4 giugno 2012

Sun Kil Moon: Among the leaves [Caldo Verde, 2012]

Kozelek è uno che faccio fatica a capire, il che è un bene, ci mancherebbe.
È strano lui, è strana la sua faccia burbera che non c'entra niente con la musica che fa e con quello che canta. È strano pure quello che canta, che strappa un po' il cuore un po' i sorrisi. E sono strane le scelte che fa. Nel senso, inizi una carriera solista con un disco di cover degli AC/DC, poi torni al sound familiare della band che hai di fatto appena sciolto, poi ti concentri su canzoni intime come un dolore al petto accompagnate dalla sola chitarra classica (ah, e grazie per avermici fatto fare pace, già che ci siamo). Insomma, io ti tengo d'occhio, Kozelek, che spunti a buffo anche in film completamente improbabili, ed essendo stato la colonna sonora di infiniti struggimenti, ti voglio pure quasi bene.
Quindi quando il buon Donalisio mi ha detto che era uscito il nuovo Sun Kil Moon, e dopo aver rosicato perché non ne sapevo niente, mi sono precipitato ad ascoltarlo e ho pensato Ah ecco un altro disco solipsista di tessiture di chitarra classica, che però non sembra essere così complesso come l'ultimo che invece era molto pensato, molto articolato, fatto di canzoni scritte quasi in maniera classica tema-sviluppo-variazione, i pezzi sono più corti, più diretti, quasi delle istantanee, un approccio un po' più snello. Dai, non è male, ho pensato.
Esatto, non è male.
Per carità, Kozelek continua ad essere trasparente come una sorgente di acqua amara, canta di luoghi e sensazioni in maniera immediata, sognante più che appassionata, ma urgente come una fitta. Eppure questo disco sembra mancare della visione d'insieme degli altri. Non è del tutto acustico (qua e là, come nella title track, appaiono una chitarra elettrica e una batteria che ultimamente latitavano), non è del tutto continuo. È bello e morbido come tutte le cose che fa, e la sua voce sembra sempre uscire da una testa pressata da un post-sbronza solitario, ma ecco, nonostante gli ingredienti ci siano tutti e siano anche ben dosati e un po' più variegati di quanto fossero finora beh, ecco, io se dovessi iniziare a sentire Kozelek beh io ecco io mi sa che inizierei da un altro disco.

Verdetto: 6

3 giugno 2012

To Rome with love (Woody Allen, 2012)

Allora io ho visto un sacco di film di merda in vita mia perché essendoci la crisi ci può stare che uno se ne sta dentro casa e mette su la prima cosa che il convento del sacro streaming mette a disposizione e non pesca sempre bene, no?, quindi m'è capitato di vedere dei pipponi da svenire dei film senza ritmo delle robe che ridefiniscono loro malgrado il concetto di trash, ho pure un paio dii volte voluto fare degli esperimenti e ho guardato dei film italiani ggiovani quelli in cui sopperiscono alla mancanza di bravura sgranando gli occhi e gesticolando in maniera ampia, dai, avete capito, quei film in cui i personaggi dicono cose che nessuno direbbe e fanno cose inspiegabili, quei film che servono al regista sceneggiatore a vendicarsi contro la vita, cose tipo Santa Maradona, tipo Febbre da fieno, insomma io ho visto cose.
Io che To Rome With Love marcava male me lo sentivo e me lo sentivo pure da lontano, un po' perché onestamente Woody Allen non azzecca una commedia da Anything else - che manco era 'sto granché -, un po' perché questa cosa di girare un film all'anno è fisiologico che non porti a niente di buono, soprattutto quando ormai la vena s'è esaurita da un po', e su questo penso che siamo tutti d'accordo. Marcava male e me lo sentivo fin da quando repubblica.it aveva annunciato che "il nuovo film di Woody Allen sarà una dichiarazione d'amore alla città eterna", e qualcuno l'aveva visto circondato da personaggi di calibro inversamente proporzionale allo squallore durante le riprese. Marcava male quando sfronda sfronda si tratta di una commedia in location infarcita di attori all'ultimo grido (più qualche decano mendicante di attenzioni, ci mancherebbe) e incentrata sugli equivoci e sui luoghi comuni sugli italiani.
Cioè, rega', un film di Natale dei Vanzina.

Le storie che compongono il film sono 4. Per facilitare l'indicizzazione, inserirò un rumore di campanello ogni volta che si presenta una banalità. Pronti? Via.
La prima: Una turista americana si innamora di un avvocato romano. I genitori di lei sono un impresario in pensione e una psicanalista. I genitori di lui sono un impresario di pompe funebri che rivela avere un talento nascosto da tenore (ding!) e una casalinga che riesce effettivamente a pronunciare la battuta "Ci sentiremo tutti meglio dopo aver mangiato qualcosa" (ding!) e che cucina con le mozzarelle fresche che arrivano ogni giorno da Napoli (cioè, ma cheddavèro?) (ah, e ding!). L'impresario convincerà il padre di lui ad esibirsi in un allestimento dei Pagliacci (ding!) che finisce in standing ovation (ding!) in una platea il cui calibro è messo in scena dalla presenza di due noti stilisti omosessuali siciliani (ding! ding! ding!). Vi risparmio l'unico (UNICO) dettaglio un po' comico della faccenda, che già stiamo andando abbastanza in merda così, direi.
La seconda: una coppia di Pordenone (dotata ciononostante di uno spiccato accento romano) arriva a Roma per sfruttare un aggancio in società per un lavoro prestigioso. Lei esce per andare dal parrucchiere e si perde nel centro di Roma dove incapperà nelle riprese dii un film (ding!) e conoscerà un viscido attore fascinoso (ding!) che tenterà di sedurla (ding!). La pudica maestrina friulana (ding!) si farà corrompere dal fascino della notorietà e cederà alle lusinghe di lui MA: quando stanno per infilarsi nel letto un rapinatore si materializza dal bagno E CONTEMPORANEAMENTE (NUMERO!) la moglie del viscido attore fascinoso farà irruzione nella camera d'albergo (ding!) al seguito di uno stuolo di "addetti alla sicurezza" che avrebbe fatto impallidire i teatrini di varietà degli anni 40. Il rapinatore riuscirà però a farla passare liscia all'attore (ding!) e finirà a letto con la maestrina (ding!), tutto nel giro di pochi secondi. Avevo già menzionato che lei è pudica? Dice addirittura "Madonnina mia", credetemi: ho pensato che da un momento all'altro cicciasse fuori Amedeo Nazzari.
NEL FRATTEMPO nella stanza d'albergo dove il suo uomo la sta aspettando fa il suo ingresso per sbaglio una mignotta (interpretata da un'attrice spagnola, trovata geniale) che lui dovrà spacciare per sua moglie (ding!) ai suoi zii, che li coinvolgeranno in un'uscità in società dove lui dovrà celare il suo imbarazzo e la sua vergogna di persona rispettabile (ding!). Alla fine della fiera, lui tromberà la mignotta spagnola ricavandone edificazione come uomo e come persona, grazie alle sagge osservazioni di lei (ding!) sulla necessità degli uomini italiani di avere la moglie santa e l'amante mignotta (ding!). Tornato in albergo, troverà la sua mogliettina dall'aria innocente e le dichiarerà che faranno meglio a tornarsene in provincia (ding!) ma non prima di una pelle figlia della ritrovata disinibizione sessuale di entrambi (ding!).
La terza: un architetto americano in vacanza diventa la coscienza di un giovane studente americano che perde la testa per una bellissima ciarlatana amica della sua donna (ding!) che lo seduce, lo convince a fare cose da pazzi e poi lo accanna senza farsi troppi problemi (ding!). Ci si chiede per tutto il tempo se lo studente esista davvero o se non sia un ricordo di gioventù. Si perde interesse molto presto nella risposta.
La quarta: un tizio qualunque, presentato come cittadino romano nonostante sia uno dei toscani più famosi del mondo (ding!), si ritrova da un momento all'altro investito dalla notorietà (ding!) e viene braccato dalla stampa e dalla tv e dai paparazzi (il più importante apporto della lingua italiana alla comunità internazionale, a quanto pare) anche nel bagno (ding!). Dopo lo sgomento prima e gli eccessi poi - narrati ovviamente in chiave sessuale (ding!) - il tizio qualunque viene scaricato, rendendolo dapprima contento, ma poi frustrato (ding!), per imparare anche lui un'importante lezione sulla vita (ding!) da parte del suo ex autista talmente romano che infatti è napoletano (ding!).
Sono 26 campanelli, se non ho contato male ma può essere perché a una certa, non me ne avrete, ho anche perso il conto. Direi che è notevole, per essere un film in cui non ci sono i Fichi d'India.
E questi sono solo gli avvenimenti. Sto lasciando fuori le immagini da cartolina, il pizzardone e l'uomo gutturale in canottiera che fanno da sipario al film, il fatto che praticamente TUTTE le donne portino un vestito a fiori - cosa che paradossalmente finisce anche per essere plausibile, giacché i protagonisti pare siano stati scongelati dal 1953 - sto lasciando fuori il fatto che nessuno nel film ha un accento romano fatta eccezione per la bigotta coppia friulana, le strizzatine d'occhio alle pecorecce colonne sonore di Umiliani & co., che non si vede una macchina nemmeno a Via Veneto, e che Via Veneto sia anche solo menzionata in un film del 2012.
Sto lasciando, infine, fuori la banda che suona Nel blu dipinto di blu sulla scalinata di Trinità dei Monti non foss'altro perché preferisco non pensarci, ve lo giuro, mi vergogno, non ne parliamone mai più, davvero.

