20 febbraio 2012

vestirsi al buio

Io la fissa e l'attesa per il disco nuovo di Peter Broderick l'ho capita e l'ho condivisa. Lui è uno dei pochi che quando parla vale la pena di fermarsi ad ascoltare. Ha talento, sa dove andare e soprattutto ha un gusto per il sobrio che me l'hanno fatto apprezzare. Quando ho saputo che c'era un suo disco nuovo in streaming ero contento, e ho fermato addirittura Billie Holiday.
Poi vabbé, l'ho ascoltato.
E per carità, non è che il disco non mi sia piaciuto, sebbene anche nelle sue parti migliori non è niente per cui strapparsi i capelli, ma mi ha un pochetto deluso. Deluso nel senso Peter-da-te-non-me-l'aspettavo.
Ora: non ho né voglia né intenzione di parlare del disco di Peter Broderick: esce per Bella Union che è la cocca della stampa indipendente (e vorrei pure vedere), pitchfork ha il cazzo duro da settimane, insomma tra qualche giorno di questo disco ne parlerà anche Cronaca Vera.
Piuttosto, ciò che mi viene in mente è l'epidemia dalla quale sembra che anche il bimbo prodigio più amato dalle donne sembra non sia riuscito a salvarsi, e cioè quella della luccicanza. Mo' mi spiego meglio.

Nel suo ultimo pezzo, il cuoco stava riflettendo sul fatto che pochi dischi usciti ultimamente sono stati in grado di emozionarlo. Ora, lui ha una regione di osservazione radicalmente differente dalla mia, ma entrambi siamo così rompicoglioni proprio perché aspettiamo sempre qualcosa che cambi la vita, o almeno il battito cardiaco: devo dire che negli ultimi anni qualcosa in grado di farlo l'ho anche ascoltato - mo' insomma non è che sono diventato uno zombie come Assante che ancora va dicendo che il rock è morto: a me i Fleet Foxes mi hanno commosso, e A.A. Bondy e gli Arcade Fire e i Band of Horses e certe cose dei Bombay Bicycle Club pure, però devo dire che rispetto alla quantità STERMINATA di materiale che esce ogni giorno, sono pochissime le cose che mi colpiscono veramente, le cose per le quali farei spazio nella mia stanza,spenderei dei soldi. Non credo, infine, che si tratti semplicemente di un fatto statistico: siamo tutti d'accordo che in 70 anni di discografia la robaccia ha sempre battuto almeno 50 a 1 la roba buona, almeno quantitativamente. Credo piuttosto che sia un discorso di zeitgeist, e qui finalmente arriviamo a bomba.

Io che a quanto pare ho un MUCCHIO di tempo da perdere, ascolto praticamente qualsiasi cosa esca che non sia techno, reggae, poetastri italiani o RAC. Se esce qualcosa, è abbastanza verosimile che almeno un minuto di attenzione gliela dedicherò. A me la musica piace, è inutile che faccio il vago, e in lei ci credo e ci SPERO. Eppure ci sono periodi in cui la musica mi sembra mediamente peggiore, come se il plateau su cui poi svettano i picchi fosse più basso. E questo, signori, è uno di quelli.

Vedi, cuoco, a me non stupisce che la musica del 2012 (quel tipo di musica del 2012 che da ora in poi chiameremo musicadel2012) non ti emozioni, perché salta fuori che non sia questa la sua missione.
Pensala così: in un contesto artistico-musicale in cui il dibattito più ricco è quello sul revival - o meglio, su quanto il revival sia la matrice dell'atto musicale odierno -, la musica è affannata nel cercare di assomigliare il più possibile a qualcosa di già occorso nel passato. Ci mancherebbe: gli stessi Fleet Foxes marcano 1971, e solo in un periodo come questo hanno senso il Wall of sound 2.0 o un'intera etichetta come la Daptone. Ne parlavamo l'altra sera, ricordi? Tu eri un po' ubriaco ma io no. Tralasciamo pure il fatto che una musica che cerchi così disperatamente una legittimazione nel suono del passato ha dei seri problemi di autostima e pure qualche contrattempo edipico. Piuttosto:
Ricordi cosa diceva Adorno? La categoria principale di ascoltatori attinge nel serbatoio dei consumatori di cultura: la musica, come il cinema, i film, e anche i libri - ahimé - è un orpello da indossare come un cappotto nuovo, e il paragone con l'abbigliamento non è tirato per i capelli, mo' ti dico, porta pazienzae seguimi.

