27 giugno 2007

il povero diavolo nascosto nei dettagli

Rob Lind: saxophone. Fine. Punto.
Questo è tutto quello che la storiografia ha da offrirci su uno dei più grandi ed improbabili sassofonisti di rockarolla. Erano i “meravigliosi anni ’60”, quelli che magari la mamma ricorda con una lucina commossa negli occhi (la vostra mamma forse, che la mia era già grandicella e c’aveva troppo da fa’ pe’ anna’ alle contestazioni e alle fumate consapevoli de gruppo) – dicevamo: erano ’sti benedetti anni ’60 e mentre buona parte delle band, pur attenendosi a condotte licenziose e deprecabili, spacciava di sé un’immagine tipo “Giovani, carini e perdigiorno” e pensava a suonini carucci e a canzoncine orecchiabili, qualchedun altro, con adolescenziale incoscienza, sfasciava i coni dell’amplificatore per chitarra (come insegna nonno Link Wray), si dotava di cantante strepito-munito e andava ad allietare le feste che brulicavano negli Stati Uniti in pieno boom economico. I Sonics facevano questo mestiere e lo facevano meglio di tutti. Ora, a me interessa poco darvi altre dritte su un gruppo che ha dovuto aspettare un trentennio per essere preso in considerazione. Tanto ormai, tutte le riviste specializzate, anche quelle che con la rockarolla fanno a pugni, si inchineranno al nome The Sonics, si genufletteranno e inizieranno a sbrodolare lodi sperticate allo “Spirto primigenio del rock ’n’ roll”. Non si sa come, i Sonics, che nessuno si era inculato per trent’anni sono diventati influenti per CHIUNQUE. Oggi se non hai un disco dei Sonics non capisci un cazzo, prima non capivi un cazzo se ce lo avevi: misteri della critica musicale e del popolo consumatore.

Dunque: Rob Lind. “Perché?” vi domanderete voi. Perché si è parlato di critica musicale, nel blog; perché si parla di gusti, nel blog; perché tre righe analitiche su Rob Lind, splendido chiama-quardriglie del secolo scorso, non le fa nessuno e qui dentro si fa giustizia, non par condicio.

(cane), un po’ di tempo fa aveva giustamente affermato la scarsa digeribilità del solo di sax nel contesto del rock ’n’ roll. Senonché viene da prendere in considerazione il fatto che molti combo del suddetto genere, prendendo le mosse dalle formazioni nere di rhythm ’n’ blues, portavano il sax all’interno come elemento connaturato al genere. Secondariamente ma neanche troppo, la chitarra elettrica stava ancora sviluppando ed evolvendo il suo linguaggio e dunque un buon sax era una scappatoia efficace per sparare assoli in mezzo alle canzoni. In questo contesto Rob Lind si inserisce in modo calligrafico e non avanguardista. Non cede alle tentazioni free (non sempre riuscitissime) che caratterizzeranno la performance di Steven Mackay nelle sessions di Fun House degli Stooges; non indugia nel “Sax da entertainement” che rende Bobby Keys il sassofonista dei Rolling Stones da quarant’anni; non incede nelle accoratissime divagazioni a metà tra la bar-band e il musical di Broadway che, alle volte, sono la cifra stilistica di Clarence Clemons.
Di più: Rob Lind è un bianco. Nonostante trasudi formazione ed ascolti black (e stiamo parlando del black dell’epeca), il suo “Sassofonismo” ci parla di attitudine più che di tecnica, e di un contesto socialmente riconoscibile: il rock ’n’ roll, musica tendenzialmente bianca con elementi tendenzialmente neri. Per questo non trovi traccia delle narrazioni saltellanti che furono del sax di King Curtis o dello stesso Maceo Parker anche se gli ascolti di Rob Lind magari non differivano più di tanto da quelli degli altri due; per questo, nonostante il Nostro spezzi il soffio mille e una volta, noi abbiamo la certezza di stare ascoltando qualcosa d’altro. Cosa? La risposta è: l’attitudine.
L’attitudine è tutto per noi che vogliamo fare i punk a trent’anni passati. L’attitudine è la risposta alla scarsezza tecnica; è il mezzo attraverso cui convogliare un’urgenza espressiva che altrimenti non avrebbe vie d’uscita. E veniamo alla pietra angolare. L’attitudine era dei Sonics, non del solo Rob Lind, e così si profila il miracolo: un sassofonista non autoreferenziale che consolida il suono di un gruppo; un solista distante un anno-luce dal concetto di infiorettatura; un ulteriore strumento ritmico, insomma: uno della band. Rob Lind forse è l’unico vero sassofonista punk della storia.

Andate a risentirvi i barriti, gli strepiti, quelle pernacchie da bassofondo che ERANO IL SUONO DEI SONICS. Andate a risentire come l’approccio del sax ricalca la voce del cantante Gerry Roslie (e come, forse, la voce del cantante si ispiri al suono delle chitarre e dello stesso sax, in culo ai cantanti primedonne e agli spingitori del “Bel canto”). Andate a rigustarvi quegli assoli puzzolenti, fatti di fretta, con foga, con rabbia persino, la rabbia di non avere un amplificatore rotto che “fuzza” il suono, tutto per sé. Provate ad indugiare dieci secondi (tanto durano i suoi interventi) sulle note spezzate, sulla estrema “ballabilità” dei momenti da lui contrassegnati, sul fatto che QUEL SAX, con QUELLA ATTITUDINE, in QUEL CONTESTO esprima chiaramente un semplice realtà: c’è una festa: BALLATE, STRONZI!!!
Per chi ha bisogno di sondare le profondità dell’umano ci sono Coltrane, Eric Dolphy, Cannonball Adderley e chi più ne vuole più ne metta.
Per andare a fare una rissa c’è ROB LIND. È semplice.

