30 aprile 2008

capisci che

una persona non ci prende molto in fatto di musica quando TUTTI i suoi gruppi culto si sciolgono nel giro di un anno.

http://www.punknews.org/breakups

19 aprile 2008

Phantom of rock'n'roll

l tristo riferimento è stato già fatto, tuttavia, dato il mio passato, un certo presente e, perché no, futuro non posso, non voglio, non devo emendarmi dal lasciare che la morte di Danny Federici, in arte “Phantom”, resti uno spaccio d’agenzia e una lacrima sul viso degli springsteeniani. Danny Federici è morto, morto male, morto malato e se qualcuno di voi non sapesse chi egli sia vi basti, per ora, sapere che negli ultimi 36 anni ha suonato l’organo hammond e la fisarmonica nella E Street Band, la band del Boss. Ne è stato membro fondatore, insieme con Bruce, Clarence Clemons e Garry W. Tallent; ne è stato ideatore nel tempo, causa una frequentazione che inizia col Boss nei corridoi di una scuola prima ancora che in una sala prove. E così oggi 19 aprile 2008, dopo 58 anni, di cui almeno 36 passati a suonare, Phantom Danny Federici ci lascia il doloroso compito di iniziare un percorso della memoria senza di lui: siamo al primo giorno di scuola.
Oggi, ci tocca cominciare a fare i conti con la caduta del mito dell’eterna giovinezza che la E Street Band ha incarnato. Vederli suonare a più di cinquant’anni con la passione e lo stesso divertimento dei loro anni verdi era una delle più belle esperienze che un rockettaro potesse vivere. La E Street Band era un banditore di speranza da stadio e chi l’ha vista almeno una volta lo sa. Danny Federici, a giudicare dal suo aspetto e dal suo ruolo nella band, deve sempre esser rifuggito dal virus della rockstar. Se si è scopato qualche modella californiana, buon per lui ma a me non ne è mai arrivata notizia; se ha comprato un ranch e allevato bufali, beh, da paura, ma io non lo ho mai saputo; se si è fatto le pere o le canne o le strisce nel backstage io non me ne sono accorto. Danny Federici portava un’acconciatura da impiegato alle poste di Freehold (NJ), indossava camicie a quadri infilate dentro i calzoni (dentro, non fuori) o completi scuri con t-shirt: era un sobrio intrattenitore, questo era per molti devoti del culto springsteeniano. A differenza dei suoi compagni di gang era meno appariscente e caratteristico e forse per questo, anche meno amato. Non ha mai creato un culto intorno alla sua persona pur appartenendo ad una delle più famose band di rock’n’roll di tutti i tempi. Meno coreografico di Clarence Clemons, meno istrionico di Miami Steve, meno sornione di Roy Bittan e meno fomentato di Mighty Max, non si è buttato subito a fare il produttore e lo scopritore di talenti quando il boss, all’inizio dei ‘90, lo mise in cassa integrazione insieme col resto della E Street; non ha partecipato a sessioni di lusso, né se n'è uscito con malinconiche carriere soliste prive del nerbo necessario a diventare tali, giusto un paio di dischi più per voglia de tajasse che altro. Forse della E Street Band era il membro che più di tutti aveva serenamente compreso ed accettato il proprio ruolo: un impiegato dell’organo hammond alle dipendenze del Boss, un dipendente. Forse alla fine del secolo scorso è stato quello che più di altri ha fatto presente al suo amico, ex-capo, ex-datore di lavoro che i suoi ex-dipendenti sarebbero finiti sul lastrico se non si fossero rimessi insieme; forse è stato il più sincero con Springsteen e, da vecchio amico/compagno di scuola/membro dei Child (poi conosciuti come Steel Mill), di Dr. Zoom & the sonic boom (la band di Springsteen che teneva sul palco, contemporaneamente al concerto, una partita di Monopoli a cui partecipavano elementi del pubblico presente) e poi della E Street Band, avrà fatto notare al Boss che la sua musica ci aveva guadagnato un proverbiale cazzo dalla svolta iper-solista che aveva intrapreso. Forse, forse, forse..