La tendenza principale del revivalismo del 2012 - che è solo DIVERSO da quello per esempio del 2002: abbiamo revival da quando abbiamo dischi, non prendiamoci per il culo - è il ripescaggio degli atteggiamenti musicali della prima metà degli anni 80. Hai letto bene, ho scritto atteggiamenti musicali e non musica. Il periodo di osservazione privilegiato in questo momento è infatti un periodo in cui la diffusione della tecnologia ha generato un pop sintetico (e ok) ma fatto di giustapposizioni più dettate dalla curiosità e dal capriccio che da una visione d'insieme (come gli agghiaccianti abbinamenti rosa/marrone/celeste che vedi addosso alla gente al Fanfulla).
La neo-eccitazione per la disponibilità di gadget musicali sposta l'attenzione dal cosa mettere nelle canzoni a come metterci sopra: proprio come sono pochi quelli che resistono alla tentazione di provare tutti gli effetti della pedaliera appena comprata, la musicadel2012 è distratta dal dimostrare quanto può essere ESATTAMENTE fedele ai suoi bruttissimi modelli di 30 anni prima. Pazienza, insomma, che le Superga puzzano: noi ce le mettiamo uguale perché è vintage.
Certo, tu mi dirai Anche il punk e il garage sono partiti dal desiderio di emulazione e dalla tecnologia a basso costo, ma qui non parliamo di disagiati che rimediano alla rabbia col volume, quanto di persone che - almeno a sentire ciò che fanno - si ANNOIANO e, nella fretta di arrivare a conclusioni che è la primogenita del terzo millennio, decidono che è ennui e la mettono nella musica. Oltre a non sentire il cazzo (non c'è soul, cuoco, nemmeno un po'), nella maggioranza della musicadel2012 non sento nemmeno urgenza, bisogno.
L'intenzione, per come si sta riproponendo, è stupire e - presuntuosamente - fondare nuovamente un'estetica del kitsch che, alla continua ricerca di un nuovo e più nauseante accostamento, non ha tempo per approfondire il contenuto. Veloce e feroce come un uragano di detriti, la musicadel2012 è una musica che devi avere il coraggio di portare per strada come i tirabaci, una musica con cui essere d'accordo più che in sintonia, e che riflette la necessità dei 20enni di questa generazione di apparire più vecchi (dai cazzo, la PERMANENTE?!?) e più ricchi; in culo alla precarietà e all'insicurezza planetarie, la  totale, orizzontale e inorganizzata musicadel2012 fa ballare di nuovo come macchine, manifestando la testa che vince sul cuore, la volontà che vince sulla necessità, ed elitarismo: proprio come i Rayban da una piotta e mezza per leggere meglio le notizie che arrivano da piazza Syntagma.
Esattamente come nella prima metà degli anni 80, la musica di questi ultimissimi anni è la musica più BIANCA e borghese che ho sentito da un po', fredda ed esatta come i Casio che hanno marcato zimbello per tutta la nostra infanzia.

È per questo che ho rosicato quando ANCHE nel disco nuovo di Broderick sono apparsi i coretti all'unisono o il tema cantato dalla voce tenorile (l'equivalente musicale insomma del mocassino, degli accessori kitsch): ho rosicato perché anche lui che ricordavo orientato a una certa sobrietà un po' romantica non ha saputo evitare di indulgere al patinare per bene la superficie, trascurando che i pezzi sì, insomma, ma alla fine vi dirò. Anche questo suo http://www.itstartshear.com/ si inserisce nel filone della musicadel2012 che è revivalista nel linguaggio, nel modo di essere concepita, sulle orme del rococo à la Bon Iver (la traduzione musicale di Instagram, praticamente) che se avremo pazienza - e se ci dirà culo - sarà però seguito da una nuova ondata integralista, che a questo punto non potrà fare altro che spogliare la musica di questi cosmetici vivaci e di questi pizzi che la rendono un po' svampita un po' mignotta, e riporti all'attenzione la sua essenza - il cazzo di songwriting, insomma, quello che se non ce l'hai ti attacchi al cazzo e BASTA.
E basta, appunto.

