25 marzo 2007

softcore superstars

Ok, sono pronto adesso per parlare del disco nuovo dei Comeback Kid. L’ho aspettato a lungo, me lo sono procurato appena possibile, e poi l’ho ascoltato con cura, rosicando perché non ci capivo niente.
Che è una cosa che mi fa rosicare, soprattutto se parliamo dei Comeback Kid, perché nonostante siano un gruppo che utilizza in maniera disinvolta la scrittura hardcore (cioè sostanzialmente atematica), riusciva a proporre una musica piuttosto completa, sotto diversi punti di vista. Aggressivissima ma chiara – se usassero anche loro le chitarrone dei Terror vedreste come spingono le parti mosh, ma loro sono saggi e hanno un’ispirazione punk, insomma, e non metal: Gibson SG, dunque, non ESP – gusto per i fraseggi melodici, grandissima cura per i particolari, soprattutto ritmici, e in definitiva dei pezzi concisi, diretti, senza troppi sbrodolamenti, e riff clamorosi.
E allora è per questo che ho rosicato: molte di queste cose nel disco nuovo (che si chiama Broadcasting...) non ci sono più.
Ora, verrebbe da pensare che tutto questo sia dovuto largamente alla dipartita del loro vecchio cantante (Scott Wade) che ha lasciato il gruppo perché si era rotto le palle della vita on the road e insomma si voleva accasare e sotto certi versi chiamatelo scemo, se ci riuscite. Andando via il buon Scott e il suo tono da pescivendolo rissoso (molto meglio su disco che dal vivo), l’incombenza vocale è passata nelle mani di uno dei due chitarristi, Andrew Neufeld, che prima dei Comeback Kid stava in un gruppo che si chiamava Figure Four e usciva per Solid State – e non lo dico solo per fare il figo, quindi seguitemi bene).
Di solito si pensa che i gruppi hardcore compongano in strumentale e ai cantanti venga affidato il solo compito di metterci sopra un testo con una metrica convincente, e di conseguenza di strillarlo finché non stramazzano al suolo (o non lo fanno i ballerini violenti ai loro concerti). Può essere vero (anzi di certo lo è) per molte band, ma allo stesso tempo un gruppo è un gruppo finché è la somma di determinati elementi: cambi gli elementi, cambierà naturalmente la somma. Potrebbe essere questa allora – oltre a una naturale evoluzione dello stile e delle influenze che in due anni da queste parti subisce più rivoluzioni che uno stato del Centro Africa – una delle spiegazioni del cambio di rotta dei Comeback Kid, che si riassume in due punti principali.
Innanzitutto – ma questo s’era capito e d’altro canto era anche ovvio – lo stile vocale, che dal declamatorio agitprop di Scott Wade passa a una tonalità più sofferta e sempre al limite, con curve spesso ascendenti più che discendenti – qualcosa che ricorda continuamente un Vengooo Vengooo, avete presente? –più dolorante che minacciosa, e dunque più intimista: in due parole, più Solid State che ardecòre (e tra un po’ vi spiego pure che cosa intendo una volta per tutte).
Poi: la scrittura abbandona un po’ il riff-o-rama (grazie cuoco per lo splendido neologismo) a cavallo tra old e new school che aveva fatto la loro fortuna (e causato più di qualche livido nel moshpit, sono sicuro), per approdare a un approccio più armonico, facendo affidamento più a climax emotivi dettati dagli accordi che all’incazzatura dura e pura dei vecchi dischi.
Insomma, i Comeback Kid post-Scott Wade sono un gruppo che strizza pesantemente l’occhio all’emocore/new school che sta facendo la fortuna di etichette come (eccoci qua) la Solid State e la gemella Tooth & Nail - che è un po’ l’equivalente del rasoio femminile, se vogliamo - e gruppi come Life In Your Way, ma anche gli stessi Norma Jean una volta in mano a Sua Piattezza Ross Robinson.
Sarà che l’estrazione dell’attuale cantante (e responsabile di buona parte dei pezzi) è proprio quella, sarà che questa è la musica che va per la maggiore in questi ambienti, sarà che dopotutto è anche lì che stanno i soldi, e allora si capisce che cosa sta succedendo.
Il che per certi aspetti è una presa a male – perché Wake the dead era un disco spettacolare – ma in definitiva non è una tragedia, perché tutto sommato nonostante qualche ruffianata, qualche piagnucolata qua e là e qualche pezzo sottotono (cosa che nel disco precedente non esisteva proprio), Broadcasting è in definitiva un buon disco, di quelli che si riascoltano con piacere, e tutto sommato fanno anche venire una discreta munizza.
Va anche detto che nel frattempo i nostri bravi amici canadesi sono cresciuti ulteriormente: la batteria è mozzafiato, le chitarre precisissime e PARECCHIO epilettiche (la cavalcata che sta in mezzo a Come Around è in grado di rifarla solo Kerry King), e in definitiva i pezzi vanno giù abbastanza bene (se non fosse per l’opening track, Defeated, che finisce dopo un minuto e mezzo e va avanti così PER SEMPRE, e che tra l’altro è esattamente il Bignami di tutti i punti deboli di questo disco), la voce in fondo in fondo non è nemmeno particolarmente fastidiosa (niente in confronto agli Alexisonfire, per capirci), e anche se la produzione è più spigolosa del disco precedente – pur se affidata sempre all'ex bandiera nera Bill Stevenson – alla fine non sconfina né nelle nubi dell’emocore da grande artista, né nel metal cretino come – tipo – l’ultimo Terror (che dai, fa veramente ridere: sembra che abbiano dissotterrato intatta la sala dove hanno registrato i Nevermore, si siano messi seduti e abbiano premuto REC).
Fortunatamente è cresciuto, col tempo: all’inizio era già bell’e pronto a una stroncatura esemplare. Del resto non essendo io un critico (ma come vi permettete?) e avendo adorato il loro disco precedente, sono stato fin troppo facilmente colto dalla smania di ascoltare ancora e ancora qualcosa di simile.
Ché del resto è questo il problema di fare un disco fantastico. Voi pensate di poter campare di rendita? Impossibile. O ne fate un altro per forza – altrimenti noialtri vi tiriamo i carciofi – o vi sciogliete e vi mettete a fare ALTRO.
Morale della favola: c’è sempre da imparare dai Refused.



