno nel 1975, 2. deve smetterla di scrivere canzoni basate sugli obbligati. L'avevo già detto. Lo ridico; Dylan ormai s'è rintanato nella sua Nashville celeste come una specie di Sant'Agostino cauntri e tutto sommato sta facendo dischi gradevoli ma gradevole non basta; Neil Young ha fatto un disco sicuramente interessante sicuramente pieno di spunti di riflessione e sicuramente sorprendente data la veneranda età che non farebbe presupporre ancora questa voglia di sperimentare; Tom Waits non ne parliamo, Glitter and doom è stata una pugnalata al cuore, pare un bootleg ripreso con un iphone cinese. Su chi ci si butta? Su Costello? Su Joe Jackson (che quasi quasi pure pure)? Mark Hollis era il 1998 quando ha detto Contenti ora beh adesso andate a cagare. Non ci rimane molto.
Ci rimangono giusto i Radiohead, ecco, che comunque finora non hanno sbagliato un colpo (tranne il primo, beh, perché adesso venitemi a dire che Pablo Honey è un bel disco e vi schiaffeggio con una trota), e oltre a fare dei dischi belli hanno anche fatto dischi interessanti e seminali. Insomma diciamocelo, a loro non gli si può dire un cazzo.
Poi un bel giorno ti ascolti questo The king of limbs e c'è qualcosa che non quadra: otto tracce, meno di quaranta minuti, protools a tutta callara fin dal primo minuto. Beh, pensi, anche In rainbows iniziava così e poi però regalava belle perle, magari si riprende subito dopo. E invece no: il disco prosegue con un miscuglio di songwriting ipnotico tipicamente loro e minimal techno o quel cazzo che è (ammetto la mia praticamente totale ignoranza in fatto di sottogeneri elettronici) che però alla lunga ecco, insomma, noi vorremo sentire i radiohead, e anche quando i radiohead appaiono lo fanno in maniera un po' stanca, ricalcando idee che sembrano aver già sfruttato nei dischi precedenti - perché diciamocelo, pezzi come codex o give up the ghost sembrano un po' reckoner o videotape alla moviola.
Il risultato complessivo è che sembra di aver ascoltato una sorta di compilation di outtakes di The eraser, il disco elettroparanoide che Thom Yorke aveva fatto uscire qualche anno fa, tinto di impressioni e nevrosi che i coraggiosi che hanno sentito le colonne sonore di Jonny Greenwood hanno percepito nettamente (e sì, sono un coraggioso ma vi giuro: mai più). Beninteso, che i radiohead ben difficilmente riuscisserò a farsi una cazzo di risata bene o male l'avevamo capito già da anni, ma non finora non li avevo mai visti come un gruppo serioso, cioè un gruppo che più che accompagnarti nella loro nazione di cervelli (per cui hanno anche scritto un inno una decina di anni fa) ha iniziato a spintonarti, chiaro e semplice.
E insomma io non lo so se ci voglio andare, con loro, portato a forza in questi territori, e non solo perché ultimamente voglio più bene a Greg Cartwright che a Brian Eno: sono piuttosto sostenitore del teorema del teorema del bastone e della carota, e nel corollario per cui meglio prima la carota.

Ora: dice che l'ultima canzone si chiami Separator perché in realtà dovrebbe essere una specie di entr'acte per un nuovo disco che sarebbe anche questo in uscita da un momento all'altro, un po' come fecero con Kid a e Amnesiac. Io spero sia vero, io spero che non ci lascino così, deludendo un'intera generazione sperduta, ecco. Cattivi.