Insomma, To Rome With Love è un film povero, orrendo, indifendibile, che assomiglia a Roma nella misura in cui i suoi buchi ricordano i pregiati asfalti della giunta Alemanno, e che oltre a rappresentare il punto più basso della filmografia di Woody Allen (e io ho visto Hollywood ending, quindi SO di cosa sto parlando) è un insulto non tanto ai romani o agli italiani - di cui mi frega poco, vi dirò - quanto al cinema tout court.
Veramente, lasciate perdere, piuttosto guardate qualcosa con Jerry Calà che non vi vuole insegnare un cazzo ma almeno lo dice.

2 aprile 2012

Prega per noi picchiatori

Il picchiatore giunse una sera a casa di sua madre. Erano anni che non vi tornava. Portava con sé solo i suoi vestiti sgualciti e gli acciacchi di una vita di botte. Stava fermo dietro la porta di casa di sua madre come un conoscente qualsiasi che, passando da quelle parti, si fosse fermato a vedere se la vecchia era in casa ma poi, raggiunto da mille scrupoli, si fosse fermato là, sulla soglia, davanti al campanello. Per salutarla, avrebbe dovuto bussare ma data l’ora avrebbe disturbato – temeva – e così restava fermo là, sulla soglia, davanti al campanello. Con un contegno che forse non si addiceva ad un figlio.

Quando venne dato alle stampe Devils And Dust (2005) la critica spese tutti gli elogi che aveva per il singolo omonimo, canzone sulla notte di guardia nel deserto iracheno dal punto di vista di un soldato, cioè di un figlio di mamma americano, ma non notò nemmeno la presenza di suo fratello cattivo, arruolatosi perchè il lavoro era poco e la vita già cara all’epoca: assolutamente per necessità. Un picchiatore anzi, il, picchiatore.

Bruce Springsteen non ha praticamente mai celebrato personaggi negativi o neutri. I suoi perdenti sono stati schiacciati dall’immobilità sociale che è la cifra della provincia e del sobborgo statunitense ma nel loro complesso sono personaggi che, almeno interiormente, ricercano una qualche forma di purezza.
Quando sbuca fuori il picchiatore ci troviamo in un campo parecchio diverso. E nuovo.

The Hitter è una delle più belle canzoni in assoluto dell’ uomo del New Jersey ed è invisibile: è il suo più grande pregio e il segreto del suo fascino incommensurabile.

Bruce Springsteen primo attore, protagonista, è un figlio, per l’ennesima volta nella sua carriera.
Il teatrale vocione dell’incipit è già un inedito: “Come to the door ma and unlock the chain”, il tono grosso di un omone un po’ stanco un po’ fatto scemo dalle mazzate; “I was just passing through and get caught in the rain”: si scusa, sta piovendo, ha bisogno di un posto e casa della madre è da quelle parti.
Si scusa. Non deve esserci un gran rapporto tra i due, lui è un picchiatore, un pugile troppo avanti con gli anni che ha fatto la sua vita e se ne è fregato di molto ma non di tutto. Eppure si scusa perchè – e questo è da Bruce – vuole bene alla sua vecchia. La madre, come concetto, in Springsteen è sempre una cosa positiva, ma questa volta c’è qualcosa di diverso: “I was no more than a kid when you put on the Southern Queen, with the police on my back I fled to New Orleans”.
Per sottrarlo agli sbirri la mamma lo carica su un battello diretto a New Orleans. In questo modo lo salva, è vero, ma decide anche il suo destino: il ragazzino combatterà negli incontri clandestini che si tenevano presso i moli del porto – fight was my home and blood was my trade – dice il picchiatore: sua casa è il combattimento, il sangue il suo commercio.
La mamma non se lo accolla il picchiatore. Non è una cattiva madre, probabilmente, e il figlio le vuole bene, ma l’unica cosa che ha saputo fare è levarselo dai coglioni. E lui dovrà cavarsela da solo, come può.

A questo genere di disperato manca la finalità riscattatoria dei personaggi di The Ghost of Tom Joad
oppressi dalla grande depressione, dal capitalismo e dai padroni; d’altra parte è un soggetto troppo “antico” per poter appartenere al pantheon degli anti eroi di Nebraska che sono tutti più o meno calati in contesti suburbani fatti di auto usate, disoccupati sbroccati e amori alienanti vissuti con gli spiccioli che Mamma America dimentica di raccogliere dagli stabilimenti industriali in liquidazione.
The Hitter è un disperato a sé e allo stesso tempo uno sfigato tout court, uno che non ha mai avuto la possibilità di essere altro da ciò che è stato.
Al fondo il picchiatore non è un criminale, un delinquentello da strada, ma un rozzo povero di spirito che non si aspetta nessuna redenzione. Per lui è un problema che non esiste.

Nel corso dell’intero brano si ripercorre la storia di quest’uomo, dalla sua fuga a New Orleans fino al momento in cui la canzone avviene e cioè quella particolare sera di pioggia mentre si trova a passare dalle parti di casa di sua madre.
Madre che non fiata nemmeno: a lei viene chiesto solo di lasciarlo riposare un attimo prima di riprendere la strada.
Strada che stavolta è la Storia.
Normalmente in Bruce avviene l’esatto contrario: è la storia che è la strada perchè è solo in strada che possono svolgersi le storie. Diceva il boss di qualche anno prima: “Out in the street i just feel alright”, solo in strada mi sento bene. Ed è in strada che avviene la redenzione di Mary e del suo lui in Thunder Road; in strada si gira il musical di Jungleland, per strada muore The Angel, sono le strade dei bassifondi, Badlands, la scenografia di tutto Darkness on the edge of Town.
In The Hitter avviene questa inversione tematica e così l’universo springsteeniano raggiunge una dimensione storiografica. È il racconto di un reietto, di un non protagonista e avviene NELLA storia. Non ci sono strade in questa canzone; solo esterni, al limite.