13 febbraio 2012

Una nota da diario

Per evitare che pensiate che mi mobilito solo per eventi riguardanti Springsteen e affini torno sul blog per parlare d’altro.
Tra l'altro, il nuovo album di Springsteen s’appresta, il singolo non mi è piaciuto e prima di venire colto dall’ennesimo travaso di bile per lo svuotamento che ha subìto la sua scrittura nell’ultimo decennio ho preferito tornare a scrivere per moventi diversi.
In questi giorni - dopo più di un anno di garage - la mia collezione di dischi è finalmente rientrata a casa nella sua totalità.
Immaginate di aver dovuto passare un periodo consistente di tempo lontano dalla vostra collezione; immaginate di aver avuto solo il computer e un lettore mp3 come enti eroganti musica per circa un anno e mezzo/due. E, infine, immaginate di tornare finalmente alle vostre cose, ai vostri dischi e di trovare la situazione cambiata. La storia che quelle pile e pile di dischi raccontano di voi, il valore, il significato di ogni singolo pezzo sono diventati un’altra cosa.
Più di quanto incida sul vostro mutevole gusto il normale scorrere del tempo, la “vacanza” forzata appena conclusasi – portatrice anch’essa di nuovi stimoli e visioni – decide dello status quo del momento attuale. La “vacanza”, come distanza - distanza evidentemente emotiva oltre che fisica – ha modificato il vostro punto di osservazione e, con esso, la vostra visione. Rimirate i titoli uno dopo l’altro; magari vi scappa un sorriso per aver ritrovato un vecchio amico, cioè un disco cui siete legati o magari vi chiedete, vedendone un altro: “e tu che cazzo ci fai qui?”.
Ora, voi potete pure imputarmi di scoprire l’acqua calda ma vi giuro che costruire un’epica di se stessi è un lavoraccio e la musica può aiutare molto da questo punto di vista: insomma non è un’esperienza piana e di ordinaria leggibilità ritrovarsi a quasi 40 anni con dischi che oggi, suscitando dubbi su se stessi, suscitano, transitivamente, dubbi su VOI stessi.
Non è tutto.

Ravviso, da un po’ di tempo, una cortocircuitazione emotiva rispetto all’esperienza dell’ascolto e mi faccio domande: il fatto che non mi ingrifo più come un dì all’ascolto di un album è imputabile ad una vita in cui la lotta tra squali e dinosauri piuttosto che il destino di Capitan Uncino hanno preso il sopravvento sul godimento della scritttura di Holland & Dozier o degli arrangiamenti di Timber Timbre oppure è che stiamo storicamente attraversando un periodo di riflusso delle urgenze?
Consumando come è mio uso la stampa musicale, mi ritrovo orfano di quell’entusiasmo che trasuda dalle recensioni e che invece non trasuda più da ME. A fronte di segnalazioni di dischi di pregio la mia risposta emotiva è sovente disillusa; sempre più di rado leggo dietro il pregio delle forme quella SOSTANZA che muove le umane cose, le umane genti e sovrintende all’accoppiamento alla copula e ai grandi mutamenti della civiltà.
Scorrono allora dinanzi a me i titoli degli album in cui anche per una sola settimana mi sono riconosciuto: dischi che ho deciso di esibire sui miei scaffali perchè una collezione di dischi è anche questo, esibizione, pisellometria.
Scorrono quelli che ho deciso di serbare dentro un hard disk in attesa di acquisto o masterizzazione.
Scorrono un po’ troppo, scorrono in troppi.
I primi a causa del cortocircuito storico, del tempo che passa, dell’acqua passata che non macina più. I secondi a causa del cortocircuito del presente, dell’indifferenza dell’orecchio dell’ascoltatore. La vita che cambia e ti cambia? Il sovraccarico d’informazione? L’inizio dello spegnimento? Eccesso di consapevolezza della serie “beati i poveri di spirito”? Voglio credere di no. E non per credere ancora un po’ nella mia transitoria esistenza o nel suo significato ma per credere ancora nella musica e nel suo secolare contributo.

