16 agosto 2007

Giusto perchè non avevo niente da fare...

Miei cari commensali, visto il gran caldo è probabile che le mie elucubrazioni assumano i contorni dell'assurdo ma, in finale, chissenefrega.
Le ferie si avvicinano (sempre che il signor padrone ve le accorderà) e così, volevo lasciarvi un paio di riflessioni da fare sbracati sulla battigia o, magari, chiusi nella falsa solitudine urbana che i TG nazionali, con lacrimosa inclinazione, celebrano ogni qualvolta ci si trova alle porte di Agosto.

E dunque 'st'estate è stata la stagione dei grandi ritorni, dei recuperi in extremis del tempo perduto (non quello di Proustiana memoria), dell'andiamoli a vedere ora altrimenti li avremo persi per sempre...
E dunque tra Giugno e Luglio, nel bel paese, si sono avvicendate kermesse rockettare piene di nostalgia e di speranze. The Who, The Rolling Stones, Greg Allman, The Police, e, udite udite, i Genesis, hanno allietato platee esorbitanti di vecchi e giovini, tutti intervenuti per assistere (nel senso geriatrico del termine) allo spettacolo delle reunions e dei ritorni dall'esilio decennale, ventennale, trentennale e così via, di intramontabili eroi e di leggende più o meno viventi.

Ora, la querelle sulla bontà della reunion con annesso immancabile tour è argomento unto e bisunto.
Le reunions hanno una cospicua porzione di nostalgici che, desiderosi di vedere dal vivo gli ”originali”, salutano l'operazione con giubilo e infradiciamento mutandale. Questo da una parte della medaglia. Dall'altra invece, trama, risentita, la pletora di detrattori impietosi e gerontoclasti che si dannano l'anima quando spunta la notizia che una qualche gloria del passato si è rimessa sulla strada.
Da che parte sto io?
Non perché abbia la necessità di distinguermi ad ogni costo ma in realtà ho sempre vissuto questo dibattito come preso tra due fuochi. Ora, perciò, è molto più importante lasciare che siano i fatti a confortare le idee e non farsi tentare né dall'amarcord, né da teorie sulla presunta “Morte del rock'n'roll” che quello stronzetto di Lenny Kravitz aveva fatto sue in un momento particolarmente felice della sua carriera (ed era in malafede, ovviamente).
Diciamo le cose come sono andate: al concerto degli Who a Verona, Roger Daltrey si è preso un accidente di mal di gola, ha cantato per quattro pezzi e poi ha tirato onorevolmente le cuoia sul palco, lasciando alla super-band il compito di tenere in piedi lo show. Per quanto la cosa, dati i suonatori convocati, sia riuscita piuttosto bene, il concerto degli Who è stato un po' una sòla (n.d.r.: una fregatura).
I Rolling Stones hanno varcato le porte di Roma animati da ottime intenzioni; si sono portati dietro un entourage che potevano ripopolarci qualche comune depresso della Basilicata; hanno venduto biglietti milionari che pareva di comprarli al bagarino anche se in quel momento eri in un punto vendita della TicketOne; hanno fatto il concerto.
Cronache di locali intervenuti all'evento narrano di un'acustica scadente, di un (ahimé) Keith Richards in pessime condizioni, scarsamente lucido, artritico e perennemente in scazzo con Ronnie Wood (pare invece in gran forma) a causa del recente allontanamento di quest'ultimo dallo spirito santo della “Trinità alternativa” sesso, droga (lo spirito santo, appunto) e rockarolla.
Sempre i locali, riportano lodi entusiaste di Mick Jagger, fresco di pulizia del sangue e sculettante come non mai, e di palchi semoventi che portavano la più importante e longeva r'n'r band della storia in mezzo allo stadio. Ma, alla fine della fiera, l'evento non ha cambiato la vita a nessuno, manco a chi non li aveva mai visti. Insomma, un po' una sòla.
Sui i Police nessuna nuova particolare. Sono più giovani e dotatissimi ma su MTV, ai Grammy awards, avevano fatto solennemente cacare e, non so perché ma temo che anche la loro esibizione, alla fin fine, sia stata una mezza sòla.
Greg Allman dopo aver tentato per anni di mandare in guardina il grande (e un po' alcolista) Dickey Betts ed essere riuscito soltanto ad allontanarlo dal gruppo, si faceva bello con qualche vecchio successo degli Allman Brothers Band e con roba presa dalla sua abbastanza deprecabile carriera solista: mezzo concerto, FORSE, da salvare. Cioè: una sòla.
I Genesis hanno fatto montare un palco grosso come un'astronave dentro il bistrattato circo massimo che, tra i “Bongoloidi” del fine settimana, i Live 8, i concerti di quell'impostore di Antonello Venditti che suona solo quando la Magica vince un scudetto (e dunque, forse, a 'sto giro, se lo semo levato dai cojoni...) e i raduni di ipocriti sindacalisti e politicanti BLA BLA BLA, secondo me sta meditando di sprofondare ulteriormente per preservarsi di suo, visto che i Beni Culturali sanno solo metterci intorno reti più nuove. Chi c'era non ha goduto esageratamente.
Volete che vi dica ancora la mia opinione?