La storia si insinua con riferimenti a cose, la Southern Queen è esistita, anzi, credo esista tutt’ora e a persone, pugili, come Champion Jack Thompson ovvero Cecil Lewis “Jack” Thompson (1904-1946) campione dei pesi welter nel 1928 che The Hitter pare abbia sbattuto al tappeto in un imprecisato campo infangato.
I combattimenti clandestini, il porto, i battelli, i campioni di boxe sono fotogrammi in seppia dell’immaginario americano, sono un passato tanto più remoto quanto più elevata è stata la velocità della storia degli U.S.A. nel secolo scorso. E dunque The Hitter ci mostra un Bruce Sprigsteen alle prese con qualcosa di diverso dalle semplici “radici”, si fa antichità lui stesso.
Ancora, la convivenza tra il passato del flashback narrativo del pugile che rivede la sua vita e il presente di questo soliloquio in presenza di sua madre rimanda ad un risvolto credo trascurato dai più.
Chi ascolta la canzone dà per scontato che la madre del picchiatore abbia aperto la porta e, fattolo entrare, si sia sorbita tutta ’sta storia senza fiatare. In realtà, nela variazione armonica (il bridge), che pur contiene l’unico dettaglio fisico della madre – i dark eyes che lo fissano mentre lei ascolta - non ci danno certezze.
I asked you for nothing not a kiss, not a smile...” sembra il genere di frase che dice uno che sta perorando la sua causa, non uno che sta sbracato su una poltrona a sorseggiare quel qualcosa di caldo che una madre dovrebbe preparargli in queste occasioni. Suona un po’ come: “...e forza mà, fammi entrare..”
Perciò sono giunto alla conclusione che a The Hitter la madre NEMMENO GLI APRE. E i dark eyes il picchiatore può vederli solo attraverso lo spiraglio che lei gli concede:quello di una porta tenuta da un catenaccio, tra lo stipite e la porta stessa.

Non è un caso che la canzone termini con il nostro che, lasciata la madre, recupera l’unica dimensione a lui nota con l’ennesima scazzottata, l’unico luogo in cui torna ad essere uomo, l’unico uomo che è riuscito ad essere.

The Hitter, molto più di Devils and Dust è una parabola sul militare americano.
Molto più elegantemente accede alla Bellezza con la maiuscola per la scelta di impattare sull’ascoltatore esclusivamente con la narrazione.
Non a caso il tessuto sonoro – di matrice profondissimamente folk – è scarnissimo, sommesso più che intimo, elegiaco, definitivo.
È la consapevolezza della maledizione che una guerra ti lascia dentro.
Il commercio di sangue del picchiatore è il commercio di sangue del soldato americano-tipo. Un ragazzino mediamente testa di cazzo, poco istruito, poco sensibile, spedito ad uccidere con la consapevolezza di andare a farlo unicamente perchè a casa non c’era altro da fare. L’esportazione della democrazia non è affar suo e lui lo ha capito. E sua madre, impotente perché non ha potuto salvarlo da questo (o non ha voluto), perché non ha potuto preservarlo dall’arruolamento, non può neanche condividere le vergogne del figlio – che avrà ucciso forse per non essere ucciso – perché la vergogna che lei stessa porta dentro è troppo grande.
E così non apre l’uscio.

Il silenzio di The Hitter è desolante, è un colpo di genio, il modo migliore per far passare il brano inosservato. Stavolta non ci si rifà a Steinbeck, stavolta lo si diventa.

Nell’incuria più totale The Hitter è e sarà sempre uno dei capolavori assoluti di Bruce Springsteen, una di quelle canzoni per le quali varrebbe la pena perdonargli qualunque disco di merda lui abbia fatto, e che in questi anni non ha certo lesinato.
In seguito, molto più risalto è stato dato ad un altro pezzo su un combattente, “The Wrestler”, diventato colonna sonora dell’omonimo film di Darren Aronofsky ma, come il mondo del wrestling è fatuo e inautentico, così il pugilato, la nobile arte, è reale e ben più adatto a farsi metafora di un’attualità ancora attuale e che forse Bruce Sprigsteen depreca più di quanto la sua funzione di autoelettosi “Cantore degli americani” (ma d’altra parte se non lo fa lui, chi lo dovrebbe fare?) gli permette di mostrare.

Qui io ho visto ancora una volta il grande artista.
Nel picchiatore non ho trovato me stesso come altre volte, eppure ho sentito così vicino il vocione un po’ scazzato, da giuggiolone, che Sprigsteen sfodera per cantare questo pezzo che, alla fine, non ho potuto far altro che dare seguito al finale della storia.
Mi sono commosso.
E ho cominciato a pensare di iscrivermi a pre-pugilistica.

20 febbraio 2012

vestirsi al buio

Io la fissa e l'attesa per il disco nuovo di Peter Broderick l'ho capita e l'ho condivisa. Lui è uno dei pochi che quando parla vale la pena di fermarsi ad ascoltare. Ha talento, sa dove andare e soprattutto ha un gusto per il sobrio che me l'hanno fatto apprezzare. Quando ho saputo che c'era un suo disco nuovo in streaming ero contento, e ho fermato addirittura Billie Holiday.
Poi vabbé, l'ho ascoltato.
E per carità, non è che il disco non mi sia piaciuto, sebbene anche nelle sue parti migliori non è niente per cui strapparsi i capelli, ma mi ha un pochetto deluso. Deluso nel senso Peter-da-te-non-me-l'aspettavo.
Ora: non ho né voglia né intenzione di parlare del disco di Peter Broderick: esce per Bella Union che è la cocca della stampa indipendente (e vorrei pure vedere), pitchfork ha il cazzo duro da settimane, insomma tra qualche giorno di questo disco ne parlerà anche Cronaca Vera.
Piuttosto, ciò che mi viene in mente è l'epidemia dalla quale sembra che anche il bimbo prodigio più amato dalle donne sembra non sia riuscito a salvarsi, e cioè quella della luccicanza. Mo' mi spiego meglio.

Nel suo ultimo pezzo, il cuoco stava riflettendo sul fatto che pochi dischi usciti ultimamente sono stati in grado di emozionarlo. Ora, lui ha una regione di osservazione radicalmente differente dalla mia, ma entrambi siamo così rompicoglioni proprio perché aspettiamo sempre qualcosa che cambi la vita, o almeno il battito cardiaco: devo dire che negli ultimi anni qualcosa in grado di farlo l'ho anche ascoltato - mo' insomma non è che sono diventato uno zombie come Assante che ancora va dicendo che il rock è morto: a me i Fleet Foxes mi hanno commosso, e A.A. Bondy e gli Arcade Fire e i Band of Horses e certe cose dei Bombay Bicycle Club pure, però devo dire che rispetto alla quantità STERMINATA di materiale che esce ogni giorno, sono pochissime le cose che mi colpiscono veramente, le cose per le quali farei spazio nella mia stanza,spenderei dei soldi. Non credo, infine, che si tratti semplicemente di un fatto statistico: siamo tutti d'accordo che in 70 anni di discografia la robaccia ha sempre battuto almeno 50 a 1 la roba buona, almeno quantitativamente. Credo piuttosto che sia un discorso di zeitgeist, e qui finalmente arriviamo a bomba.