Richard Middleton nel suo Studiare la popular music fa riferimento ai meccanismi (industriali, mediatici, socio-politici) che sussumono il disagio giovanile per metterlo a sistema nonché a bilancio. Riletta così la storia dell rock’n’roll diventa una storia di venduti talmente strafatti da non accorgersi nemmeno di esserlo e di venduti talmente contenti da non preoccuparsene affatto. E dunque quello che ci è arrivato è solo quello che è stato permesso arrivasse alle nostre orecchie, cuori, anime, lombi.
Non solo: sembra che nel confezionare un suono che fosse “Spirito del tempo”, considerando la variabile “Tempo” come soggetta alle compressioni più efferate e dunque inducendo a repentini cambiamenti di indirizzo la massa ascoltante, possiamo ritenere possibile che a forza di confezionare ci si sia fatti prendere la mano proprio dalla confezione.
Lo dissero i Clash, dopotutto:” You think it’s funny turning rebellion into money?”. A onor del vero a loro successe esattamente questo ma, comunque... it ain’t funny.

Facciamo qualche esempio
Liz Green è una scoperta recente, il suo disco O’ devotion (2012) si presenta nelle dismesse vesti di un impianto pre-war, con la strumentazione ridotta ad una chitarra pizzicata sempre più o meno allo stesso modo e una sezione di ottoni che entra sempre più o meno allo stesso modo a commento o sostegno delle composizioni. La dinamica tra gli strumenti in gioco diventa nota al quarto pezzo e le sorprese finiscono. Il disco è ritenuto buono, le recensioni ne dicono bene e in effetti possiede tutti i clichè di un disco buono.
Chain & the Gang sono in giro penso da un po’ più di tempo, hanno adottato un’attitudine garage con sporcature black (potremmo definirla un formula detroit style degli anni zero), si pregiano di un cantato ubriaco alternato ad uno spoken abbastanza stonato e personale da non indugiare in tardi “Loureedismi” deprecabili per definizione. Formalmente si presentano al meglio per scelta dei suoni ed informalità superficiale. Roba da giacchetto di pelle nera con maglietta bianca sotto al concerto.
Pete Molinari lo diremmo uno che tramanda, uno che ha scelto le vie della tradizione. L’impianto della sua musica è diurno senza romperti necessariamente il cazzo col fatto che il sole splende in cielo. Può essere giorno fatto ok, ma il cielo può essere velato, il vento può darti noia, e la mamma può essere lontana. Chitarre pulite, “cristalline” direbbero quelli del Buscadero, scrittura lucida e di basso profilo, una versione meno timida ma anche meno complessa e affascinante di M. Ward. Buonino.
Ognuno dei prodotti summenzionati è fatto ad arte ma sembra pensato per giocarsi tutto al primo, secondo ascolto. Messi alla prova sulla lunga distanza sono solo intrattenimento ben confezionato ma sul mio scaffale forse non ce li metterò. E come loro tanti altri, di oggi e di ieri.
Questo scisma tra musica e autobiografia si nutre male per scarsità di sostanza ed io languisco. Utilizzare ad arte inflessioni stilistiche, citazioni eleganti, scenari rassicuranti in cui potersi accomodare senza il benchè minimo sussulto non mi restituirà l’anima che la musica anni fa mi ha rubato. Non è poi difficile parlare con la panza e nessuno ti rimprovera se non sei riuscito a scrivere Darkness on the edge of town, il punto è che CI DEVI ALMENO PROVARE!
Perché tutto sembra rinviare ad un melange di epoche passate nella musica che incontro oggi ma niente mi aiuta a vivere in questa. E allora eccolo, l’intrattenimento. Intrattenuti in attesa del prossimo momento storico. Giungeremo sguarniti per carenza di sostanza del momento storico precedente?
No, voglio ripropormi il bisogno di ritrovare urgenze autentiche, voglio esigere da chi fa musica che si giochi qualcosina in più delle lezioncine sui propri ascolti e su come li ha assorbiti bene.
Voglio che ci provi, che ci stia dentro. Ed io voglio rituffarmi in quel magnifico gioco che è “Pizzicare l’impostore” incontrando le mille difficoltà di chi ha di fronte un’impostura ben pensata e giubilando di fronte a qualcosa di VERO.
E voglio riconquistare il mio diritto ad illudermi perchè ultimamente la musica mi sembra venga fatta solo per farmi viaggiare comodamente sbracato su un divano davanti a due casse.