PLAYLIST>
cure: high
boards of canada: aquarius
spandau ballet: i’ll fly for you
inferno: lowest common detonator
taxi: the vampire
mandible chatter: the myth of progress
combatwoundedveteran: i’ve got a slingshot, want to get hurt? (again, faster)
tears for fears: everybody wants to rule the world
slayer: serenity in murder
don caballero: chief sitting duck
the who: it’s not true

22 marzo 2007

storie di ordinaria resistenza

Uno dei motivi per cui ho salutato con giubilo la proposta di (cane) di mettere in piedi un blog non è stata l'opportunità di esprimere finalmente il mio autorevole punto di vista su cose di musica - neanche fossi Lester Bangs o, che ne so, Peter Guralnick – e nemmeno il sadico piacere di poter fare il “Lancio della cacca” sulla stampa, il mercato ed il mondo musicali de’ noantri. Semplicemente potevo dire ciò che mi aggradava sanza patemi d’animo o impedimenta. Ora, mi sembra chiaro che la mia opinione sia da considerarsi attendibile non più di un chiasso delle viscere nel meriggio digestivo d’un giorno festivo, tuttavia non mi si può attribuire alcuna connivenza con etichette discografiche, distributori, tipografie e i vari “Affini” che abitano il circo della stampa musicale – ergo, almeno la buona fede, spero mi venga riconosciuta.
Tutto questo per introdurre la band a cui sono più affezionato, almeno per quanto riguarda il luttuoso panorama del mainstream italico: i Gang.
Scrivere sui Gang è, al giorno d'oggi, più o meno come militare in una formazione della sinistra parlamentare negli anni '70, solo che, invece di trovarti in un fascicolo della DIGOS (e forse i Gang ci stanno, in un fascicolo della DIGOS, chissapoiperché...) ti ritrovi ad immaginare le barbe del popolino “Intellighente” della musica farsi via via più lunghe e, con un po’ di sforzo, riesci persino a divinare il loro commentario da cinici, smaliziati conoscitori dell’Argomento (con la “A” maiuscola). Ah, a proposito, loro, praticamente, fanno la parte della DIGOS all'epoca.
Premetto che non ho rapporti col cantautorato politico italiano degli anni ‘60- ‘70; ho sempre trovato tutti immancabilmente noiosi e irritanti, circonfusi com’erano di quell’alone di santità che gli derivava dall’essere dalla “Parte Giusta” nel momento storico giusto. Mi ha sempre infastidito. Non intendo irridere al significato che i vari Lolli, Guccini, Bertoli o altri autori impropriamente definiti “Minori” (come i francescani, guarda un po’) hanno avuto per quella generazione ma, semplicemente, la mia generazione era diversa.
Eh sì, cari miei, perché se nel ’77 avevi tre anni, nel mondo che sarebbe seguito, saresti stato solo uno tra quelli che si erano “Persi tutto”. Perso Hendrix al Brancaccio, persi senza appello i Beatles all'Adriano, perso il ’68, la contestazione, il libero amore, perso il Boom economico, perse le sezioni di partito, persa la militanza, perso lo scontro generazionale. Parliamoci chiaro, avevano bisogno di una generazione da scoglionare con tele-mondezza, Tangentopoli, Sanremo, il PDS, le illuminate riforme del mondo del lavoro che tutti ci angustiano e i sintetizzatori.
Un altro motivo di alterità da quella generazione che aveva invece “Fatto tutto” (o che, almeno, ci aveva provato) era che questi qua erano più bacchettoni dei tuoi genitori: cercavano di inculcarti la politicizzazione, la solidarietà, il movimentismo ad ogni costo e poi si comportavano come i peggiori individualisti sull’orbe terracqueo, ci provavano – tra un Bob Dylan e una canna – con la tua pischella e (Horribile dictu) alle volte gli andava pure bene.