Io che a quanto pare ho un MUCCHIO di tempo da perdere, ascolto praticamente qualsiasi cosa esca che non sia techno, reggae, poetastri italiani o RAC. Se esce qualcosa, è abbastanza verosimile che almeno un minuto di attenzione gliela dedicherò. A me la musica piace, è inutile che faccio il vago, e in lei ci credo e ci SPERO. Eppure ci sono periodi in cui la musica mi sembra mediamente peggiore, come se il plateau su cui poi svettano i picchi fosse più basso. E questo, signori, è uno di quelli.

Vedi, cuoco, a me non stupisce che la musica del 2012 (quel tipo di musica del 2012 che da ora in poi chiameremo musicadel2012) non ti emozioni, perché salta fuori che non sia questa la sua missione.
Pensala così: in un contesto artistico-musicale in cui il dibattito più ricco è quello sul revival - o meglio, su quanto il revival sia la matrice dell'atto musicale odierno -, la musica è affannata nel cercare di assomigliare il più possibile a qualcosa di già occorso nel passato. Ci mancherebbe: gli stessi Fleet Foxes marcano 1971, e solo in un periodo come questo hanno senso il Wall of sound 2.0 o un'intera etichetta come la Daptone. Ne parlavamo l'altra sera, ricordi? Tu eri un po' ubriaco ma io no. Tralasciamo pure il fatto che una musica che cerchi così disperatamente una legittimazione nel suono del passato ha dei seri problemi di autostima e pure qualche contrattempo edipico. Piuttosto:
Ricordi cosa diceva Adorno? La categoria principale di ascoltatori attinge nel serbatoio dei consumatori di cultura: la musica, come il cinema, i film, e anche i libri - ahimé - è un orpello da indossare come un cappotto nuovo, e il paragone con l'abbigliamento non è tirato per i capelli, mo' ti dico, porta pazienzae seguimi.

La tendenza principale del revivalismo del 2012 - che è solo DIVERSO da quello per esempio del 2002: abbiamo revival da quando abbiamo dischi, non prendiamoci per il culo - è il ripescaggio degli atteggiamenti musicali della prima metà degli anni 80. Hai letto bene, ho scritto atteggiamenti musicali e non musica. Il periodo di osservazione privilegiato in questo momento è infatti un periodo in cui la diffusione della tecnologia ha generato un pop sintetico (e ok) ma fatto di giustapposizioni più dettate dalla curiosità e dal capriccio che da una visione d'insieme (come gli agghiaccianti abbinamenti rosa/marrone/celeste che vedi addosso alla gente al Fanfulla).
La neo-eccitazione per la disponibilità di gadget musicali sposta l'attenzione dal cosa mettere nelle canzoni a come metterci sopra: proprio come sono pochi quelli che resistono alla tentazione di provare tutti gli effetti della pedaliera appena comprata, la musicadel2012 è distratta dal dimostrare quanto può essere ESATTAMENTE fedele ai suoi bruttissimi modelli di 30 anni prima. Pazienza, insomma, che le Superga puzzano: noi ce le mettiamo uguale perché è vintage.
Certo, tu mi dirai Anche il punk e il garage sono partiti dal desiderio di emulazione e dalla tecnologia a basso costo, ma qui non parliamo di disagiati che rimediano alla rabbia col volume, quanto di persone che - almeno a sentire ciò che fanno - si ANNOIANO e, nella fretta di arrivare a conclusioni che è la primogenita del terzo millennio, decidono che è ennui e la mettono nella musica. Oltre a non sentire il cazzo (non c'è soul, cuoco, nemmeno un po'), nella maggioranza della musicadel2012 non sento nemmeno urgenza, bisogno.
L'intenzione, per come si sta riproponendo, è stupire e - presuntuosamente - fondare nuovamente un'estetica del kitsch che, alla continua ricerca di un nuovo e più nauseante accostamento, non ha tempo per approfondire il contenuto. Veloce e feroce come un uragano di detriti, la musicadel2012 è una musica che devi avere il coraggio di portare per strada come i tirabaci, una musica con cui essere d'accordo più che in sintonia, e che riflette la necessità dei 20enni di questa generazione di apparire più vecchi (dai cazzo, la PERMANENTE?!?) e più ricchi; in culo alla precarietà e all'insicurezza planetarie, la  totale, orizzontale e inorganizzata musicadel2012 fa ballare di nuovo come macchine, manifestando la testa che vince sul cuore, la volontà che vince sulla necessità, ed elitarismo: proprio come i Rayban da una piotta e mezza per leggere meglio le notizie che arrivano da piazza Syntagma.
Esattamente come nella prima metà degli anni 80, la musica di questi ultimissimi anni è la musica più BIANCA e borghese che ho sentito da un po', fredda ed esatta come i Casio che hanno marcato zimbello per tutta la nostra infanzia.

È per questo che ho rosicato quando ANCHE nel disco nuovo di Broderick sono apparsi i coretti all'unisono o il tema cantato dalla voce tenorile (l'equivalente musicale insomma del mocassino, degli accessori kitsch): ho rosicato perché anche lui che ricordavo orientato a una certa sobrietà un po' romantica non ha saputo evitare di indulgere al patinare per bene la superficie, trascurando che i pezzi sì, insomma, ma alla fine vi dirò. Anche questo suo http://www.itstartshear.com/ si inserisce nel filone della musicadel2012 che è revivalista nel linguaggio, nel modo di essere concepita, sulle orme del rococo à la Bon Iver (la traduzione musicale di Instagram, praticamente) che se avremo pazienza - e se ci dirà culo - sarà però seguito da una nuova ondata integralista, che a questo punto non potrà fare altro che spogliare la musica di questi cosmetici vivaci e di questi pizzi che la rendono un po' svampita un po' mignotta, e riporti all'attenzione la sua essenza - il cazzo di songwriting, insomma, quello che se non ce l'hai ti attacchi al cazzo e BASTA.
E basta, appunto.

13 febbraio 2012

Una nota da diario

Per evitare che pensiate che mi mobilito solo per eventi riguardanti Springsteen e affini torno sul blog per parlare d’altro.
Tra l'altro, il nuovo album di Springsteen s’appresta, il singolo non mi è piaciuto e prima di venire colto dall’ennesimo travaso di bile per lo svuotamento che ha subìto la sua scrittura nell’ultimo decennio ho preferito tornare a scrivere per moventi diversi.
In questi giorni - dopo più di un anno di garage - la mia collezione di dischi è finalmente rientrata a casa nella sua totalità.
Immaginate di aver dovuto passare un periodo consistente di tempo lontano dalla vostra collezione; immaginate di aver avuto solo il computer e un lettore mp3 come enti eroganti musica per circa un anno e mezzo/due. E, infine, immaginate di tornare finalmente alle vostre cose, ai vostri dischi e di trovare la situazione cambiata. La storia che quelle pile e pile di dischi raccontano di voi, il valore, il significato di ogni singolo pezzo sono diventati un’altra cosa.
Più di quanto incida sul vostro mutevole gusto il normale scorrere del tempo, la “vacanza” forzata appena conclusasi – portatrice anch’essa di nuovi stimoli e visioni – decide dello status quo del momento attuale. La “vacanza”, come distanza - distanza evidentemente emotiva oltre che fisica – ha modificato il vostro punto di osservazione e, con esso, la vostra visione. Rimirate i titoli uno dopo l’altro; magari vi scappa un sorriso per aver ritrovato un vecchio amico, cioè un disco cui siete legati o magari vi chiedete, vedendone un altro: “e tu che cazzo ci fai qui?”.
Ora, voi potete pure imputarmi di scoprire l’acqua calda ma vi giuro che costruire un’epica di se stessi è un lavoraccio e la musica può aiutare molto da questo punto di vista: insomma non è un’esperienza piana e di ordinaria leggibilità ritrovarsi a quasi 40 anni con dischi che oggi, suscitando dubbi su se stessi, suscitano, transitivamente, dubbi su VOI stessi.
Non è tutto.