Sarà che è un'estate Veltroniana; sarà che fa caldo; sarà quel che sarà ma alla fine sparo la mia salva: A ME QUESTI EVENTI FANNO ANDARE DI CORPO MALAMENTE.
A ME IL RITORNO DALL'OBLIO DI TANTI GRANDISSIMILEGGENDARIMITICI SUONATORI DELL'ETA' DELL'ORO MI FA INCAZZARE.
Non voglio parlare della politica dei prezzi di questi concerti (che anche quando sono gratuiti comunque sucano il soldo del contribuente).
Non voglio prendere per il culo questi tremendi nonnetti, che, felici del fatto che ancora gli tira si tuffano, con adolescenziale incoscienza e un'équipe medica svizzera, nell'ennesimo tour.
Non voglio neanche stare a citare tre secondi quel bastardo di Keith Jarrett che ha intascato centomila dollari da Umbria Jazz per fare un teatrino da artistoide psicolabile che non ama i flash delle macchine fotografiche.
Non voglio farlo.
Voglio chiedervi semplicemente questo: VI PIACE?
È QUESTO CHE VOLETE?
Allora siamo alla frutta.
Se paghiamo fior di quattrini per poter dire: ”io c'ero” e poi, dopo esserci stati, tiriamo le somme e il risultato è un po' una sòla, allora siamo messi male.
Le vecchie glorie della rockarolla battono la fiacca. E vorrei anche vedere voi a quasi settant'anni a fare gli scemi con la stratocaster. Gli unici che riescono in questo sono i musicisti di colore ma loro vengono da un altro pianeta.
Per noi culi pallidi lo stato del benessere ha inventato uno splendido dispositivo sociale, purtroppo per la mia generazione e quelle seguenti in via di estinzione: la PENSIONE.
Perché starsene in giro per anni a zompettare sui palchi di tutto il mondo; scopare ogni sera con le meglio fiche del bigonzo; calarsi qualunque schifezza per tenersi in piedi, signore e signori E' STANCANTE DA MORI'.
Allora mi dico: ”ma perché non lasciano perdere?”. Poi, però, ripenso a tutta quella gente che con la pensione cade in depressione, si annoia, si rompe le palle e capisco che qualche miliardo in più non fa tutta 'sta differenza.
Quello che non capisco è altro. Quello che non mi torna è il motivo per cui BISOGNA partecipare a questi eventi. Non sarà mica che si va a questi concerti per tirare su il morale a 'ste salme vero?
Ora, le scene esistono. Roma ne ha diverse, attive e gagliarde e così pure molte altre città d'Europa.
Tra l'altro non so se state notando come la musica di qualità cominci ad arrivarci anche da posti diversi dagli U.S.A. o dalla perfida Albione.
Le cose cambiano e sarebbe il caso di accorgersene. Sarebbe il caso che le case discografiche, invece di inseguire chi scarica musica in internet a qualunque costo (e perdono le cause, a proposito, ANNATEVENAFFANCULO!), magari, così tanto per cambiare, investissero in gente talmente vogliosa di suonare da esibirsi davanti a una platea di paguri nel porto di Taranto (scusa (cane)...). E bada, stiamo parlando di gente valida, che ha voglia di lavorare e magari non chiede quintali di rose rosse nel camerino, eserciti di baldracche o pacchi di coca per fare un semplice CONCERTO DEL CAZZO.
Ciò che mi disturba è l'assenza dell'imprenditoria là dove dovrebbe invece spendere. Ciò che mi secca è la totale mancanza di attenzione per altro che non sia l'EVENTO.
Ora, è ovvio che gli Who fanno più gente dei, che ne so, dei Payback di Roma (perché so esserci degli altri Payback da qualche parte nel mondo) ma quello che mi turba e non capire perché le istituzioni e anche, perché no, le masse, che nel comune fine settimana magari vanno pure a vedersi il concerto del gruppo locale nel club underground, non prestino la minima fiducia alle scene locali.
Voglio dire, fai un concerto “Evento” in un posto bello (tipo il circo massimo!); della durata di due\tre giorni; adunando tutta la creme delle scene locali di quella città e di altre; spendi meno soldi, chiami attorno alla manifestazione un certo numero di curiosi e, udite udite, FAI UNA COSA NUOVA.
No.
Non si puote.
Non si vole.
Non si face.
Il perché è tuttora ignoto. C' è convenienza ed intelligenza in una situazione come quella immaginata poco sopra. C'è qualcosa di identitario senza i soliti paternalismi, patriottismi, laudi e retorica che sono alla base di ogni discorso di natura identitaria contemporaneo nel nostro paese (e che, guarda caso, è il terreno ideologico dei fascisti...).C'è qualcosa di innovativo ma spontaneo. Non si parla di rifare Woodstock, si parla di dare un palco e una platea a gente come i Payback, i Taxi, i Dissuaders, i Fonderia (se esistono ancora), le Not Right (di Arezzo, mi pare) e così via.
Li conoscete questi gruppi? Sapete chi sono? No? Beh, DA PAURA.
Il comune vi organizza una cosa grossa a spese sue per salvare le orecchie della gente dalle coverband che imperversano purtroppo, in estate nelle situazioni di basso profilo. In questo modo, il comune, fa persino Cultura.
Dai lavoro alle persone in questo modo. Dai lavoro a un sacco di gente. Tutto fatto in casa.
Invece no.
Il “fatto in casa”, qui da noi vuol dire Tammorra, vuol dire Taranta oppure vuol dire Elettronica, oppure vuol dire sanremo (notare la minuscola).
Alla fine, magari, tutta 'sta curiosità dal pubblico non c'è. Alla fine, magari, se circola una massa più rilevante di quattrini per sole due mani invece che per duecento forse il capitalismo ne giova (io non ho fatto economia politica... boh !?!?).
Fatto sta che forse va bene così. Da una parte, pochi maledetti e subito, dentro locali a volte maleodoranti a sbattere la faccia contro altre facce.
Dall'altra l'aristocrazia, la nobiltà, la casta di eletti, che intasca verdoni a tutto spiano.
Ricchi e poveri. Molto facile. Molto comune. Molto rassicurante.
Forse 'sta robba della “forza eversiva del Rock'n'roll” è una calla, una bufala, una cazzata.
Forse si tratta solo di impegnarsi a fare intrattenimento meglio possibile e là, va da sé, gli Who, sono meglio dei Temporal Sluts, perché hanno la contraerea, le astronavi, il circo.
Le super band, girano con gli elefanti, non col furgone con dentro le casse da 4x10.
Magari stiamo tutti bene così.