4 febbraio 2011

non inventate nulla, non negate nulla

David Mamet:
I tre usi del coltello
Minimum fax - 2002

Sempre il mio amico che mi ha regalato il libro sul potere, ha voluto farmi dare un’occhiata a un libro che si chiama “I tre usi del coltello” di David Mamet, che è uno sceneggiatore e drammaturgo americano – che per chi non lo sapesse è il genio dietro Glengarry Glen Ross, che in Italia era uscito sotto lo sventurato e severgniniano titolo di Americani. Mah, vabé.
Stavolta però il mio amico un motivo ce l’aveva, e cioè che gli avevo chiesto delle dritte per scrivere e allora non gli è venuto in mente niente di meglio, e onestamente non verrebbe niente di meglio nemmeno a me.
“I tre usi del coltello” è in realtà una raccolta di saggi e scritti sul cinema e sulla sceneggiatura edita da Minimum Fax, che contiene la summa dell’estetica Mamet, completamente sbilanciata verso il minimalismo di Ejsenstein piuttosto che verso l’assorbimento di Stanislavskij, nei confronti del quale, e del cui metodo è un aspro critico.
La storia, dice Mamet, sta al centro di tutto: dei problemi dello scrittore e delle preoccupazioni dell’attore. Tutti gli sforzi da parte di tutti i reparti della compagnia o della produzione devono essere concentrati a raccontare la storia nella maniera più efficace e meno enfatizzata possibile, lasciando cadere qualsiasi artificio o accessorio non necessari al diretto progresso della vicenda: in quest’ottica, perfino il personaggio, perno di tanto cinema hollywoodiano, diventa uno degli ingranaggi della storia, un interruttore che poco importa quali risvolti o quali trascorsi possa avere.
Il personaggio non esiste, approfondisce Mamet a più riprese in una porzione del libro dedicata al lavoro dell’attore: non importa in che quartieri sia nato o che marca di bourbon preferisca. Il personaggio non è altro che l’insieme delle scelte compiute e delle azioni svolte per perseguire il suo scopo. Va da sé, l’attore non ha bisogno di porsi questioni che non rientrano nel campo dell’azione, o immedesimarsi completamente nella propria parte: l’attore è un grande attore, nella visione di Mamet, quando riesce a pronunciare le proprie battute in maniera chiara, diretta e non enfatizzata, lasciando semmai allo sceneggiatore la scelta se far luce o meno sui lati del suo carattere che saranno più utili alla comprensione dell’obiettivo in questione. Non inventare nulla e non negare nulla, insomma: non aggiungere niente di superfluo ma al tempo stesso non nascondere il proprio vissuto di persona, essenziale comunque nel rendere autentica la recitazione e dunque la vicenda, da servire a un pubblico che nel suo insieme è più intelligente e di conseguenza più esigente di quanto si presupponga (forse unica ingenuità di Mamet, se proprio volete sapere la mia).
Ampio – e devastante, ve l’assicuro – capitolo del libro è la trascrizione di un incontro-lezione tra Mamet e allievi di un seminario di scrittura, nel quale lo scrittore si fa largo a colpi di cesoie tra le idee lanciate, continuando a porre la domanda più difficile: “A cosa serve nella nostra storia, come quest’elemento farà progredire la vicenda?” Arrivare all’essenziale si dimostra dunque il compito più difficile da svolgere, e mille sono le insidie che si possono celare nel percorso dell’eroe, reso impervio da un linguaggio teatrale e cinematografico che spesso tralascia l’azione a scapito di elementi di corredo, o almeno giudicati tali almeno nell’estetica Mametiana. La costruzione di una semplice scena, elemento sostanziale di cui si compone ognuno dei tre atti aristotelici diventa dunque una sfida all’ovvietà e una ricerca dell’essenza stessa del concetto base della storia, che spesso – riporta e cita – è racchiuso in una sola parola fondamentale.
La lettura di “I tre usi del coltello”, titolo preso da un blues di Leadbelly in cui i versi fanno specifico riferimento al coltello visto come elemento che benché chiave di interpretazione non riesce mai a smettere di se stesso e oggetto della vicenda, è sfiancante quanto costruttiva, un incendio purificatore per chiunque – come me, ammetto – intenda addentrarsi nel linguaggio narrativo, che sia questo applicato a un’opera fruibile da un pubblico in sala o in poltrona, occhi sullo schermo o sulle pagine. Proprio come insegna Mamet in maniera implacabile ai suoi allievi, bisogna raggiungere lo zero per ricominciare a costruire.
Statene alla larga, insomma, o siate coraggiosi: vi farà a pezzi.