Per noi c’era poco. A volte mi spaventa il pensiero che da nonno (se mai riuscirò ad esserlo) parlerò allo sventurato nipotino di quanto noi adolescenti degli ’80, giovani dei ’90, sottoccupati del nuovo millennio, non avessimo quasi nulla, esattamente come raccontavano i miei nonni che avevano fatto la guerra, anzi LE guerre.
Ma torniamo a bomba con una semplice esternazione estetica: il cantautorato nostrano della meglio gioventù era palloso, suonava a basso volume canzoni tristi, andava benissimo per trovare la fidanzata ma non per fare festa, non per fare a botte col famigerato SISTEMA. Infatti, ’sta meglio gioventù, dopo tutto ’sto casino dove ce la siamo ritrovata se non in televisione, se non doppiopettatissima a sputare veleno sui ragazzini e le ragazzine, le donne e gli uomini, i preti e le monache che se ne erano andati a fare una passeggiata chiassosa in quel di Genova nell’estate del 2001?
I Gang sono un'altra cosa, sono roba nostra.
Da 20 anni provano ad alzare il volume quel tanto che serve a fare del Folk il Rock’n’Roll e dopo averli visti circa 20 volte in concerto, posso dirlo: È FESTA!!! E vanno bene per fare a botte col famigerato SISTEMA. Finalmente l’avevamo capita: per cambiare le cose, data la controparte storica che ci ritrovavamo, poteva servire saper alzare la voce, anche se è solo una “Magnum Les Paul”, una chitarra elettrica.
I Gang portano giacche di pelle, capiscono di musica, amano i Creedence e Bruce Springsteen, i Social Distortion e i Pearl Jam e hanno trovato il significato della vita disseppellendo Guns of Brixton dal suo feretro di Reggae. Dirò di più, concettualmente sono i miei candidati ideali alle elezioni politiche: onesti, coerenti e clashisti – ché mi sono stufato di avere fan di Mina, Battisti, Beatlesiani della terza ora, amanti del jazz e della Vanoni che mi governano o, peggio ancora, melomani poco competenti ma sempre in prima fila alla Scala, o beghini in fissa solo con il canto gregoriano, la famiglia e la preghiera della compieta... DOVE SONO I NOSTRI?!?
Dove stanno i fan dei Clash, dei Dead Kennedys, dei Talking Heads, dei Police? Dovrebbero essere eleggibili, oramai; dovremmo averli già eletti, oramai.

In questo periodo i Gang stanno vivendo l’esilio e la resistenza. Sono ostracizzati dalla stampa sempre pronta a sbrodolare su avanguardie scorreggione e Poppetto da classifica; circondati dal cinismo della critica contemporanea, che li accusa di vetustà contenutistica; penalizzati, nonostante il curriculum, dalla mancanza di coraggio del sedicente mercato indipendente che alla fine, gira gira, mira solo al grano e loro “Non vendono abbastanza” (più o meno come lottanta per cento dei gruppi validi dalle nostre parti).
Recuperano le radici popolari della nostra musica come fossero Johnny Cash e non la Nuova Compagnia di Canto Popolare, ma non vendono abbastanza.
Incidono di dischi di rockarolla americana come quella che fa avere successo a Ligabue e gli permette di investire in immobili, e non vendono abbastanza.
Ricevono il rispetto e la stima di Billy Bragg che è incensato da mezzo mondo, ma non vendono abbastanza.
Sparano canzoni da tre minuti tutte speranza ed energia come facevano i Clash o come fa il Boss, ma non vendono abbastanza.
Perché non proviamo a venderli e a promuoverli prima di stabilire se non vendono abbastanza, mie care etichette indipendenti?