Ravviso, da un po’ di tempo, una cortocircuitazione emotiva rispetto all’esperienza dell’ascolto e mi faccio domande: il fatto che non mi ingrifo più come un dì all’ascolto di un album è imputabile ad una vita in cui la lotta tra squali e dinosauri piuttosto che il destino di Capitan Uncino hanno preso il sopravvento sul godimento della scritttura di Holland & Dozier o degli arrangiamenti di Timber Timbre oppure è che stiamo storicamente attraversando un periodo di riflusso delle urgenze?
Consumando come è mio uso la stampa musicale, mi ritrovo orfano di quell’entusiasmo che trasuda dalle recensioni e che invece non trasuda più da ME. A fronte di segnalazioni di dischi di pregio la mia risposta emotiva è sovente disillusa; sempre più di rado leggo dietro il pregio delle forme quella SOSTANZA che muove le umane cose, le umane genti e sovrintende all’accoppiamento alla copula e ai grandi mutamenti della civiltà.
Scorrono allora dinanzi a me i titoli degli album in cui anche per una sola settimana mi sono riconosciuto: dischi che ho deciso di esibire sui miei scaffali perchè una collezione di dischi è anche questo, esibizione, pisellometria.
Scorrono quelli che ho deciso di serbare dentro un hard disk in attesa di acquisto o masterizzazione.
Scorrono un po’ troppo, scorrono in troppi.
I primi a causa del cortocircuito storico, del tempo che passa, dell’acqua passata che non macina più. I secondi a causa del cortocircuito del presente, dell’indifferenza dell’orecchio dell’ascoltatore. La vita che cambia e ti cambia? Il sovraccarico d’informazione? L’inizio dello spegnimento? Eccesso di consapevolezza della serie “beati i poveri di spirito”? Voglio credere di no. E non per credere ancora un po’ nella mia transitoria esistenza o nel suo significato ma per credere ancora nella musica e nel suo secolare contributo.

Richard Middleton nel suo Studiare la popular music fa riferimento ai meccanismi (industriali, mediatici, socio-politici) che sussumono il disagio giovanile per metterlo a sistema nonché a bilancio. Riletta così la storia dell rock’n’roll diventa una storia di venduti talmente strafatti da non accorgersi nemmeno di esserlo e di venduti talmente contenti da non preoccuparsene affatto. E dunque quello che ci è arrivato è solo quello che è stato permesso arrivasse alle nostre orecchie, cuori, anime, lombi.
Non solo: sembra che nel confezionare un suono che fosse “Spirito del tempo”, considerando la variabile “Tempo” come soggetta alle compressioni più efferate e dunque inducendo a repentini cambiamenti di indirizzo la massa ascoltante, possiamo ritenere possibile che a forza di confezionare ci si sia fatti prendere la mano proprio dalla confezione.
Lo dissero i Clash, dopotutto:” You think it’s funny turning rebellion into money?”. A onor del vero a loro successe esattamente questo ma, comunque... it ain’t funny.

Facciamo qualche esempio
Liz Green è una scoperta recente, il suo disco O’ devotion (2012) si presenta nelle dismesse vesti di un impianto pre-war, con la strumentazione ridotta ad una chitarra pizzicata sempre più o meno allo stesso modo e una sezione di ottoni che entra sempre più o meno allo stesso modo a commento o sostegno delle composizioni. La dinamica tra gli strumenti in gioco diventa nota al quarto pezzo e le sorprese finiscono. Il disco è ritenuto buono, le recensioni ne dicono bene e in effetti possiede tutti i clichè di un disco buono.
Chain & the Gang sono in giro penso da un po’ più di tempo, hanno adottato un’attitudine garage con sporcature black (potremmo definirla un formula detroit style degli anni zero), si pregiano di un cantato ubriaco alternato ad uno spoken abbastanza stonato e personale da non indugiare in tardi “Loureedismi” deprecabili per definizione. Formalmente si presentano al meglio per scelta dei suoni ed informalità superficiale. Roba da giacchetto di pelle nera con maglietta bianca sotto al concerto.
Pete Molinari lo diremmo uno che tramanda, uno che ha scelto le vie della tradizione. L’impianto della sua musica è diurno senza romperti necessariamente il cazzo col fatto che il sole splende in cielo. Può essere giorno fatto ok, ma il cielo può essere velato, il vento può darti noia, e la mamma può essere lontana. Chitarre pulite, “cristalline” direbbero quelli del Buscadero, scrittura lucida e di basso profilo, una versione meno timida ma anche meno complessa e affascinante di M. Ward. Buonino.
Ognuno dei prodotti summenzionati è fatto ad arte ma sembra pensato per giocarsi tutto al primo, secondo ascolto. Messi alla prova sulla lunga distanza sono solo intrattenimento ben confezionato ma sul mio scaffale forse non ce li metterò. E come loro tanti altri, di oggi e di ieri.
Questo scisma tra musica e autobiografia si nutre male per scarsità di sostanza ed io languisco. Utilizzare ad arte inflessioni stilistiche, citazioni eleganti, scenari rassicuranti in cui potersi accomodare senza il benchè minimo sussulto non mi restituirà l’anima che la musica anni fa mi ha rubato. Non è poi difficile parlare con la panza e nessuno ti rimprovera se non sei riuscito a scrivere Darkness on the edge of town, il punto è che CI DEVI ALMENO PROVARE!
Perché tutto sembra rinviare ad un melange di epoche passate nella musica che incontro oggi ma niente mi aiuta a vivere in questa. E allora eccolo, l’intrattenimento. Intrattenuti in attesa del prossimo momento storico. Giungeremo sguarniti per carenza di sostanza del momento storico precedente?
No, voglio ripropormi il bisogno di ritrovare urgenze autentiche, voglio esigere da chi fa musica che si giochi qualcosina in più delle lezioncine sui propri ascolti e su come li ha assorbiti bene.
Voglio che ci provi, che ci stia dentro. Ed io voglio rituffarmi in quel magnifico gioco che è “Pizzicare l’impostore” incontrando le mille difficoltà di chi ha di fronte un’impostura ben pensata e giubilando di fronte a qualcosa di VERO.
E voglio riconquistare il mio diritto ad illudermi perchè ultimamente la musica mi sembra venga fatta solo per farmi viaggiare comodamente sbracato su un divano davanti a due casse.

Mi passa per le mani Dog in the sand di Frank Black & the catholics, quel disco l’ho adorato e ora non mi fa più niente; Gentleman Blues dei Cracker con cui ho elaborato una separazione: ne vedo tutti i difetti; Elvis Costello, Delivery man, cui ho nobilitato la masterizzazione contraffacendone copertina e custodia e facendolo sembrare un disco originale è finito in una bustina trasparente di plastica recando con sé la copertina scannerizzata a memoria imperitura di quando bastava AVERLI i dischi per essere felici, anche se non erano originali.
Ripercorro la mia storia e mi sorprendo commosso stringendo tra le mani Smoking in the fields dei Del Fuegos (per fortuna su vinile) e tornando a quante salvate mi ha fornito questo bolso album di rock FM da strada con una bar-band prodotta come se dovesse suonare a San Siro.
Sono anch’essi, senza dubbio, contributi a quello scenario dipinto ad arte dall’industria dell’intrattenimento: oggi languiscono nelle loro carenze ma a suo tempo sono serviti a qualcosa.
Sono la mia storia, le mie glorie e vittorie, i miei sbagli.In attesa di collezionarne di ulteriori, rimiro questi qua.