Quello che mi chiedo è perché ci sono dischi fatti da sconosciuti mezze-seghe che mi hanno cambiato la vita (e per sconosciuto mezza-sega intendo un calibro come Robert Johnson o Muddy Waters o Johnny Cash... pensa i Black Flag che sfiga).
Magari chi brucia sotto la cenere, chi muove le cose da sottoterra ha piacere di starci.
Magari non esiste accesso tra i due mondi e la mia è solo una trista speme internazionalista (maledetto sia il mio retaggio politico).
Magari diceva bene (cane) che: “...chi suona nell'underground non ha alcun interesse a mettere la testa fuori da lì”.
Magari non capisco un cazzo in totale.
Nel dubbio però, giovini poco aitanti ma molto sonanti, disprezzatori di accordatori, rompitori di amplificatori, spingitori di cavalie... ehm... UNITEVI!!!
Voi che non avete domani UNITEVI!!!
Il vostro giorno verrà (ma sarà stato ieri...).
Per ora buone ferie. Buona attesa. E, diffidate gente, diffidate.

11 agosto 2007

e fateve na cazzo de risata.

Sì, è importante tenere traccia delle cose che si prendono, ma soprattutto delle cose che si lasciano. Questo per due motivi. Abbiamo capito innanzitutto che quello che viene preso viene preso per diversi motivi – ci ho scritto un pezzo apposta, vi prego abbiate pietà e non mi fate riscrivere quelle 10.000 battute. Non tutti i dischi che si prendono sono determinanti, decisivi, importanti. Alcuni sono a mala pena memorabili, relitti che riaffiorano dalle mensole durante le pulizie – cose del genere. Alcuni sono semplicemente CARINI, c’è dentro una canzone niente male e allora dai, perché non tenerseli? Ma per un collezionista – o meglio: un collezionista che punta al numero, uno che preferisce tenere la roba invece che sbarazzarsene – è più indicativo quello che viene scartato rispetto a quello che viene tenuto. È quella la pietra dello scandalo, è quella la pecora nera, ciò che proprio proprio No no, io non ti ci voglio, a te.
Quindi non è a caso che tengo in considerazione ciò che piscio via, ciò che non voglio né sugli scaffali, né nel computer, né – va da sé – nella mia testa. A costo di sembrare un reazionario, un ignorante, un misoneoista o uno ostinato che ormai ha fatto i suoi conti e ha scelto ciò che vuole ciò che no a prescindere.
Che poi dopotutto ci può anche stare: uno per un po’ esplora, allunga le mani dove capita, impara, seleziona i propri gusti e capisce cosa gli piace e poi no. A una certa è possibile che lo stupore si possa un po’ affievolire, o che si inizi a voler approfondire. Oppure è possibile pure che ci siano dei cicli. Ci sono momenti di bulimia (esatto, si assimila un sacco di roba compulsivamente ma la maggior parte finisce nel cesso) e ci sono momenti in cui si preferisce la minestra di mamma, e questo soprattutto le indigestioni (e abbiamo appena dimostrato nuovamente che in questo blog si parla di musica SOLO in termini smaccatamente culinari). Può essere l’una e l’altra cosa o ancora altro, mica è semplice.
Diciamocelo chiaro e tondo: ascoltare musica è complicato. Vuoi perché la proposta è infinita (su internet, sui giornali, per strada, nelle poche stazioni radio che mandano qualcosa di interessante – c’è un sacco di musica in giro, c’è TROPPA musica in giro: siano benedetti i sistemi di riproduzione portatile di qualsivoglia natura che ci tengono lontani dalle scelte altrui), vuoi perché si finisce a valutare ogni uscita: chi l’ha fatto con chi, quando, chi l’ha pubblicato, prodotto, suonato, cosa c’è dentro e come suona; insomma, capire se un disco fa schifo e – soprattutto – se fa schifo perché. Tutto questo perché noi non ci facciamo imboccare dallo showbiz, o almeno non del tutto, vero? Noi non scarichiamo i dischi degli amici perché vogliamo supportare l’underground, noi non compriamo gli mp3 su iTunes perché siamo contro la logica del singolo, noi scegliamo e valutiamo e se occorre (molto spesso) gettiamo palate di merda su questo o quel disco perché vogliamo essere ascoltatori critici, vero? Noi ci TENIAMO, vero? Bravi bambini.