All’inizio degli anni ’90 i Gang riempivano i posti e facevano ballare la gente, e non solo alle feste dell’Unità, perché erano e sono, innanzitutto, una rock’n’roll band: dunque, divertenti. Adesso la loro appartenenza politica viene derisa come se fossero vetero-stalinisti invece che critici lucidissimi del presente e fa strano davvero. Davvero, non capisco. Se questo paese è ancora lungi dall’affrancarsi dal ricordo della guerra, dei tedeschi e dei fascisti, se si tratta un argomento come le BR con la stessa leggerezza storica che hanno i giornalisti quando parlano dei Talebani che almeno sono un problema contemporaneo e dunque non storicizzabile con facilità, DI COSA DOVREBBERO PARLARE I GANG?
Parlano di resistenza perché la resistenza, quella umana, quella che ti permette di campare sorridendo in mezzo a questo merdaio SERVE! Se poi usano la resistenza, intesa come momento epocale della storia di un popolo - cioè come metafora, per parlare al presente del presente - cosa, domando umilmente, c'è di “Vetero-qualcosismo” in questo?
Per non parlare del fatto che... MA L’AVETE VISTI VOI I GANG? Non hanno un tour manager che gli procura cocaina e mignotte; non alloggiano in alberghi di lusso; non hanno un’etichetta che lavora per loro e li spinge. QUESTI FANNO TUTTO DA SOLI. Girano su una Opel giardinetta, mi pare, che stipano di strumenti e spesso alla fine del concerto, ovunque siano, se non hanno trovato da dormire tornano a casa. Sono il gruppo più indipendente che conosca, fanno la stessa vita dei gruppi ardecore ma con molta meno gloria, qualche anno e qualche figlio in più e con l’amicizia di Billy Bragg alle spalle. Cosa deve fare un gruppo in questo paese per essere considerato? Mettersi l’ombretto? Mostrare il ventre piatto? Cantare di nulla ma con un sacco di lustrini?

Da diversi anni Marino Severini, il cantante dei Gang, dice che un giorno vorrebbe tornare a lavorare la terra e scrivere solo canzoni su come si coltivano i peperoni, e non cantare brani fatti rabbia e di critica verso un paese che non sa vedere se stesso.
Di buono, io, posso dire a Marino che le sue canzoni vanno bene per gli Ultimi, schiera nutritissima alla quale, per ragioni generazionali, sono onorato di appartenere, ed insieme alla quale resisto, sorridendo, ammaestrato dal loro esempio.
Vi stanno tanto sulle palle? Volete liberarvi di loro? Allora pregate che questo paese migliori, e mettetevici d'impegno pure voi, altrimenti i Gang continueranno a dirvi di resistere, a dirvi che NO, non va tutto bene e che non vivete nel migliore dei mondi possibili.
Non saranno sempre facili da ascoltare e sono impossibili da fagocitare e imbavagliare, sono solo il vostro avversario più tosto, dunque dategli un po’ più di rispetto, PERDIO!!!

19 marzo 2007

un altro panegirico

Il disco degli Jesu è una bomba. Conqueror. Uscito per Hydra Head alla fine del 2006; me lo sono procurato e l’ho sentito subito, cosa che faccio di rado: mi procuro i dischi e me li sento quando c’ho tempo, anche perché spesso e volentieri so già dall’inizio che sono delle sòle clamorose.
Il primo che mi aveva parlato degli Jesu era stato Bedanì (non ho mai capito come si scrive, ma tanto è un ragazzetto con il senso dell’umorismo), che però sta un po’ troppo in fissa con gente come Pelican, Isis, Between The Buried And Me e compagnia bella, e dunque quando aveva fatto saltare fuori questo nome mi ha fatto pensare Beh, dev’essere anche questo un gruppo di gente che non è in grado di farsi una C.D.S. (“Cazzo De Risata”, parametro indispensabile per il mio gradimento di una band, l’ho stabilito di recente).
Tuttavia – dato che sono magnanimo e do una chance a TUTTI i gruppi che mi vengono nominati (TUTTI, perfino i Juno, vero E.?) – mi sono messo tranquillo e li ho reperiti tutti.
Il come li ho reperiti non ve lo dirò. Diremo che NON sono andato in un negozio di dischi, ma sono stato comodamente seduto a casa mia e dopo un breve tot di tempo i dischi si sono materializzati (non mi prendete alla lettera) nel mio computer, pronti per essere ascoltati. Diremo anche che se c’è un vantaggio della modernità è proprio questa opportunità di consumo critico che offre, la possibilità di operare una selezione preventiva del materiale per cui vale la pena spendere dei soldi (soprattutto in un posto in cui i cd costano 23 euro, e TUTTI i cd costano 23 euro, anche quelli degli artisti morti da vent’anni, anche quelli che escono per certe etichette indipendenti, forse per non farli sentire da meno, che ne so: è bello vivere in un paese in cui la gente non si fa domande sul PERCHE’ una cosa costa quanto costa, e quando ogni tanto qualcuno lo chiede, si accontenta della prima risposta che arriva dalla televisione, ma stiamo divagando come al solito). Insomma, mai più sòle, grazie a internet. Ecco.