La prossima volta parleremo invece di chi aggira tutte le mie pastoie esistenziali facendo le cose e basta e facendole come si deve.
Ma questa è un’altra storia.

9 febbraio 2012

Gonjasufi: MU.ZZ.LE [Warp - 2012]

Io non ho motivi di ascoltare Gonjasufi. Non ne ho motivi per milioni di motivi. Buona parte di questi hanno naturalmente a che fare con i suoi ascoltatori medi, ma non volendo sembrare il solito snob pieno di pregiudizi (i miei splendidi cuccioli), mi fermerò al fatto che ho smesso di interessarmi di elettronica pastiche un po' di tempo fa, grazie soprattutto al mio rinnovato amore per il uanciutrifò-daje, e che la musica che mi fa ballare solo il cervello, dopo anni di Zappa, Autechre e Bouez mi ha, come dire, un po' rotto il cazzo.
Ciononostante ho ascoltato, invece, MU.ZZ.LE per due motivi principali: il primo è che Simon Reynolds fa diversi cenni a questo Gonjasufi in Retromania, che è un libro eccellente e io mi fido di lui - mi fiderei di chiunque sostiene che gli hipsters siano avvoltoi; il secondo è che diversi critici (allmusic.com, popmatters.com, chiunque che CONTI, insomma) l'hanno incluso nella propria lista dei dischi più attesi del 2012. E poiché io credo ANCORA nella critica professionale, e fortunatamente procurarselo è pure gratis, ho pensato Ma sì, ma sticazzi, ed ecco qua.
Fa bene Reynolds a buttare Gonjasufi nel calderone dell'hauntology o comunque della post-post-modernità: la giustapposizione e sovrapposizione puntillistica di contesti sonori, sorgenti e rimandi di significato è continua, frenetica, caotica, proprio come se fosse possibile ascoltare ciò che passa su tutti gli iPod e le stazioni radio del mondo, contemporaneamente. Un incubo, insomma.
I due riferimenti immediati sono psichedelia e dub: ben lontani dalla forma canzone e da strutture con elementi ricorrenti, i 10 pezzi procedono linearmente come un viaggio (materiale o immateriale fate voi, io per me sono del parere che questo è un disco del tutto impensabile senza psicotropi), un percorso che procede sempre e solo avanti, nonostante lo sguardo sia sempre rivolto all'indietro. Le basi rallentate e corrose digitalmente sono il terreno su cui il disco rotola, tra delay a manetta e voci distorte e, insomma, beh, tutti i plugin disponibili su pro-tools. Poi vabbé, sta a te decidere se seguire questo viaggio, partecipare, sonnecchiare di tanto in tanto o concentrarti sui fatti tuoi finché non sei arrivato a destinazione e poi limitarti a scendere e arrivederci e grazie.
Come pressoché tutta la musica sperimentale, infatti, anche quella di Gonjasufi - ma dirò meglio: anche MU.ZZ.LE (non ho ascoltato altro e non credo che lo farò) è una musica più utile che bella, più necessaria a portare avanti la (necessaria) riflessione su come stiano cambiando le nostre orecchie e il modo di pensare la musica, che a goderne e rimanerne coinvolti, ed avendolo interpretato come un disco con cui essere d'accordo non significa esserne amico, non nascondo che ne ho apprezzato la brevità - del resto, poiché i pezzi si basano soprattutto sullo stesso principio di giustapposizione, invecchiamento precoce e lugubr... lugub... insomma sull'essere lugubre e affascinante al tempo stesso, è facile annoiarsi presto, cosa che infatti è accaduta a me, che ho pensato che quando di un disco apprezzi la fine è come quando leggi che il migliore in campo è stato il portiere: tutto il resto è andato storto.
Insomma MU.ZZ.LE è un disco che incuriosisce, senz'altro, che merita di essere ascoltato se vi importa della musica, e se siete disposti a sorvolare sulla sua necessità di essere BRUTTO (altrimenti come per tutta l'avanguardia, il messaggio non arriva col giusto impatto).
Quindi se mi dite che l'avete trovato interessante, vi credo e vi apprezzo pure. Ma se mi dite che vi è piaciuto, beh...

7 febbraio 2012

Cloud Nothings: Attack on memory [Carpark - 2012]

Allora io di questi Cloud Nothings non sospettavo nemmeno l'esistenza e me li sono procurati praticamente solo perché a un certo punto ha iniziato a parlarne CHIUNQUE e io ho detto Beh, sentiamo chi sono.
Allora mi sono documentato e ho scoperto tre cose: 1. sono americani, 2. sono al terzo disco (bada!), 3. il disco gliel'ha fatto Steve Albini.
Non solo: ho PERFINO ascoltato un paio di pezzi e ho pensato Dopotutto niente male, il che de 'sti tempi è grasso che cola: post-punk in QUALSIASI senso vi venga in mente. Fugazi, Seattle, Berlino (ma i quartieri elettrici, non quelli elettronici), At the drive-in del periodo chi-siamo-cosa-vogliamo, poca produzione, momenti di prolissità mantro-kraut-edelica (Blowup nun te temo!). In più il cantante certe volte assomiglia a Jake Burns degli Stiff Little Fingers e quindi giustamente mi sono pure intenerito.
 
Eppure Attack on memory ascoltato dall'inizio alla fine m'ha dipinto in volto il dubbio. Mezz'ora abbondante di dubbio
Tipo: il disco inizia con del malessere e prosegue invece con del malessere, ma spiegato in maniera DETTAGLIATISSIMA (nove minuti di malessere, intendo: almeno sei dei quali di improvvisazione strumentale accogliente calorosa come un pezzo degli Wire). Poi a un certo punto BASTA malessere, anzi quasi California (cioè, posizionata dov'è, la riapertura "Fall in" pare un pezzo dei NOFX dopo un'ora di Silver Apples) e poi invece alla fine nevrosi. Mah. Mi son dovuto fermare e controllare che il lettore non m'avesse incasinato la tracklist perché proprio non ne venivo a capo.
Nel senso: magari ci sta che il disco sostenga un discorso, segua un percorso non spezzettato, abbia una sua coerenza interna, sennò è come vedere un film in cui primo e secondo atto siano invertiti: il dramma subito e il prologo dopo. E io Pulp Fiction proprio NO - ché non sono sicuro che c'entri ma perché sprecare un'occasione per sottolinearlo?
Ed è un peccato perché singolarmente i brani di Attack on memory funzionano: al di là del modo un po' improbabile in cui sono stati giustapposti, sono ben scritti e ben eseguiti (ma del resto se c'è Albini in giro è raro che arrivi la sola) e suonano pure sinceri, che non è una cosa molto diffusa nei gruppi con le chitarre pulite, ultimamente.
Non so, forse dovremo aspettare un pochetto: i ragazzi devono ancora trovare una dimensione più coesa nonostante siano al terzo disco; forse la maturità arriva in un secondo momento, forse non hanno ancora deciso che strada prendere a livello espressivo o formale, dato che essendo dei giovanotti magari ancora non hanno voglia di fare le cose dritte. Forse invece anche sticazzi, ché dopotutto non stiamo parlando di chissà chi e se sti Cloud Nothings non li conoscevo fino a ieri un motivo dev'esserci, no?

1 febbraio 2012

Tennis: Young & Old [Fat Possum - 2011]

Uuuuh carini i Tennis. I Tennis sono marito e moglie, lo sapevate? E lo sapevate che il primo disco loro è una specie di concept su un loro viaggio a Cape Dory, che poi è il titolo dell'album? Carini. E lo sapevate che è appena uscito - no, tecnicamente non ancora, quindi correggo. E lo sapevate che si può già ascoltare il disco nuovo loro? Ecco.