La carriera, e in un certo senso la vita, di Phantom Dan è talmente irrelata a quella del suo illustre principale da sembrarne un’emanazione, e così parlare di lui sarebbe l’ennesima occasione per parlare di Bruce Springsteen. Beh, oggi non ho proprio voglia di fare questo, così, per gioco, preferisco provare ad immaginarmelo, Danny Federici.
Un uomo sobrio, defilato, una figura solida e piazzata nel mezzo di un circo di cui ne era colonna portante. Beveva alcolici ? Forse, e allora? Andava a puttane? E perché no? Talmente silenzioso che anche quando lo si vede nelle interviste sembra di ascoltare qualcuno esterno alla E Street Band, non un suo membro fondatore.
Dicono si sia scopato Patti Scialfa prima che la rossa riuscisse a fare il colpo grosso e a far invaghire il capo dei capi; forse amava fare l’ingegnere della tastiera e incasinarsi con cavi e saldature per far funzionare vecchi arnesi analogici che servissero alla causa del Boss.
Cosa abbiamo di sicuro del fantasma Danny Federici?
Mi viene in mente una formazione musicale coeva alla sua giovinezza fatta di Chuck Leavell, Al Kooper e, che ne so, Booker T. Jones pittosto che Brian Auger; mi vengono in mente ascolti di british blues, e di Stax; mi sovviene una possibile fascinazione per Jimmy Smith e per la musica folk, vista l'altra sua grande passione: la fisarmonica.
A lui va tutta la mia simpatia per l’origine leggendaria del suo soprannome che pare gli venisse dall’essere sfuggito agli sbirri in occasione di una retata o qualcosa del genere.
Cosa abbiamo di VERAMENTE sicuro su Danny Federici?
Prendete “Born to run”, mettetelo sul piatto (se ne avete uno, sennò anche il CD va bene) e ascoltate Jungleland: quando Bruce canta “...from the churches to the jails...” quell'organo tonante, epico che parte sotto alla voce del cantante è la voce di Danny Federici; oppure procuratevi una copia di “The river” se non l’avete ancora e gustatevi l’assoletto di “Hungry heart” che è una miniatura di stile e spensieratezza; oppure ancora, riascoltate “Spirit in the night” e la magistrale introduzione di organo, o l’accompagnamento di fisa in “Bishop danced”...

Ovunque andiate, là dove Bruce Springsteen ha fatto grande musica, troverete l’invisibile, appena udibile a volte, contributo di Danny Federici, uno che con taaanti accordi o quattro note ben selezionate, ha aiutato il suo capo-comico a sferrare l’assalto al cielo.
Quanto a lui, a Danny, oramai è ricongiunto per sempre col suo nomignolo e, nelle notti di rockarolla che ancora Bruce e la E Street vorranno dispensare al popolo, dall’alto, potrà guardare ridacchiando i suoi acciaccati compari e il suo indomito e cigolante capo pensando che forse, andandosene anzitempo, ha evitato la dolorosa consapevolezza della fine del mito in terra e dato inizio, proprio lui, il più sfuggente della cricca, alla leggenda di ciò che sono stati tutti loro, nella storia.
Danny Federici è morto, lunga vita a Danny Federici.

18 aprile 2008

e anche danny saluta e se ne va.