Mi passa per le mani Dog in the sand di Frank Black & the catholics, quel disco l’ho adorato e ora non mi fa più niente; Gentleman Blues dei Cracker con cui ho elaborato una separazione: ne vedo tutti i difetti; Elvis Costello, Delivery man, cui ho nobilitato la masterizzazione contraffacendone copertina e custodia e facendolo sembrare un disco originale è finito in una bustina trasparente di plastica recando con sé la copertina scannerizzata a memoria imperitura di quando bastava AVERLI i dischi per essere felici, anche se non erano originali.
Ripercorro la mia storia e mi sorprendo commosso stringendo tra le mani Smoking in the fields dei Del Fuegos (per fortuna su vinile) e tornando a quante salvate mi ha fornito questo bolso album di rock FM da strada con una bar-band prodotta come se dovesse suonare a San Siro.
Sono anch’essi, senza dubbio, contributi a quello scenario dipinto ad arte dall’industria dell’intrattenimento: oggi languiscono nelle loro carenze ma a suo tempo sono serviti a qualcosa.
Sono la mia storia, le mie glorie e vittorie, i miei sbagli.In attesa di collezionarne di ulteriori, rimiro questi qua.

La prossima volta parleremo invece di chi aggira tutte le mie pastoie esistenziali facendo le cose e basta e facendole come si deve.
Ma questa è un’altra storia.

9 febbraio 2012

Gonjasufi: MU.ZZ.LE [Warp - 2012]