E non si tratta nemmeno adottare una linea à la blowup per cui: Questo disco è un progetto ad alto budget, è orecchiabile ma non folk, si basa sul buon-vecchio-(qualcosa) quindi è merda. Non siamo per forza degli adorniani che sostengono che l’unica musica possibile è una musica di rottura con il contesto attuale perché viviamo in un periodo storico in cui la negazione è l’unica affermazione possibile (questo in soldoni; studenti di filosofia vi prego: non rompetemi i coglioni e rileggetevi il titolo del post).
Cioè: Adorno pure pure ci sta bene. Va bene, benissimo che si apprezzi un gruppo o un artista perché si oppone alla falsa coscienza. Quelli che hanno (o che vorrebbero) la Bandiera Nera tatuata sul braccio destro ce l’hanno (o ce la vorrebbero) perché condividono delle istanze che sono politiche – e quindi culturali. L’hardcore è questo, come lo era stato il punk, come lo era stato il rock’n’roll e il blues: gente che si caca il cazzo dello stato delle cose e invece di tirare le bombe scrive una canzone – finendo così a fare molte più vittime di una bomba di quelle che insomma, esplodono. Ma sto diventando elegiaco, e non sono il Cuoco, quindi accanno.
Insomma, in poche parole è legittimo apprezzare un disco perché convoglia dei valori (testuali o estetici, politici o etici), ma dopotutto qui sempre di roccarolla stiamo parlando, ed è bene non dimenticare che la differenza tra Bob Dylan e Dylan Thomas è la necessità (il desiderio? la voglia?) di INTRATTENERE l’interlocutore, come valore aggiunto all’edificazione o alla comunicazione emotiva.
Jusqu’ici tout va bien.

Quando uscì Drawing restraint #9 frequentavo una ragazza che stava in fissa per Matthew Barney. Io lo trovavo mortale, ma condividevo e alimentavo comunque il suo entusiasmo. Del resto lei studiava (studia tuttora) grafica industriale o pubblicitaria o insomma qualcosa che ha a che fare con il design, per cui non posso affatto biasimare il suo interesse genuino per il lavoro di quest’uomo universalmente considerato il genio della video art e blah blah blah. È anche riuscita a convincermi a vedere con lei un pezzo di Cremaster 3: i quindici minuti più lunghi della mia vita, probabilmente, che superano di gran lunga quella volta in cui rischiavo di farmela sotto nell’autobus – episodio, questo, di cui voi non volete sapere nulla.
Quando uscì Drawing restraint #9, insomma, gli ammiratori di Björk erano in fibrillazione per la sua partecipazione nel film, per non parlare naturalmente dell’uscita imminente della colonna sonora, che puntualmente è stata pubblicata e accolta da un’ovazione incondizionata – e questo perché Björk si è guadagnata col tempo uno zoccolo duro di fans che la osannano a prescindere. Ci mancherebbe, se l’è meritato e guadagnato con dei lavori fantastici e con una cura davvero generosissima nell’allestire gli spettacoli e insomma IO NON STO METTENDO IN DUBBIO CHE LEI SPACCA, OK?
Quello che volevo dire è che io ce l’ho messa tutta: ho ascoltato la colonna sonora di Drawing restraint #9 – o almeno mi sono messo lì di buzzo buono, e ci ho provato – e ne ho concluso che mi facesse cacare. E adesso facciamo un passo indietro.