Ieri sera per gioco abbiamo diviso i morti in morti piuma e morti fero. Fa un po' rodere il culo dover aggiornare già adesso la lista dei morti de fero.
Se non avete ancora capito, cliccate qui.

episodio IV

Sono i numeri, a parlare. Nel senso, se un disco uscito nel 2008 già l'ho ascoltato cinque volte e NON per lavoro e NON per forza o per studiarlo, vuol dire che sono di fronte a qualcosa. Drammatico: io ascolto almeno 10 dischi a settimana, e me ne ricorderò a stento 2, e di questi 2 mi ricorderò al massimo due o tre tracce. Certo, ci sono eccezioni, ma sono rare, e sicuramente NON (e siamo al terzo non maiuscolo in cinque righe, signori) occorse nel 2008.
2008 che tra l'altro nonostante sia iniziato da quattro mesi abbondanti, ha già visto un bel po' di gruppi poopolari e mediamente apprezzati tornare nei negozi (e lì rimanerci muahahaha) con dei lavori nuovi e iperstrombazzati. I Counting Crows, per esempio, dopo sei anni di silenzio hanno pubblicato un disco di cui non c'era affatto bisogno, o i redivivi Black Crowes, che tornati a fare blocco con Rick Rubin hanno messo fuori pure loro un disco di cui non c'era bisogno, ma che almeno riesce a conservare lo stato di veglia fino alla fine, e soprattutto dimostra che il gruppo non è steso definitivamente sui suoi allori, ma ha ancora voglia di fare qualcosa di fresco, in buona parte riuscendoci. Lo stesso Trent Reznor ha deciso di versare nei nostri iTunes (ehm, nei VOSTRI iTunes) un'altra quarantina scarsa di tracce, pubblicate inizialmente con la stessa tattica (se non più fondamentalista) dei Radiohead, comprese di (magnifiche) copertine, cazzi mazzi frizzi e lazzi. Un disco anche questo insopportabile per chi non sia convertito con fede al Reznorismo, cioè per chi apprezza i suoi dischi perché li ha fatti lui. Insomma, finora di dischi che ho voluto riascoltare, o di cui mi ricordo ALMENO UNA TRACCIA a memoria, non ce ne sono.
E qui arriva l'eccezione.

Io onestamente temevo che il nuovo disco dei R.E.M. fosse un'altra calla di passaggio come lo erano stati i due precedenti dischi, pieni sicuramente di cose carine, ma senza quella grandezza che da un gruppo del genere bisogna aspettarsela, poi quando ho letto in giro, sull’AUTOREVOLISSIMA rubrica musicale di Repubblica “Questo sarà un disco molto rock”, mi sono effettivamente preparato alla catastrofe, dato che rock è la parola che la stampa italiana mette ai dischi quando sono banali – e del resto è anche vero che se non sono banali, la stampa italiana dei dischi non ne parla, altrimenti come faremmo ad avere VascoRossi tra i coglioni da quasi trent’anni?
In alternativa: ero terrorizzato dall'idea che si fossero imbarcati in un altro viaggio sperimentale che avrebbe portato a una bella rottura di coglioni come Up, anche se tutto sommato loro per quello sono completamente giustificati, perché rischia di veder stirare MENTRE STAI SUONANDO il tuo batterista, uno con cui sono vent'anni che suoni, ci vivi, ci litighi, ti ci sbronzi e vai in giro in furgone (o nel jet privato, fa nulla: sempre di sindromi di Peter Pan in un interno parliamo). Poi sfido chiunque a non tirare fuori un disco cupo e attorcigliato su se stesso come un punto interrogativo – benché tra le sue fila possa annoverare due tra le canzoni più splendentemente delicate dei R.E.M., e cioè At my most beautiful e quel miracolo che è Daysleeper.
Giustificato questo, e compreso nel suo arco anche l'aggiustamento di tiro dei due dischi precedenti (che vale la pena ricordare siano stati punteggiati da un Greatest Hits e da un live), qua o ci si aspettava grandi cose o lo sfacelo totale, sarebbe a dire che i R.E.M. si perdessero definitivamente per strada come – che ne so – gli U2. E invece Accelerate è uno dei dischi migliori e più vivi della loro produzione dai tempi di New adventures in Hi-Fi, quindi da una decina d'anni a questa parte.