Io non ho motivi di ascoltare Gonjasufi. Non ne ho motivi per milioni di motivi. Buona parte di questi hanno naturalmente a che fare con i suoi ascoltatori medi, ma non volendo sembrare il solito snob pieno di pregiudizi (i miei splendidi cuccioli), mi fermerò al fatto che ho smesso di interessarmi di elettronica pastiche un po' di tempo fa, grazie soprattutto al mio rinnovato amore per il uanciutrifò-daje, e che la musica che mi fa ballare solo il cervello, dopo anni di Zappa, Autechre e Bouez mi ha, come dire, un po' rotto il cazzo.
Ciononostante ho ascoltato, invece, MU.ZZ.LE per due motivi principali: il primo è che Simon Reynolds fa diversi cenni a questo Gonjasufi in Retromania, che è un libro eccellente e io mi fido di lui - mi fiderei di chiunque sostiene che gli hipsters siano avvoltoi; il secondo è che diversi critici (allmusic.com, popmatters.com, chiunque che CONTI, insomma) l'hanno incluso nella propria lista dei dischi più attesi del 2012. E poiché io credo ANCORA nella critica professionale, e fortunatamente procurarselo è pure gratis, ho pensato Ma sì, ma sticazzi, ed ecco qua.
Fa bene Reynolds a buttare Gonjasufi nel calderone dell'hauntology o comunque della post-post-modernità: la giustapposizione e sovrapposizione puntillistica di contesti sonori, sorgenti e rimandi di significato è continua, frenetica, caotica, proprio come se fosse possibile ascoltare ciò che passa su tutti gli iPod e le stazioni radio del mondo, contemporaneamente. Un incubo, insomma.
I due riferimenti immediati sono psichedelia e dub: ben lontani dalla forma canzone e da strutture con elementi ricorrenti, i 10 pezzi procedono linearmente come un viaggio (materiale o immateriale fate voi, io per me sono del parere che questo è un disco del tutto impensabile senza psicotropi), un percorso che procede sempre e solo avanti, nonostante lo sguardo sia sempre rivolto all'indietro. Le basi rallentate e corrose digitalmente sono il terreno su cui il disco rotola, tra delay a manetta e voci distorte e, insomma, beh, tutti i plugin disponibili su pro-tools. Poi vabbé, sta a te decidere se seguire questo viaggio, partecipare, sonnecchiare di tanto in tanto o concentrarti sui fatti tuoi finché non sei arrivato a destinazione e poi limitarti a scendere e arrivederci e grazie.
Come pressoché tutta la musica sperimentale, infatti, anche quella di Gonjasufi - ma dirò meglio: anche MU.ZZ.LE (non ho ascoltato altro e non credo che lo farò) è una musica più utile che bella, più necessaria a portare avanti la (necessaria) riflessione su come stiano cambiando le nostre orecchie e il modo di pensare la musica, che a goderne e rimanerne coinvolti, ed avendolo interpretato come un disco con cui essere d'accordo non significa esserne amico, non nascondo che ne ho apprezzato la brevità - del resto, poiché i pezzi si basano soprattutto sullo stesso principio di giustapposizione, invecchiamento precoce e lugubr... lugub... insomma sull'essere lugubre e affascinante al tempo stesso, è facile annoiarsi presto, cosa che infatti è accaduta a me, che ho pensato che quando di un disco apprezzi la fine è come quando leggi che il migliore in campo è stato il portiere: tutto il resto è andato storto.
Insomma MU.ZZ.LE è un disco che incuriosisce, senz'altro, che merita di essere ascoltato se vi importa della musica, e se siete disposti a sorvolare sulla sua necessità di essere BRUTTO (altrimenti come per tutta l'avanguardia, il messaggio non arriva col giusto impatto).
Quindi se mi dite che l'avete trovato interessante, vi credo e vi apprezzo pure. Ma se mi dite che vi è piaciuto, beh...

7 febbraio 2012

Cloud Nothings: Attack on memory [Carpark - 2012]

Allora io di questi Cloud Nothings non sospettavo nemmeno l'esistenza e me li sono procurati praticamente solo perché a un certo punto ha iniziato a parlarne CHIUNQUE e io ho detto Beh, sentiamo chi sono.
Allora mi sono documentato e ho scoperto tre cose: 1. sono americani, 2. sono al terzo disco (bada!), 3. il disco gliel'ha fatto Steve Albini.
Non solo: ho PERFINO ascoltato un paio di pezzi e ho pensato Dopotutto niente male, il che de 'sti tempi è grasso che cola: post-punk in QUALSIASI senso vi venga in mente. Fugazi, Seattle, Berlino (ma i quartieri elettrici, non quelli elettronici), At the drive-in del periodo chi-siamo-cosa-vogliamo, poca produzione, momenti di prolissità mantro-kraut-edelica (Blowup nun te temo!). In più il cantante certe volte assomiglia a Jake Burns degli Stiff Little Fingers e quindi giustamente mi sono pure intenerito.
 