Adesso che la Cassazione ha detto che le case discografiche devono farsi per legge i cazzi loro, posso essere franco: posseggo solo i primi quattro dischi di Björk in versione originale. È stato il mio modo di premiarla per aver fatto degli ottimi dischi (Debut, Post, Homogenic e Vespertine): li ho ascoltati, li ho apprezzati moltissimo, e solo DOPO ho deciso di darle i miei soldi. Prima no, che io mica sono Babbo Natale.
Del resto, è questa l’etica a cui mi ha abituato (o viziato?) la mia frequentazione dei sotterranei: Mai comprato il disco di un gruppo se il loro concerto – spesso appena conclusosi – non mi era piaciuto; non vedo perché avrei dovuto cambiare atteggiamento con qualcuno che tra l’altro mi chiede più del doppio e comunque i suoi soldi spesso e volentieri se li è portati a casa in anticipo (e non ce lo dimentichiamo mai, questo: comprare un disco è dare dei soldi a qualcuno. Chiediamoceli sempre se se li merita, non soltanto artisticamente).
All’uscita di Vespertine era ovvio che la signorina Gudmundsdottir iniziava a sentire la stretta delle aspettative del mondo pop e ha deciso di dare avvio a un nuovo progetto, meno adatto alle masse e fruibile da un pubblico smaliziato alle avanguardie della world music e della sperimentazione. Bene. È la storia del rock in due parole: è successo ai Beatles, ai Kinks, ai Radiohead, per dirne solo tre (curioso: tutti inglesi – verrebbe da chiedersi se è un caso o sono io che ho la mucca pazza).
Tuttavia la loro ricerca non ha mai messo da parte quello che rimaneva il fondamento: la roccarolla. Dico una cazzata: il White Album è il Bignami del pop fino al 1968. C’è il blues (quello bianco, è chiaro, già abbondantemente sdoganato dagli Stones e edulcorato da questi borghesotti dall’accento cockney usciti dall’Art School), c’è la canzone d’autore, c’è il folk, c’è il Music Hall con cui tutti i gruppi britannici stavano in fissa in quel periodo, c’è la puzza. E c’è pure l’avanguardia concreta/bruitiste Eppure è un disco divertente, assolutamente non faticoso, brillante e – va da sé – fondamentale. Non ce n’è un altro.
Era il 1968, dite? A quel punto erano tutti bboni, dite? Va bene. Allora: saltiamo di 32 anni avanti e prendiamo un altro disco-fenomeno in considerazione. Kid A ha fatto zompare all’aria chiunque non aveva ancora smesso di ascoltare OK Computer anche durante il sonno. È un disco scurissimo, complicato, piuttosto freddino e di non facilissima lettura. Eppure non annoia, non richiede un ascolto “con la testa fra le mani” come diceva Arnold Schönberg, che pure musica facilissima non ha mai fatto. In sintesi: i Radiohead hanno continuato a fare un rock’n’roll, seppure di ricerca, Bjork no.
Il che non toglie un’unghia di valore alla sua musica, se non che NON MI INTERESSA PIU’. Oh.

Insomma, va bene Selmasongs (sì, lo so che uscito prima di Vespertine: seguitemi invece di cavillare), va bene pure Medulla, che dopotutto è sperimentale soprattutto nella forma, ma gli ultimi due dischi di Björk hanno rotto il mio legame con lei – e, francamente, non solo quello. Ora che la naïvéte dei primi lavori è diventata un elemento scontato, spenta la passione in vantaggio di una cerebralità che è diventata evidente solo quando era già eccessiva, i dischi di Björk sono diventati cibo per gente che ascolta solo col cervello – in opposizione al cuore e al culo.
Aoh, alla fine io sono uno che con Zappa ci si è fatto le pippe per anni, eppure perfino lui riusciva a farmi prendere bene i suoi sbrodolamenti intellettuali attraverso l’autoironia e il prendersi poco sul serio (che poi dopotutto era il modo migliore per prendersi sul serio, ma questo è un altro discorso, e tutto sommato è una cosa che all’ascolto dei dischi può anche non trasparire). Riassunto: lui è riuscito a mettermi faccia a faccia con la contemporanea del XX secolo, ma NON ME L’HA FATTO PESARE, perdio.
Ecco dunque il motivo per cui mi sono sbarazzato di Medulla, di Drawing restraint #9, e lo stesso motivo per cui mi sbarazzerò di Volta. Questi dischi NON SONO DIVERTENTI, e sono di conseguenza carenti in un elemento FONDAMENTALE non dico per i parametri della musica rock (sarebbe presuntuoso nonché storicamente falso) ma anche solo per piacermi. Non so, probabilmente sono stati i troppi Sonics ascoltati ultimamente a rovinarmi, o i troppi Black Flag (e ci risiamo), ma non riesco a credere che non si possa essere divertenti (nel senso di entertaining, eh?, che qua nessuno deve fare il clown per il pubblico) anche continuando la propria ricerca, e senza perdere un millimetro di profondità e di spessore. Ci risiamo con Kid A, ma boh, Tom Waits mica è scemo. (Ed ecco finalmente un americano).

E se proprio ve lo devo dire, niente mi leva dalla testa che quella sera, con gli occhi sgranati davanti alle inquadrature perfettamente coreografate, ai colori asettici e ai simboli e ai riferimenti incrociati disseminati da Barney nel suo lavoro, perfino la mia amica studentessa di design si sia onestamente, genuinamente, comprensibilmente, fatta due coglioni così.