Io avrei tutti i motivi per odiare i Tennis. Di fatto sono due hipsters (ricci, jeans rossi, tutto), la copertina del loro primo disco è un intero festival del cattivo gusto che pare copincollato direttamente da worstalbumcovers.org, e in sintesi non mostravano di essere diversi dai cinque milioni di gruppi spuntati negli ultimi 2 anni che fanno surf pop che più che grato direi che è appecoronato al wall of sound.
Ora: alcuni di loro non valgono un cazzo e lo sappiamo alla fine del primo pezzo. Altri sono buoni finché è estate e poi sono deprimenti come le infradito in Siberia, altri invece danno l'impressione che occorra essere giusto un pochetto pazienti. I Tennis sono tra questi, e lo dimostra il fatto che non ho pensato Aridaje sti stronzi, quando ho saputo che era disponibile. E poi escono per Fat Possum: almeno un minuto di attenzione gli va dato.
Proprio come Cape Dory, Young & Old funziona perché è un disco di canzoni: cose pensate, scritte, insomma, che si possono ascoltare e apprezzare anche senza conoscere i riferimenti storici o gli ammiccamenti ai generi di riferimento. Non un disco tenuto in piedi dal riverbero a molle o dal Farfisa, insomma, ma qualcosa che osserva la regola d'oro di Santo Keith per la quale una canzone è buona quando puoi suonarla solo con una chitarra acustica.
Non solo, Young & Old è un disco di canzoni pure meglio, e non solo un Cape Dory pt. II: c'è una crescita, insomma, da parte dei due sposini di Denver: non la prevedibile compilation di sorridenti twist canditi da spiaggia, ma approcci diversi (come quello della mia preferita, che è My better self, una canzone DIVERSA da loro, appunto), che li inseriscono nella categoria dei gruppi da tenere d'occhio sul serio, adesso. Certo, dovranno sempre liberarsi dell'essere giovani, ma fatto questo andrà tutto a gonfie vele, sono sicuro.
(By the way, ho scoperto solo DOPO che è stato prodotto da Patrick Carney dei Black Keys, quindi sono del tutto in buona fede).
E basta, tutto qui. Alla fine stamo a parla' dei Tennis, mica...

30 gennaio 2012

Cosa volete sentire: Compilation di racconti di cantautori italiani [Minimum fax - 2011]

In un esilarante standup che si chiama Hilarious (appunto), Louis C.K. parla del fatto che non si può incazzare o mettersi a discutere con la sua bimba di tre anni perché, beh, è una bimba di tre anni.
Ora ok: QUALSIASI cosa dica secondo me è vera e lo vorrei Segretario Generale dell'ONU, ma gli voglio bene perché stavo pensando da due ore all'angolazione migliore anche solo per iniziare a parlare di questo libro, e solo quando mi è venuto in mente lui ho capito una cosa importante e infatti voilà, 300 battute. Grazie Louis.

Intanto: la cosa che mi brucia davvero, è che questo libro l'abbia fatto uscire minimum fax: Einaudi o vabbé, Mondadori, pure pure; ma loro, ai miei occhi uno degli ultimi baluardi di dignità nel bunga bunga dell'editoria italiana, francamente mi hanno fatto rosicare. Perché? Ecco perché:

Chiunque sappia cosa penso della musica italiana sa che la ritengo provinciale, pedante, masturbatoria e accessoria, e ho sempre avuto il sospetto che in realtà non piaccia a nessuno, se non come può piacere una mascotte: qualcosa che partecipa al grande match del mondo ma da bordo campo, senza mai entrare in gioco: lo guardi e pensi Oh che carino esattamente come pensi Sticazzi lèvati che non vedo niente.
(E non mi venite a dire che non è così: vi ho sentito dire troppe volte "non sono male, per essere italiani" per potervi credere ancora.)
Dunque COSA ha spinto minimum fax a mettere in piedi un libro del genere? Non un ebook, insomma: un VOLUME FISICO, fatto di CARTA, realizzata da ALBERI, trattata con solventi e stampata in inchiostro, impaginato con costosi computer che richiedono energia e attenzione e ore lavoro, libri trasportati da VEICOLI che consumano CARBURANTE, e in un periodo di crisi come questo?
Quando Stile Libero pubblicò il libro di Albertino costringendomi a vestirmi a lutto, o Feltrinelli fece uscire Jovanotti pensai a una cosa sola: i SOLDI.
Che c'è? Sono uno stronzo e ve lo dico: ho pensato che questo libro va a coprire in maniera ergonomica un segmento di mercato principalmente composto da donne che ascoltano questa musica (e da uomini che la ascoltano solo per fare colpo su di loro).

Nella sua prefazione, Chiara Baffa, curatrice della raccolta, accenna alla tradizione di libri firmati da musicisti che sono spuntati come funghi negli ultimi anni (metafora azzeccata). Nelle sue intenzioni, questo libro vuole chiudere il cerchio tra parole e musica, rimettere implicitamente la penna nelle mani di persone che sono scrittori o poeti anche se fanno i musicisti, capire cosa hanno da dire sul mondo, sui rapporti, sulle cose.
Peccato non rammentare il fatto che la musica italiana, per quanto possa dichiararsi "alternativa" rimane il tempio di una tradizione e di una conservazione ai limiti del reazionario, non avendo mai nemmeno provato a scrollarsi di dosso la struttura strofa-ritornello o il verbocentrismo da melodramma, in cui la voce sta DAVANTI e il resto SEMMAI. Certo, in una nazione musicalmente avanzata dotata di una critica musica competente, saremmo abbastanza istruiti da sentire immediatamente la puzza di bruciato, e un libro del genere non avrebbe senso, ma così è anche se non ci pare: occorre che sia la gente che fa i libri a parlarci di musica, o dei musicisti. O peggio ancora, i musicisti stessi. Già perché mo' arriva la pioggia.
Cosa volete sentire non parla di musica. Parla di musicisti.
Peggio: parla di gente che parla di se stessa e ci tiene particolarmente a riportarci le proprie idiosincrasie, i propri disagi, o a farci accomodare ai suoi piedi e narrarci di quando l'Italia era piccola e provinciale (non come adesso, vero?) e loro erano persone con un sogno, diverse dalla massa. Quando non variazioni sul tema del mal di vivere, i tredici pezzi che compongono il libro sono una risacca di revival intenerito, nostalgico (e autocelebrativo) degno di Stracult o di un pezzo X degli 883: i baretti, gli anni 80, gli strumenti da quattro soldi, gli autogrill, gli impresari arronzoni e arraffoni, stessa storia stesso posto stesso bar, uno scenario ormai anche troppo consueto in cui l'eroe (riconoscibile anche negli affettati panni dell'antieroe) prevale grazie alla sua sensibilità di poeta NONOSTANTE l'Italia che ha intorno - e a quanto pare, NONOSTANTE il rock and roll di cui in quest'Italia e in queste pagine non c'è la minima traccia, così come non c'è traccia del minimo divertimento nel fare la musica, o nell'ascoltarla.