Dum Dum Girls: Blissed out (Art Fag, 2010)

Io lo sapevo che a fidarsi di pitchfork prima o poi la fregatura arrivava. Cogli Arcade Fire m'aveva detto bene e infatti mi sa che ne avevamo già parlato, e invece co' 'ste Dum Dum Girls no.
Intanto la cosa che mi consola è che non si siano ispirate al pezzo dei Talk Talk perché io a Mark Hollis gli voglio bene e a 'ste tizie qua no.
E non gli voglio bene, ho deciso, perché paiono appartenere a quella schiera di gruppi da puzza sotto il naso e malvestite che sono troppo più intelligenti di te e allora spostano l'asse dell'attenzione dal gusto all'apprezzamento. Snob e po-mo, sono ingabbiate in un quadrilatero tra Ian Curtis, Phil Spector, Kristin Hersh e lo shoegaze. Intendiamoci, la loro musica non è né abbastanza intensa, né abbastanza scanzonata, né se è per questo abbastanza squallida o depressiva. Pare essere al contrario semplicemente una serie di bozze affogate nel riverbero (si fa fatica a credere che siano effettivamente una band, piuttosto che un duo fatto di cantante chitarrista e batteria) e inacidite da una produzione lo-fi più realista del re che come (troppo) spesso accade, rovinano invece di aggiustare. Il che tra l'altro dimostra che in sub pop ogni tanto qualche crepa la rimediano.
Voi non avete bisogno delle Dum Dum Girls, insomma. Voi al massimo avete bisogno dei Mummies. Ecco, i Mummies.

Sentenza: ** e non * giusto per le tette in copertina che manco so' 'sto granché.

13 gennaio 2011

come diventare stronzi

Robert Greene e Joost Elffers (ed.)
Le 48 leggi del potere
Baldini & Castoldi - 2003

Non sono del tutto sicuro del motivo per cui a un mio amico sia apparso urgente dovermi regalare questo libro. Cioè, per certi versi capisco che fosse un periodo in cui mi serviva un po’ più di autorità e freddezza e polso nei miei stessi confronti in primis, e in più il mio caro amico mi aveva avvertito che questo libro mi avrebbe probabilmente reso un calloso superomista o un cinico nazista. Il che fa ridere perché sa meglio di me che non voglio diventare niente del genere. Un nazista, intendo.
Il libro in questione è “Le 48 leggi del potere”, curato da Robert Greene e Joost Elffers, un corposo vademecum di 600 e passa pagine sul come farsi crescere il pelo sullo stomaco traendo spunto e insegnamento da valanghe di esempi, aneddoti storici e parabole letterarie. Il tutto, manco a dirlo, inteso ad avvalorare la tesi goebbels-darwiniana per la quale solo il più forte e il più bastardo sono destinati a sopravvivere. Di queste 48 leggi, ognuna corredata di sterminati riferimenti e richiami, alcune sono semplici varianti di un ceppo principale (tendere a tacere, curare l’apparenza e l’aspetto, nascondere le proprie intenzioni e soprattutto essere implacabili implacabili implacabili nel perseguimento del proprio obiettivo), per cui si insinua il dubbio che magari si potevano anche ridurre a una quarantina scarsa, ma poco importa. Poco importa anche che alcuni di essi si mostrino parzialmente contraddittori, come quello relativo al concentrarsi su un solo obiettivo accanto al dettame di non asservirsi a un solo scopo. D’altronde, il libro insegna anche a usare diversi approcci a seconda del proprio scopo. (Maledizione, sono contagiato).
Ciò che importa, al contrario, è la visione del mondo come una vasca senza fondo piena di squali, da affrontare con tutte le risorse a propria disposizione, e la clinica spietatezza con cui la visione del potere come obiettivo astratto viene posta davanti e prima di tutti: amici, parenti, familiari, etica, buoni pasto.
Greene e Elffers non specificano infatti in cosa, dopotutto, consista il potere: se sia questo il successo, affermazione, realizzazione di sé o esercizio incontrastato di una volontà su un’altra, non hanno nemmeno bisogno di delinearlo. Il potere è il raggiungimento di uno scopo, di un obiettivo, di un McGuffin hitchcockiano che poi lo sapete solo voi cos’è, se avete bisogno di sfogliare queste pagine – cosa che francamente non mi auguro e non vi auguro.
Personalmente, nonostante i gustosissimi e numerosissimi episodi citati nel libro (che prende a mani basse dalle biografie di truffatori, seduttori o peggio: uomini di stato), non ho potuto che ingoiare con una smorfia questa imponente bibbia della manipolazione delle menti ma anche dei sentimenti altrui, in cui perfino umiltà, onestà e sincerità sono espedienti e carte da giocarsi per buttarlo in quel posto al prossimo. Probabilmente ognuno di noi ha bene in mente moltissimi dei trucchi da opportunista che questo libro consiglia a bizzeffe, ed è forse solo la loro quantità e la loro concentrazione a renderli un po’ indigesti.
Però poi fa venire voglia di Rodari.