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U2: Acrobat
Tom Waits: I don’t wanna grow up
Tom Waits: Take it with me
Bruce Springsteen: Matamoros bank
Neil Young: Harvest
R.E.M.: New test leper
The Mothers Of Invention: The Orange County lumber truck
Radiohead: Dollars and cents
Kaki King: Doing the wrong thing
Massive Attack: Group four
The Beatles: Michelle
Billie Holiday: The blues are brewin’
The Appleseed Cast: Signal
Robert Johnson: Terraplane blues
Joe Strummer And The Mescaleros: Burnin’ Streets
The Who: My wife
The Detroit Cobras: Boss lady
Jackie Wilson: Soul galore
Ani DiFranco: Educated guess
Ingrid Michaelson: Breakable

10 agosto 2007

è agosto, signori, che pretendete?

E' un'altra cosa vecchia, sì. Ci ho provato, a scrivere qualcosa di nuovo, ma davvero: ho le scimmie nel cervello per cui accontentatevi. Del resto, visto che la rivista su cui è stato pubblicato questo pezzo ha chiuso, magari vi faccio anche un favore. Per cui dite Grazie.

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Insomma nel DVD degli Every Time I Die si può dire che loro non suonano per niente. Il DVD dura un’infinità, qualcosa intorno agli ottanta minuti, PIU’ gli extra, PIU’ i video ufficiali, PIU’ il teaser. Siamo intorno alle due ore. Due ore in cui – occhio che arriva lo spoiler – non succede NULLA.
Già, perché gli ETID non hanno voluto fare un DVD live. Né, lo diciamo per tenere tranquille le masse, gli è venuto in mente di girare un film, nel senso di lungometraggio, nel senso di narrazione. Tipo i Beatles con A hard day’s night o Help!, per intenderci.
E ci mancherebbe altro. Quelli erano i Beatles. Quello che a loro riusciva bello e naturale sarebbe sembrato ridicolo per chiunque altro. Andiamo, girare un film in cui un gruppo viene rincorso dai seguaci della dea Kalì perché il batterista ha un suo anello sacro? È una cosa ridicola – e ancora più ridicoli sono quegli intermezzi a doppia velocità in cui i Beatles si limitano a fare gli scemi su un prato. Ma del resto, più che il contesto di totale incanto e verginità che erano i primi anni ‘60, è che i Beatles erano i Beatles: per loro la gente sognava e se la faceva sotto (letteralmente, e vi giuro NON sto scherzando: ci sono le prove).
Gli Every Time I Die – che ça va sans dire non sono i Beatles e non ci si avvicinano nemmeno se siete molto distratti – invece hanno fatto una cosa di questo tipo: hanno chiamato l’High Roller Studio, che sta dietro a parecchi video che forse avrete visto ultimamente – Norma Jean, Terror, This Is Hell, gente del genere, quindi non li avete visti su MTV – e si sono portati dietro un cameraman per qualche data del loro tour, quello di supporto al disco nuovo, per poi montarlo in maniera pirotecnica.
Risultato: uno spaccato di vita on the road di una rock and roll band degli anni 2000. Una rock and roll band di successo, diciamolo: perché altrimenti sembrerebbe una cosa terribilmente amateur e varrebbe di chiedersi di che diavolo stiamo parlando.
Gli Every Time I Die hanno fatto un botto clamoroso un paio d’anni fa e – miracolo, se si considera l’elevatissimo tasso di mortalità dei talenti, in questo giro – lo hanno confermato con un altro disco fenomenale: insomma, io sono di quelli che sostengono che c’era bisogno, di loro, a questo punto della Storia del Fracasso.
Al contrario, non si tratta nemmeno di nulla di autocelebrativo, in Shit Happens – ah, già, quello è l’evocativo titolo del DVD.