Il primo Jesu (che si chiama come il gruppo) mi era piaciuto, ma effettivamente aveva delle caratteristiche un po’ amare che non gli hanno permesso di passare la prova del tempo. Tuttavia la matrice musicale era affascinante. Dilatazione, tempi lentissimi, oceani di chitarre (OCEANI, gente, sono dappertutto): e in cima, una voce pulitissima, sepolta dagli strumenti, ulteriormente astratta dal delay, e spesso aiutata da un synth minimalissimo e insistente come un antifurto (ma raramente così fastidioso).
Però sapete com’è: è un primo disco. E poi Justin Broadrick è uno che ne ha fatte troppe di mattate, negli anni 90, per poterne uscire di slancio.
Già perché lui è uno dei tanti geni che sono usciti dai Napalm Death – a volte mi chiedo che cazzo gli dessero da mangiare alla gente, a Birmingham, se poi sono tutti diventati dei pazzi a quel modo. Mick Harris con gli Scorn e per i fatti suoi, Shane Embury in una delle ennesime incarnazioni dei Brujeria, Bill Steer con i Carcass (che faranno anche ride ma sono fantastici) e Lee Dorrian con i Cathedral (a-hum, fate finta di niente). In tutto questo i Napalm sono ancora i Napalm, gente, mica sono diventati i Pooh (che credo di aver sognato stanotte, e credo anche di sapere il perché – così come sa il perché della gente che mi ha chiesto di scrivere di musica italiana)
Justin Broadrick invece, dopo i Napalm Death ha messo in piedi i Godflesh – un gruppo capitale per il metal parente dell’industrial music – poi i Techno Animal, e infine ’sti Jesu, che (ricapitoliamo) dopo un primo disco un po’ amaro (e un EP di esplorazione), hanno tirato fuori Conqueror, che è una bomba.