3 gennaio 2011

sì però adesso portami a mangiare, tom

Tom Robbins
Feroci invalidi di ritorno dai paesi caldi

Stamattina chiedevo al mio amico libraio di consigliarmi qualcosa nonostante gli avessi fatto notare che finora avesse preso un libro su due. Quello che c’aveva preso era A confederacy of dunces, di John Kennedy Toole, di cui non ho intenzione di parlare ora.
Quello che invece non c’aveva preso proprio era Feroci invalidi di ritorno dai paesi caldi, di Tom Robbins (che devo sempre pensarci su due volte per non confondermi con Tim Robbins, che sarà anche bravo ma non scrive libri). Il libro in questione, un bel tomo Baldini & Castoldi da quasi cinquecento pagine che trasuda cheapness da ogni font, narra la storia di un tale Switters, un agente della CIA che si ritrova in giro per il mondo a fare non si sa bene cosa, non si sa bene per quale motivo.
Dice bene il risvoltista nelle prime tre righe: il romanzo è un pretesto per la sua esibizione. Di fatto la narrazione non fa altro che seguire il buon agente originario di una Seattle piatta e piovosa nelle sue peripezie esteriori e interiori, e gettare in pasto al lettore le scintille che le sue variopinte esperienze fanno sbattendo contro la sua interiorità e il suo articolato apparato culturale, in grado di elevarlo dalle circostanze verso un’astrazione e una riflessione sull’umano piuttosto brillante e convincente.
Switters si ritroverà in una gaudente vacanza in Thailandia con un suo saggio collega a riflettere sul desiderio, ci racconterà di come strafatto di ecstasy si farà convincere dalla sua nonna hacker a liberare il suo pappagallo in Amazzonia, e altre bizzarre faccende di cui spesso e volentieri persino lui stesso ignora i motivi o il significato. Il tutto è chiaramente un dispositivo per una – abbiamo già detto – interessantissima analisi sull’assurdita di ciò che facciamo e del perché, sul senso della missione e dell’obiettivo come persone.
E allora perché ho abbandonato questo libro?
Perché troppo spesso, nelle prime duecento pagine che delimitano il viaggio che ho percorso all’interno di questo libro, mi sono chiesto e ho chiesto al buon Tom Robbins: “Ma che me lo stai dicendo a fare?”. Attenzione: non il legittimo e necessario “Perché mi stai dicendo questo?”, la domanda che ti spinge a voltare pagina, a desiderare che l’intreccio si dipani e finalmente l’eroe abbia di fronte la risoluzione – o la negazione – del suo desiderio. Non so, insomma, se alla fine Switters riuscirà a congiungersi con la sorellastra adolescente Suzy, la purezza e la quiete che si augura fin dall’inizio in maniera anche piuttosto evidente, o se ‘sto pappagallo vecchio come sua nonna riuscirà a morire nel suo habitat naturale. Perché?
Quando porti la tua donna fuori a cena ti può capitare che nell’eccesso di premura o calcolando male il traffico ti ritrovi in un anticipo mostruoso. Ciononostante siete tutti vestiti e in macchina e dovete ammazzare almeno una mezz’ora di tempo. Puoi portarla a fare un giro lungo, chiacchierando e ascoltando un po’ di musica. Se magari sei preso bene e ti va di aumentare il senso di attesa nei confronti della serata è possibile che il giro si protragga ulteriormente e potresti far prendere la mano a vagare per strade laterali o per percorsi che nella tua testa prima o poi si ricongiungeranno a due passi del ristorante dove la tua prenotazione non è ancora abbastanza matura per essere raccolta.
È un pensiero carino, ci mancherebbe, ma tocca andarci piano: nessuno vuole che la signorina inizi a lamentarsi di avere fame, o peggio, confessi che ormai, dopo tutte queste curve e queste frenate e accelerazioni, le sia passata e che grazie ma no grazie.
Capito, Tom?