Insomma, posso capire che non mi fai vedere la band quando suona (c’è ben poco e non c’è l’audio live ma quello dei pezzi in studio sovrapposto, il che se vogliamo non è un problema) e non mi fai nemmeno un making of del loro disco. Ma c’è di più: invece di cercare di investigare il talento creativo della band, piuttosto che carpire i loro segreti sul palco o dare dei suggerimenti utili a chi vuole – che ne so – imitare il loro sound, il DVD è pieno (ehm, ripeto: pieno) di Granfratellismi con retrogusto à la Jackass. Che ho detto? Mo’ ve lo spiego.
Gli Every Time I Die si sono fatti riprendere mentre si rendono responsabili delle seguenti prodezze. Vomitano dove capita, dicono cazzate, tirano giù le mutande a uno dei loro roadie, fanno esplodere oggetti, si danno fuoco ai capelli perfettamente sbronzi, mangiano panini al prosciutto e Skittles (ah, mi dicono che è una cosa normale), fanno questo gioco strepitoso in cui lo scopo – risate – è iperventilare. Magnifico.
Ora: cosa questo materiale (che negli US costa la bellezza di 15 dollari) (no, non ce l’ho originale, l’ho rippato da un mio amico perché avevo fiutato la sòla) aggiunge alla produzione – o alla fama alla stima alla reputazione – di questa band? La risposta è: NIENTE, questo DVD è perfettamente inutile e voi non avete bisogno di vederlo.
Tuttavia, contiene degli spunti illuminanti su ciò che può accadere quando metti una band che non ha un budget milionario su un tourbus e la mandi in giro.
Chi ha gli occhi aperti sa perfettamente che solo tre o quattro persone al mondo si possono permettere di affittare l’intero piano di un albergo di lusso quando sono in tournée, o che sono passati da tempo i beati anni in cui le rockstar sfasciavano le suite e lasciavano scie di mobili divelti e groupies in coma etilico dietro di sé. Chi ha gli occhi aperti sa inoltre che partire in tour non è certo una passeggiata di salute: dormiteci, voi, in un tourbus (se vi dice bene, altrimenti ve tocca er Doblò) con minimo altre tre persone sbronze, mangiate tutti i giorni in Autogrill, sognatevi la doccia.
Trovatevi qualcosa da fare, soprattutto, quando avete finito di suonare, perché non sempre c’è il festino offerto dall’impresario; non sempre c’è il buffet, non sempre ci sono le ragazze, non sempre ci sono i fotografi impazziti, non sempre c’è la bella vita. Anzi, direi che non c’è e pace: quello era Almost Famous, ed era un FILM.
(“Se quando avevo sette anni mi avessero detto che a trent’anni avrei suonato il metallo a Berlino e poi avrei mangiato il broccolo vegano seduto per terra, non ci avrei creduto. E invece ho chiesto anche il bis.” Questo me l’ha detto V.Fisik qualche settimana fa, e lui tende a dire cose piuttosto giuste. Un motivo in più per avercela con quelli che dicono che i musicisti sono fortunati perché fanno carrettate di soldi divertendosi. Cioè, nella dieta vegana non è previsto nemmeno il BURRO, santo cielo!, esiste qualcosa di peggio?)

La domanda è: ma allora, a cosa serve mettere fuori un DVD di questo tipo? Calcolando che mi sono fatto la stessa domanda per i Train (ve li ricordate i Train? Se rispondete sì: fategli una telefonata, ché stanno depressi), non sono arrivato a una spiegazione se non: fare un DVD costa relativamente poco, e deve essere particolarmente redditizio.
Non credo infatti che gli ETID – badate: sono sulla ventina terminale, sono di Buffalo, sono degli scemi col botto, sono cresciuti negli anni ‘80 con gli AC/DC e MTV – abbiano voluto eseguire un esperimento di ridicolizzazione della TV spazzatura o kamikaze. Non credo altresì che abbiano voluto tenere in guardia le generazioni emergenti dai pericoli di alienazione e decadimento fisico (e soprattutto intellettuale) di un tour quando suoni la roccarolla e non sei Madonna. No.
Più che altro, ho idea che la band sia immersa nella cultura televisiva americana – che come quella italiana è un continuo e ininterrotto flusso di “useless informations”, di cui Mick Jagger era già stanco quarantadue anni fa – a tal punto che gli sarà sembrato plausibile rendere il mondo partecipe di qualcosa che suona più come “Hey! Afferrate una birra e correte! Sto per mettere su il video delle mie vacanze!”. Oscar per la generosità, allora, agli ETID, puri di cuore a inquadrare il loro pubblico come la comitiva di amici caciaroni.
E menzione d’onore, anche, per la disinvoltura: dato che ce ne deve volere, a non porsi il problema di fare cose che sembrerebbero ridicole praticamente a chiunque, perfino nel 2007.
E allora aridatece i Beatles. E le ammiratrici incontinenti, va’.

3 agosto 2007

de pettinatione bambolorum

(cane) scrive:
insomma ho visto un po' di cose nuove ultimamente
apparte The good German che è un film clamoroso

joo scrive:
maddai
lo DEVO vedere

(cane) scrive:
non ti è piaciuto?
NON L'HAI ANCORA VISTO?!?

joo scrive:
non l'ho visto ancora

(cane) scrive:
non riesco a crederci
TU che non hai ancora visto l'ultimo soderbergh? c'è del marcio a betlemme.

joo scrive:
lo so
non ho tempo

(cane) scrive:
ho visto Children of men, di Cuaron
davvero notevole
interessante come molte delle produzioni inglesi recentissime siano dei film catastrofici

joo scrive:
vero!

(cane) scrive:
l'hai visto?

joo scrive:
è clamoroso
non me lo aspettavo

(cane) scrive:
già
nemmeno io così
grandissimi livelli di ansia

joo scrive:
mi ha portato via, quel film
gli ultimi 20 minuti sono pesantissimi

(cane) scrive:
beh, direi tutta la seconda metà del film

joo scrive:
ma alla fine diventa tipo documentario di guerra
film attualisssimo

(cane) scrive:
e un ottimo Clive Owen

joo scrive:
OTTIMO, sì

(cane) scrive:
e Michael Caine
pochi giorni prima avevo visto The Weather Man
Michael Caine faceva l'esatto opposto della parte in Children of men

joo scrive:
vabbé caine ormai è L'Attore
com'è The Weather Man?