Il motivo per cui Conqueror è una bomba è che è un disco pop. Nel vero senso della parola. Se togliamo le chitarrone, e in definitiva l’ispirazione metal, rimangono due cose: una batteria trip-hop suonata con le 2B al contrario, e una voce che disegna delle melodie impeccabili, e soprattutto orecchiabili e memorabili. È strano, lo so: l’ultimo disco metal orecchiabile di una certa dignità che mi viene in mente è probabilmente The Number Of The Beast, l’associazione metal/melodia ha creato dei mostri a tre teste per tutti gli anni 80 e 90, e non ha ancora smesso, diventando quel fenomeno borderline che è oggi, perché diciamocelo, se qualcuno ascolta VERAMENTE i Nightwish – veramente nel senso di: non per riderci su – potrebbe avere dei seri problemi di personalità.
E questo perché la melodia è una cosa piuttosto delicata. Bisogna saper costruire bene delle cose che stiano in piedi da sole anche se le fai girare come trottole. Architetture semplici ma non banali, leggerezza ma non frivolezza (a meno che non lo volete). Insomma, è un po’ come il pane: voi guardate il pane e pensate Ah beh, certo, il pane, che ci vuole a fare il pane, eppure è una cosa difficile. La melodia, uguale.
E Justin Broadrick questa cosa deve averla pensata per bene, perché la melodia che contraddistingue Conqueror (tipo la title track, o l’ultima: Stanlow) è una melodia sapiente, curata e pensata con attenzione. Non gli alti lai del post metal che vuol prendere la melodia da qualche parte e guarda all’emo (gravissimo errore), non la pseudo-melodia dell’hard rock pentatonico IanGilliano (quanta gente ha rovinato: perché Milosevic sì e lui no?). Una melodia nuova e fresca, efficace e catchy che poi alla fine è quello che predomina un disco che di suo è invece già fortemente caratterizzato da uno stile estremamente singolare.
E del resto è proprio questo il pop (o almeno il pop OGGI): il non aver paura di fare una cosa semplice, una cosa che può essere percepita anche a un primo livello di lettura, anche da parte di un ascoltatore non introdotto al genere, o al sottogenere, o alla sottoparrocchia, per la miseria.
Al contrario, c’è un panico abbastanza diffuso, nel panorama della musica non mainstream, ad avvicinarsi a territori già battuti, a usare il cliché a proprio vantaggio. Il che è comprensibile sotto diversi punti di vista. Un po’ perché a usare il luogo comune in maniera inventiva ci vogliono le palle – e non tutti i test danno risultati positivi – un po’ perché ad aprirsi a una possibilità “popolare” molti gruppi perderebbero l’alone di santità che l’essere di nicchia ha come accessorio, un perché – e questa è conseguenza – quando una band esce “allo scoperto” (anche se è una cosa genuina e non un meretricio come spesso accade) si ritrovano automaticamente una legione di dita puntate contro: i fan che accusano di essere stati traditi, la critica che accusa di essersi venduti (e sappiamo che non esiste niente di peggio di certi critici alternativi, che osannano un gruppo solo finché non lo conosce nessuno, in modo da potersi sentire i più fighi del bigonzo).
Ma dato che Justin Broadrick non è esattamente l’ultimo arrivato, c’è da supporre che abbia preventivato lo stacco che una scelta del genere possa causare, nei confronti delle altre band della “scena” post-metal (o alt-metal o come diavolo lo volete chiamare).
La cosa che sarebbe da chiedersi adesso è Cosa succederà? In che modo questa nuova sensibilità pop potrà informare una nuova ondata di produzione in questo ambiente musicale, che sappiamo essere ESTREMAMENTE sensibile – per non dire ruffiana – nei confronti dei messaggi dei maestri?
Di fatto Conqueror ha tutta l’aria di essere un disco se non seminale, almeno abbastana importante nel suo giro, e toccherà tenere d’occhio etichette come Relapse, Ipecac o la stessa Hydra Head che pubblica il trio di Broadrick per avvistare eventuali altre gemmazioni. Che speriamo non siano le solite scopiazzature del ringleader, perché francamente ne avremmo anche un po’ abbastanza.
Abbiamo capito, abbiamo capito: se fai musica simile poi ti mettono nello stesso bill, ma perdio, un po’ di dignità...



PLAYLIST>
the beatles: the fool on the hill
kaki king: second brain
muddy waters: just to be with you
sam cooke: another saturday night
pig destroyer: thumbsucker
the jam: happy together
billie holiday: i cried for you
nick drake: which will
sick of it all: no cure
gomez: how we operate
tom waits: kommienezuspadt
slayer: piece by piece

5 marzo 2007

de Mai Una Gioia (ovvero: anatomia di una fissa)

Insomma, se perfino Steven Spielberg gira un film in cui i suoi alieni prediletti portavoce del progresso e del dialogo universale, se anche lui decide di fare un film in cui a un certo punto la Terra viene attaccata a buffo, e solo perché offre una risorsa, allora vuol dire che probabilmente sono rimaste poche carte da giocarsi per avere un po’ di speranza da parte dei media.
Che poi perdio, questi alieni devono anche essere abbastanza male informati per venire a sfruttare un pianeta come la Terra, visto che ormai sappiamo tutti che siamo alla frutta tanto che a questo punto verrebbe anche da chiedersi se vale la pena dare alla luce una nuova generazione che dovrà iniziare ad esercitarsi fin dalle elementari a indossare le maschere in fretta e accucciarsi sotto i banchi SENZA FARE CONFUSIONE.
Insomma, in due parole, ci sentiamo un po’ in pericolo, e in colpa, e in fin di vita con un sacco di rimorsi e insoddisfazioni quando l’ora cruciale arriva, e cazzo se arriva (penitentiagite, a proposito).
Voi potrete anche pensare che questi sono i pensierini del lunedì mattina e che avrei fatto meglio a dormire un altro paio d’ore invece di stare come sto, e tutto questo è anche comprensibile, ma al di là delle interpretazioni particolari sta di fatto che se la musica, il cinema, la letteratura, esprimono sotto pelle lo spirito dei tempi, beh: lo spirito dei tempi non è brillante.
So much for pathos.