Ma poi, onestamente, tra me e voi: ma chi diavolo ha bisogno di un libro con dentro un racconto di Dario Brunori o di Maria Antonietta? E nemmeno un racconto nel senso stretto del termine, un pezzo di prosa in cui qualcosa viene narrato. Nah, qui al massimo rimediamo scene di vita vissuta tratteggiate impressionisticamente, poesia beat, enciclopedie del picaresco, souvenir d'Italie e un milione e mezzo di sfaccettature del saperla lunga: una lunga, inesorabile celebrazione del nulla più scamosciato, con solo lo 0.4% di divertimento.
Insomma: Cosa volete sentire poteva essere finalmente una buona occasione per liberarsi dalla nomea di tromboni che questi poeti-maledetti-casualmente-musicisti si sono conquistati con tanta ostinazione, e invece non fa che metterci il carico da 90 sopra; Cosa volete sentire poteva essere un VH1 storytellers in bianco e nero, e invece è una specie di Isola dei semi-famosi di cui non ha bisogno né chi vuole leggere poesia o narrativa, né chi vuole saperne di più sulla musica (perfino sulla loro). Cosa volete sentire poteva essere un libro utile, interessante, e invece è una sfilata di ego tipo Carnevale di Viareggio.


Ma è QUI che Louis mi ha dato forza: non posso arrabbiarmi con questa gente. Loro sono cantautori italiani, sono ciò che sono: troppo artisti e troppo profondi e tormentati e intellettualmente imbarzottiti per porsi il problema alla mia noia; troppo se stessi, malaticci di default e ansiosi di parlarmi in maniera diffusa e particolareggiata del loro ombelico, che poverini mi sa che è tutto ciò che conoscono.

E allora come faccio a prendermela con loro, Louis? Sarebbe come litigare con una bambina di tre anni e non si litiga con una bambina di tre anni. Semplicemente non si fa.
Una bambina di tre anni la si lascia in pace e la si fa parlare finché non si sfinisce e si addormenta e sì può andare di là ad ascoltare finalmente un bel disco.

27 gennaio 2012

Raymond Carver: Niente trucchi da quattro soldi [Minimum fax - 2002]

ah questo libro ci sono affezionato perché me l'ha regalato una mia amica che è un genio e ancora s'intigna a farmi scrivere perché il sottotitolo di questo libro è Consigli per scrivere onestamente carinella non ha capito che non è proprio cosa non c'è proprio niente da fare ma lei questo non lo vede e non lo vedeva nemmeno qualche anno fa quando mi volle regalare questo libro e una cosa di rodari che adesso che ci penso non è un ragionamento molto diverso da quello che deve aver fatto un'altra mia amica che pure lei si intigna e da quell'orecchio non ci sente ma non è il momento di parlarne adesso non mi fate distrarre.

ah questo libro io l'ho letto in meno di due ore mentre andavo a una festa aziendale a milano sì avete capito bene aziendale e milano sono due cose che io normalmente proprio no e invece una volta ho pensato anche sì e allora un po' per tenermi a posto la coscienza un po' per ricordare a chi mi stava intorno che io sono una persona pesante una di quelle persone con cui ti passa la voglia di parlare in treno ho aperto questo libretto e avevo l'acquolina ero contento e un po' ci sono rimasto male del fatto che tutta la prima parte è organizzata tematicamente il che è una trovata interessante ma alla fine dei conti insomma spezzettare carver andiamo che cosa vi è venuto in mente perché infatti all'inizio sembra una raccolta di frasi da baci perugina per scrittori una di quelle cose che se hai un amico scrittore in difficoltà puoi aprire a caso e dirgliene una insomma l'equivalente di una pacca sulla spalla un incoraggiamento uno shottino di jameson offerto al momento giusto quando le spalle iniziano a incurvarsi insomma probabilmente ho pensato più di una volta non serve non c'è il minimo bisogno di un breviario di raymond carver e ho rosicato ve lo giuro perché carver mi sembrava banale e ho pensato Ecco io con caver una sciocchezza me la sarei bevuta volentieri e invece vai a scoprire che non ha niente da dire che presa a male dice quello che direbbe chiunque e il giorno che scopri che carver è uno chiunque non può essere una bella giornata.

poi però invece tutta la seconda parte che è un intervento da lui tenuto all'università di non so dove e non ho voglia di alzarmi per andare a verificare leggetevelo da voi insomma tutta la seconda parte che è un discorso organico è non solo meglio in termini di godibilità della lettura ma anche di efficiacia di intenti cioè effettivamente leggo carver fare quello che sa fare e cioè disegnare una traiettoria ideale sostenere una tesi raccontarmi una cosa e tenermi alla larga dai mezzucci e ricordarmi che è necessario essere sempre onesti e buttare tutto fuori quando ti viene perché è lì che sei te stesso e non avere paura e non avere vergogna insomma ricordarmi che la scrittura è una finestra sul cortile interno e noi lo sappiamo tutti che nel cortile interno c'è poca luce e la monnezza ma occorre lo stesso avere il coraggio ecco il coraggio di guardare all'interno e questa è una cosa importante da tenere a mente finalmente ho capito perché da due ore rincorrevo queste righe su carver per leggere queste cose leggere la sua sul perché si scrive perché vabbé sul come si scrive lui non è che dice cose diverse da quello che dicono praticamente tutti gli altri scrittori e cioè scrivi e basta e non rompere i coglioni.

cioè aoh paro paro il contrario di quello che faccio io.

26 gennaio 2012

Thee Oh Sees: Carrion Crawler/The Dream EP [In The Red - 2011]

Siete mai stati alle prove di un gruppo? Io sì.
Se andate alle prove di un gruppo avete la possibilità di sentire i musicisti esplorare il loro materiale, trovare nuove strade, i tessuti, gli arrangiamenti. È figo, se vi capita provate, però non vi presentate a mani vuote che pare brutto. E a maggior ragione se andate alle prove di un gruppo tipo gli Oh Sees, che se siete sobri vi divertono la metà.
Nel senso: un gruppo che frulla tutto Nuggets (pure il secondo, quello inglese), i krauti ? & the Mysterians, i krauti (altri krauti), la psichedelia SoCal e la puzza (tanta puzza ma è il minimo perché escono per In the red) non si può non ascoltarlo senza almeno un giramento di testa.
Il disco appare proprio così, insomma: un’elaborazione di idee che piano piano vengono esplorate e messe alla prova, per accumulazione (qualche volta) o iterazione (molto, più spesso), e più di qualche momento ludico con le manopoline dei pedali.
Intendiamoci, il disco è pure divertente: certo, è un’operazione di revival sfacciato (ma esiste un disco che NON lo sia, uscito negli ultimi 5 anni?), che però almeno è fatta su materiale digerito e ricombinato, invece che rivomitato paro paro: insomma ‘sto Carrion Crawler sarebbe effettivamente potuto uscire nel 1971, ed è già qualcosa, in confronto a dischi che sarebbero potuti uscire in qualsiasi punto di un intero decennio, e quindi in nessun momento.
Ma:
Siete mai stati alle prove di un gruppo? Io sì. Se andate alle prove di un gruppo ci può anche stare che per stanchezza o mancanza di idee i musicisti a un certo punto inizino a cazzeggiare e si chiudano nell’autismo masturbatorio in cui l’ascoltatore diventa una presenza accessoria. E allora non ci sono birra o canne che tengano, alla prima occasione buona si saluta e si ringrazia e si va via.
E ecco, se gli Oh Sees mi invitano a sentire loro prove io dico Ragazzi grazie mille, magari però ci vediamo direttamente al release party.
Non so se mi sono spiegato.

12 gennaio 2012

Blues Explosion: Damage [Sanctuary - 2004]

Annoiato e probabilmente assordato dalla sua stessa esplosione, Jon Spencer va su Pitchfork, chiama chiunque sia nominato più di quattro volte (Martina Topley Bird, DJ Shadow, Dan The Automator) e li sfida a battaglia navale.
Su Pro-Tools.

Sentenza: 5 (su 10, eh)