(cane) scrive:
molto bello

joo scrive:
anche se c'è nicolas cage?

(cane) scrive:
anche se c’è nicolas cage, sì
è il film popolare che Charlie Kaufman non ha ancora scritto o non sa scrivere

joo scrive:
maddai!

(cane) scrive:
già
perché è incentrato sulla figura di un uomo che veramente mai una gioia
non è proprio in grado di prendere una decisione vincente
e alla fine ci convive e stigrancazzi, ma senza genialate metatestuali tipiche di Kaufman, tipo adaptation per intenderci.
insomma, senza esagerare col surreale. anzi, senza surreale proprio.

joo scrive:
eheheh

(cane) scrive:
e Cage ha praticamente rimesso gli stessi panni di Adaptation
e in realtà vuol essere Kevin Spacey
come sempre quando non ha una pistola in mano

joo scrive:
un po' sì eh

(cane) scrive:
come anche in adaptation
solo che effettivamente Spacey se vuole sa tendere all’arrogante
ti ricordi Glengarry Glen Ross, no?
Cage no, riesce ad essere solo penoso
e comunque se la cava egregiamente, eh, va detto
certo, sembra sempre che abbia un ascesso in corso, ma se ci fai l'abitudine non è nemmeno così fastidioso
ho visto anche Bobby, poi
di Emilio Estevez
che è un ciccione
e secondo me sta ingrassando apposta per assomigliare a suo padre

joo scrive:
(VERO!)
visto al cinema, Bobby
non mi colpì granché

(cane) scrive:
infatti no

joo scrive:
cioé
sono uscito dal cinema
e mi sono detto
sì, vebbé, ma qual è il punto del film?

(cane) scrive:
mah, la Storia che irrompe nel quotidiano

joo scrive:
secondo me non lo sapeva neanche estevez quando l'ha girato...
mah...: dimmi qualcosa che non so, insomma

(cane) scrive:
mah, può essere un altro film sulla figura paterna
c'è chi sostiene che tutti i film americani siano in realtà film sulla figura paterna

joo scrive:
è una visione valida della faccenda

(cane) scrive:
e quindi Bobby non farebbe differenza
poi vabbé, un po' di cagate.
Talladega Nights
ho capito che Will Ferrell è bravo solo come spalla
perché da solo un film intero mi dispiace ma non lo regge

joo scrive:
hai visto "Stranger Than Fiction"? in quel film - che a me è piaciuto molto - è bravo come protagonsita
e cmq will ferrel mi sta simpatico

(cane) scrive:
sì. e infatti non è un film comico
è un ottimo film, scritto in maniera impeccabile, e poi c’è dentro chiunque, dai

joo scrive:
ESATTO
il punto è quello
l'hai visto dunque

(cane) scrive:
sì sì
e mi è anche piaciuto molto

joo scrive:
alè

(cane) scrive:
fa Calvino

joo scrive:
un botto
hai visto "Guida per riconoscere i tuoi santi"?

(cane) scrive:
no
non ancora, anzi, ma conto di vederlo il prima possibile, visto che ne ho letto tanto
poi ho visto questa chicchetta inglese che si chiama Hot Fuzz
in Italia non è ancora uscito
pallore apparte, è il primo film inglese FATTO bene tecnicamente che ho visto da un po'
fa ridere un casino, è intelligente, è cattivo
te lo consiglio.

joo scrive:
hot fuzz
ne ho letto tantissimo
con interesse
perché c'è simon pegg
che è un taglio

(cane) scrive:
che calcola non so che abbia fatto prima di questo film
joo scrive:
è quello di SHAUN OF THE DEAD

(cane) scrive:
ah, ma dai

joo scrive:
filmetto, ma mi ha fatto tagliare
Guida per riconoscere i tuoi santi guardatelo
è un buon piccolo film
con questo nuovo attore che tutti
sostengono essere
il nuovo tom hanks

(cane) scrive:
e chi cazzo è?

joo scrive:
SHIA LABOEUF

(cane) scrive:
che altro ha fatto?

joo scrive:
due dei film che hanno incassato di più in stagione: disturbia e transformers
e ha fatto pure Bobby!
è uno dei due ragazzini
che si vanno a drogare da ashton kutcher

(cane) scrive:
ah ok
spero non il biondo: mi sta sul cazzo

joo scrive:
no, l'altro

(cane) scrive:
ho capito chi è
ah! a proposito
visto che hai visto bobby
ma il tizio di dawson's creek
che recita in Bobby, Joshua Jackson
quanto vuole DISPERATAMENTE essere Clooney?
anche le sopracciglia, la fronte sporgente e gli occhi spalancati
disgustoso

joo scrive:
ODDIO, sì!!!
troppo!
è RIDICOLO
devo fare una cosa ora, sorry

(cane) scrive:
dai ok, fai pure
tanto ho un pezzo nuovo per il blog, e ho portato a casa la giornata

joo scrive:
alè