Quando è uscito No heroes, io ho detto a Teg, Teg non lo so, questo disco mi sembra un po’ scollato, mi sa che non siamo all’altezza dei due precedenti. Lui mi ha risposto, Che stai dicendo, No heroes è una bomba, più che altro era You fail me che faceva un po’ cacare. E come spesso succede, a me un po’ di tempo ci vuole, ma poi capisco, e se capisco poi ve lo vengo a dire, per cui non vi preoccupate (o fatelo, se preferite).
Dei picchi, ci trovavo, dentro No heroes, e poi dei momenti di smarrimento che non riuscivano a tenermi insieme il disco, perché se c’è una cosa che i Converge hanno imparato a fare, almeno da quando hanno scritto il capolavoro della musica aggressiva degli ultimi quindici anni, è tenere insieme il disco.
Allora portatelo appresso all’Auchan, portatelo appresso dentro il tram, portatelo appresso in macchina per andare e tornare dalle prove, ascoltatelo a casa e dagli tempo – ho pensato – che poi vedi che in qualche modo ti si apre, No heroes. E alla fine, come previsto, No heroes si è aperto, e aveva senso: i momenti di scollamento erano riferimenti imprevedibili, e in definitiva è un bellissimo disco completamente morto.

Perché è questo di cui si parla quando si tratta dei Converge: la loro musica è l’esatta colonna sonora del disastro planetario e universale. Una pura imitazione del suono che fa il mondo quando va a puttane.
Un suono irregolare, aspro e asimmetrico, sapiente di tutto il suo passato come se un software leggesse le pagine di wikipedia TUTTE INSIEME, facendo naturalmente una gran cagnara.
Ma non prendetemi in parola: non sono esattamente i testi il loro punto di forza, o almeno di questo disco in particolare. Almeno negli ultimi due-tre dischi, Jacob Bannon pare che avesse qualcosa da farsi passare, visto che le sue tematiche preferite tendevano ad essere le storie d’amore finite – nello squallore e nel senso di colpa, ma questo mi sa che andava da sé – giudicate spesso con l’indulgenza e la bontà che tipica dello straightedge/jesusfreak comprensivo e autolesionista, che non sbrocca mai ma si immedesima e capisce (e capisce proprio perché si immedesima e mette in conto la fallibilità e la pochezza dell’umano, cosa da non fare mai quando vuoi incazzarti con qualcuno in maniera unilaterale, che è una cosa tanto infantile quanto piena di soddisfazioni, ma non divaghiamo).
In No heroes invece Bannon si fa un po’ più etico – forse anche questo segno dei tempi, o del fatto che sta diventando sempre più un punto di riferimento di tutta una serie di hardcorers emaciati dal cuore tenero (lo so, lo so, è una contraddizione) – e pontifica sulla morale contemporanea, in questo senso appiattendosi su tematiche e formule dell’HC più tradizionale (dio, a un certo punto dice DAVVERO “In a world of enemies I walk alone”, cosa che a occhio e croce deve aver detto chiunque da Jamey Jasta al Bizzuro o a Scott Vogel, o comunque CHIUNQUE da quando l’hardcore moderno è sinonimo di machismo hooligan e metropolitano).

Il motivo per cui i Converge sono diversi – e per la miseria se lo sono: almeno da dopo Jane Doe, che prima erano un po’ troppo nu-metal meets Today is the day per potersi distinguere da ogni altra band al mondo – sta ok nella vocalità di Bannon (che ricorda il rumore di una spugna strizzata – ma, hey: mi PIACE), ok negli arrangiamenti da labirintite, ok nel suono perfettamente originale, ma soprattutto nelle atmosfere, parola abusatissima, motivo per cui adesso approfondiamo.

Kurt Ballou è il chitarrista dei Converge. Evidentemente un mezzo genio perché si è praticamente inventato il gruppo, e deve averlo reinventato quando si è trattato di Jane Doe, poi l’ha mantenuto coerente, riconoscibile, perfettamente originale (facendo coincidere scrittura e suono talmente profondamente che quelli che cercano di suonare come loro te li ciocchi immediatamente).
Ancora oggi non sono in grado di capire – per dirne una – che diavolo di chitarre e amplificatori usi. Si è visto con una Rickenbacker dentro un Orange, con delle robe custom, con delle Tele – dio le abbia sempre in gloria e le preservi dallo scatafascio globale, ché almeno quelli sarebbero oggetti interessante da far ritrovare dagli archeologi e dagli antropologi del futuro – dentro dei Sound City, insomma, lo stato dell’arte, e un gran gusto per il suono: non popolare, ma saggio e lungimirante, il che già solo per questo lo rende uno dei chitarristi migliori in circolazione. E badate che io per chitarristi intendo “gente che suona la chitarra dentro una band”, non i pipparoli olimpionici di cui il mondo non ha bisogno.
In definitiva, è lui il responsabile dell’enorme tetraggine e dell’infinito cordoglio che è elemento fondamentale della musica dei Converge.
Almeno da Jane Doe a questa parte (ma si sarà capito che loro sono diventati quello che sono in quel momento) la musica dei Converge – che è appunto parto di Ballou – è il racconto di una tristezza densa, implacabile, e senza possibilità di redenzione. Tutto questo con accordi complessi, spesso molto dissonanti ma comunque sempre necessari a uno sviluppo tematico all’interno del pezzo (e perfino all’interno dello stesso disco), attraverso dei riff che giocano con la storia del punk e – dài – di un po’ tutto il rock come materia prima, dosando in maniera piuttosto ammiccante i cliché del r’n’r con i tempi impossibili che il suo batterista/fenomeno è ben intenzionato a sottolineare: Ballou è in grado di parlare un linguaggio completamente suo, un linguaggio che articola diverse sfumature della stessa desolazione che informa tutto quanto il progetto Converge.