Ora, detto tra noi, 'sto disco non è figo (solo) perché le canzoni dentro sono orecchiabili, divertenti, memorabili ed efficaci (in due parole: scritte benissimo), quanto perché questo disco ha un carattere, evidente e ben preciso, che getta una luce piuttosto netta sulla band e sulla sua attitudine. Accelerate è un disco umile, fatto da gente divertita per divertire e divertirsi. Dentro ci sono cose che un orecchio attento percepisce, e un orecchio meno attento no ma non per questo può goderne di meno. Dentro c’è l’american music, Bob Dylan, Lou Reed, Springsteen, e soprattutto l’ingrediente migliore: un sacco di primi R.E.M. Ora lo so che il cuoco salterà su a dire Sì ma i primi R.E.M. in realtà sono i Byrds con l’impianto wave, e io gli risponderò Va bene, hai ragione ma non è questo quello che volevo dire.
Quello che volevo dire è che i R.E.M. hanno fatto nel 2008, a quarant’anni e passa di età, un disco che avrebbero potuto fare venticinque anni fa, a vent’anni – e per inciso: un disco che nemmeno un ventenne farebbe, nel 2008. E volete sapere perché? Ve l’ho già detto: perché Accelerate è un disco UMILE, di una band che umile si è rivelata, all’apice della carriera, e dall’alto di una posizione che molti altri gruppi stanno scialacquando o mettendo a rendita come un appartamento a Trevi.
Al contrario. Si sono chiusi in una stanza e hanno scritto canzoni dimenticando di essere i R.E.M., ma essendolo e basta: spontaneamente, creativamente e liberamente non hanno potuto fare a meno di ritrovare l’entusiasmo di suonare piuttosto che fare soldi facili, e aoh: l’entusiasmo sta nella musica che ascolti, perché è stato già abbastanza dimostrato, secondo me, che se al contrario si cerca l’entusiasmo nella musica che si è riusciti a fare si fa la fine dei Beatles nel 1968, cioè ER PEGGIO CARROZZONE (anche se magari avercene; ma è di attitudine, sempre, che stiamo parlando).
Risultato, Accelerate, che è un disco grandioso ma senza grandeur, come avrebbero fatto per esempio gli U2, ma del resto che volete? In questo sta la differenza tra essere americani e irlandesi, non ce la possiamo prendere con gli U2 perché se la tirano, loro sono stati i Beatles d’Irlanda, l’Unico Gruppo Irlandese (se escludiamo i Pogues che insomma, a escludersi ci hanno già pensato da soli), sono una bandiera nazionale, provate a intervistare la bandiera italiana che sventola al Quirinale, vedete quanta boria tirerà fuori. Essere americani in questo caso, invece, aiuta, perché con la tradizione nazionale devi confrontartici. Fare rock americano in America significa che gli spettri di quella gente che ti ha influenzato (Bob Dylan, Lou Reed, Springsteen) ce li hai alla porta, pronti a visitarti in qualsiasi momento, magari addirittura fisicamente. Non è facile alzarsi a rappresentanza del rock americano (se per rock intendiamo CHIARAMENTE le sue estensioni più larghe).
E allora ecco perché i R.E.M. hanno fatto un disco strepitoso: perché non hanno avuto paura di dire la loro, a differenza di altri che hanno voluto mettere un punto e hanno fallito (come gli ultimi due dischi del Boss, per esempio) su questa tradizione: commento e non rinnovamento, immettersi nella corrente senza combatterla per forza, testa alta, orecchie pulite, e la cosa fondamentale: le chitarre a cannone, cazzo.



playlist>
John Coltrane: Syeeda's song flute
Ben Folds Five: Underground
Weezer: No one else
Black Lips: Slime and oxygen
Tom Waits: Warm beer and cold women
Faith No More: Evidence
Blood ’77: Loyalty street
Earth, Wind & Fire: Can’t hide love
Booker T. & the MG’s: Can’t be still
Eric “Monty” Morris: Enna Bella
Bob Dylan: Subterranean homesick blues
Stevie Wonder: I was made to love her
Ani DiFranco: Heartbreak even
Discharge: The possibilità of life’s destruction