Eppure Attack on memory ascoltato dall'inizio alla fine m'ha dipinto in volto il dubbio. Mezz'ora abbondante di dubbio
Tipo: il disco inizia con del malessere e prosegue invece con del malessere, ma spiegato in maniera DETTAGLIATISSIMA (nove minuti di malessere, intendo: almeno sei dei quali di improvvisazione strumentale accogliente calorosa come un pezzo degli Wire). Poi a un certo punto BASTA malessere, anzi quasi California (cioè, posizionata dov'è, la riapertura "Fall in" pare un pezzo dei NOFX dopo un'ora di Silver Apples) e poi invece alla fine nevrosi. Mah. Mi son dovuto fermare e controllare che il lettore non m'avesse incasinato la tracklist perché proprio non ne venivo a capo.
Nel senso: magari ci sta che il disco sostenga un discorso, segua un percorso non spezzettato, abbia una sua coerenza interna, sennò è come vedere un film in cui primo e secondo atto siano invertiti: il dramma subito e il prologo dopo. E io Pulp Fiction proprio NO - ché non sono sicuro che c'entri ma perché sprecare un'occasione per sottolinearlo?
Ed è un peccato perché singolarmente i brani di Attack on memory funzionano: al di là del modo un po' improbabile in cui sono stati giustapposti, sono ben scritti e ben eseguiti (ma del resto se c'è Albini in giro è raro che arrivi la sola) e suonano pure sinceri, che non è una cosa molto diffusa nei gruppi con le chitarre pulite, ultimamente.
Non so, forse dovremo aspettare un pochetto: i ragazzi devono ancora trovare una dimensione più coesa nonostante siano al terzo disco; forse la maturità arriva in un secondo momento, forse non hanno ancora deciso che strada prendere a livello espressivo o formale, dato che essendo dei giovanotti magari ancora non hanno voglia di fare le cose dritte. Forse invece anche sticazzi, ché dopotutto non stiamo parlando di chissà chi e se sti Cloud Nothings non li conoscevo fino a ieri un motivo dev'esserci, no?

1 febbraio 2012

Tennis: Young & Old [Fat Possum - 2011]

Uuuuh carini i Tennis. I Tennis sono marito e moglie, lo sapevate? E lo sapevate che il primo disco loro è una specie di concept su un loro viaggio a Cape Dory, che poi è il titolo dell'album? Carini. E lo sapevate che è appena uscito - no, tecnicamente non ancora, quindi correggo. E lo sapevate che si può già ascoltare il disco nuovo loro? Ecco.

Io avrei tutti i motivi per odiare i Tennis. Di fatto sono due hipsters (ricci, jeans rossi, tutto), la copertina del loro primo disco è un intero festival del cattivo gusto che pare copincollato direttamente da worstalbumcovers.org, e in sintesi non mostravano di essere diversi dai cinque milioni di gruppi spuntati negli ultimi 2 anni che fanno surf pop che più che grato direi che è appecoronato al wall of sound.
Ora: alcuni di loro non valgono un cazzo e lo sappiamo alla fine del primo pezzo. Altri sono buoni finché è estate e poi sono deprimenti come le infradito in Siberia, altri invece danno l'impressione che occorra essere giusto un pochetto pazienti. I Tennis sono tra questi, e lo dimostra il fatto che non ho pensato Aridaje sti stronzi, quando ho saputo che era disponibile. E poi escono per Fat Possum: almeno un minuto di attenzione gli va dato.
Proprio come Cape Dory, Young & Old funziona perché è un disco di canzoni: cose pensate, scritte, insomma, che si possono ascoltare e apprezzare anche senza conoscere i riferimenti storici o gli ammiccamenti ai generi di riferimento. Non un disco tenuto in piedi dal riverbero a molle o dal Farfisa, insomma, ma qualcosa che osserva la regola d'oro di Santo Keith per la quale una canzone è buona quando puoi suonarla solo con una chitarra acustica.
Non solo, Young & Old è un disco di canzoni pure meglio, e non solo un Cape Dory pt. II: c'è una crescita, insomma, da parte dei due sposini di Denver: non la prevedibile compilation di sorridenti twist canditi da spiaggia, ma approcci diversi (come quello della mia preferita, che è My better self, una canzone DIVERSA da loro, appunto), che li inseriscono nella categoria dei gruppi da tenere d'occhio sul serio, adesso. Certo, dovranno sempre liberarsi dell'essere giovani, ma fatto questo andrà tutto a gonfie vele, sono sicuro.
(By the way, ho scoperto solo DOPO che è stato prodotto da Patrick Carney dei Black Keys, quindi sono del tutto in buona fede).
E basta, tutto qui. Alla fine stamo a parla' dei Tennis, mica...