Scaruffi dice che i Converge sono emocore. Lui potrebbe anche avere ragione, ma dimentica che i generi vanno reinterpretati in maniera storica, per cui se tradizionalmente adesso l’emocore viene associato con i Thursday, è chiaro che i Converge fanno tutta un’altra musica. Per cui ancora una volta rimane aperto l’invito a dedicarsi alla pesca d’altura.
Wikipedia invece dice che sono un gruppo mathcore – lì non mi ci posso arrabbiare perché chi scrive su Wikipedia è in genere una persona generosa e non per forza competente.
Al di là del fatto che non si è ben capito cosa voglia dire questa etichetta (così come non si sa cosa indichino di preciso l’80% dei sottogeneri che terminano con -core), ancora non ci siamo, se per mathcore intendiamo anche gente come i Dillinger Escape Plan o i perdibilissimi Number Twelve Looks Like You. Innanzitutto perché il mathcore sembrerebbe una musica tanto articolata e storta quanto fredda (e daje), e in secondo luogo perché batterista apparte non bisogna essere particolarmente virtuosi per suonare la musica dei Converge.
Certo, bisogna saper contare e sapere sempre dove ci si trova, ma questo è un po’ un requisito fondamentale di tutti i nuovi linguaggi che stanno venendo fuori – a meno che non abbiano un altissimo coefficiente di tupa-tupa ma anche quello non è più così scontato – ma non è quello che fa i Converge, dato che loro stessi preferiscono dire che suonano “musica aggressiva”. Cosa che spesso e volentieri è una cosa che non fa testo perché tutti i gruppi si accompagnano di default a una definizione o specificissima (indella-core?) o vaghissima (aggressive music, appunto) di modo che poi nessuno possa avere nulla da recriminare.
Eppure, da Jane Doe in poi, i Converge hanno dimostrato di poter dare veramente un significato a questo enorme ombrello che questo “genere” permette. Benché strizzate all’osso, mutilate di tutti i passaggi non necessari (spesso anche dei singoli movimenti di battuta inutilizzati, nella scrittura obliqua che ormai è loro marchio di fabbrica) e immerse in un leggero e alienantissimo riverbero (già, lo sanno davvero fare), le canzoni dei Converge sono sempre autosufficienti da un punto di vista tematico, estremamente caratterizzate da un atteggiamento preciso e mai prolisse, anche quando sono estenuanti, lunghe e ripetitive fino alla trance (alla You fail me, per intenderci).
È chiaro che in un ambiente – quello postcore, postpunk, postmetal o quello che vi pare – che lascia molto a desiderare in quanto a intensità, economia, visione musicale d’insieme o senso del sound e dell’arrangiamento, e che al contrario si attiene in maniera islamica ai dettami del genere o peggio: del sottogenere (avete sentito il nuovo Alexisonfire? È tutte queste cose insieme), i Converge, gruppo sapiente e parsimonioso, sono forse l’unico gruppo che vorremo ancora sentire tra dieci anni.
E del resto non stupisce nessuno che siano in giro da così tanto. Che grazie al cielo una delle cose belle di questo grande carrozzone è che i gruppi lerci cadono come mosche.



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ani difranco: unrequited
cave in: stained silver
regina spektor: lady
motorpsycho: vortex surfer (live)
hüsker dü: broken home, broken heart
tom waits: a good man is hard to find
death from above 1979: black history month
the rolling stones: ruby tuesday
radiohead: (nice dream)
the jesus lizard: churl
heartless bastards: gray
the beatles: i am the walrus
slayer: behind the crooked cross
the clash: remote control
combatwoundedveteran: ecomonic downturn with the kung fu grip