Ho provato a rintracciare in rete informazioni in più in merito a detto personaggio. Sarà stata l’imperizia nel cercare ma a parte la menzione in allmusic guide e in wikipedia alla pagina biografica sui Sonics, su Rob Lind giace una coltre di buia insipienza. Chissà, forse è diventato venditore di automobili a Tacoma WA, la città della band, forse si è buttato nel ramo assicurazioni, forse è morto tossico o intossicato dalla vita, forse ha cambiato sesso e si fa chiamare Lorna qualcosa o Jennifer qualcos’altro... BOH?!?
Rob Lind: saxophone. Fine. Punto.

Qui dentro (nel blog, intendo) si creano leggende con sfigati desaparecidos della musica e si sfatano miti decennali perché, diciamocelo, non si può ricondurre tutto al rispetto politicamente corretto per TUTTI e dico TUTTI i gusti. Ci sono gusti e gusti. Domandatevi come mai, nella vita, non avete mai avuto amici che facessero venti ore di fila sotto il sole per vedere Michele Zarrillo; chiedetevi perché preferite il pischello in fissa coi Converge piuttosto che con le Vibrazioni o la pischella che sente Nick Cave invece di Gigi D’Alessio. Parliamoci chiaro: certi gusti non sono tali, sono solo crasso, inconsapevole consumar passivo di quanto passa il convento (o I CONVENTI, giusto per non risparmiare un lancio della cacca al mercato indipendente, che indipendentemente dalla sua indipendenza, dipende pure lui da qualcuno e si danna per inventare/creare nuove dipendenze che però abbiano l’etichetta “INDIPENDENTE” sopra così da potersi sentire duri puri e indipendenti...).
Certi gusti disgustano, tutto qua. Ma la bruttura non è questa, ’ché coi gusti di merda del lumpenproletariat musicale (mi perdoni Karl per l’abuso del termine) ci si può anche campare; no, il fatto è che se scrivi un pezzo su Rob Lind per parlare del “sassofonismo” nel rock ’n’ roll sei un segaiolo mentale, un turpe monatto, un riesumatore di cadaveri decomposti, una persona di pessimo gusto perché “...non frega niente a nessuno di questo qua...”; “...ahò, ma questi qui li conosci solo te...”; “...emmò chi ssei annato a pescà...” e così via.
E magari, giusto per fare una chiosa, MUZ, che a me non faceva impazzire come rivista ma era un bene che ci fosse IN OGNI CASO perché tentava di fare informazione (che è come dire Science-fiction), ha chiuso proprio per questo. Da una parte il bolso qualunquismo corrente, abbuffato di MTV-RDS-FESTIVALBAR e sodali; dall’altra la “puzzettosa” competenza incompetente di chi, perché ha mille dischi, pensa di capirci qualcosa, ne hanno decretato il fallimento. I dischi non solo vanno ascoltati ma anche SAPUTI ascoltare, che è un surplus non sempre scontato e va da sé che di gente piena di titoli che non capisce una minchia comunque ne abbiamo esperienza giornaliera: avete presente Radio-Rock? Non vi fanno incazzare anche più del signor Vincenzo Mollica (che, in fondo, è solo un fedele dipendente RAI e non s’atteggia da messia) quelli che pontificano da sopra la loro costosa collezione di vinile?
Sarà per questo che del povero Rob Lind non frega un cazzo a nessuno.
Se il diavolo è davvero nei dettagli come dicono, Rob Lind, un dettaglio trascurato (e forse trascurabile), della storia della rockarolla, ha il pregio sicuro di aver soffiato quanto di diabolico ci fosse da soffiare in quella cazzo di ancia e in quella cazzo di storia e tanto basta per provare a ricordarlo.
Il resto è oblio. Giustizia è fatta. Ora avete un altro nome da ricordare che non serve a un cazzo se non ad arricchire il vostro scrauso bagaglio critico e ad indicarvi una strada in cui il dettaglio è, sì, patrimonio del maligno, ma terribilmente attraente.

20 giugno 2007

39° sagra del cavillo

Ok, allora cavilliamo.

Prima di tutto è un po' antipatico che questo blog venga commentato in questo modo. Non me ne vogliamo né J* né A.H. né chiunque altro si è sentito in diritto di puntualizzare cose che però con l’argomento principale di questo blog hanno poco o punto a che fare (e perdonate la mia presunzione se voglio essere preso sul serio). Mi pare sia chiaro che quello che vorrei fare è creare un minimo di dibattito sugli ARGOMENTI, sui CONTENUTI, sul PERCHÉ IO STO QUA A SCRIVERE CON QUESTO CALDO INVECE DI ANDARE A FARE UN’ALTRA DOCCIA. Ok?
I commenti sul potere di acquisto di 3 euro e novanta centesimi, o quant’altro, sono MARGINALI E INNECESSARI. Scaricatevi stumbleupon e divertitevi, o altrimenti mettetevi d’impegno e cercate di capire il SIGNIFICATO GENERALE delle cinque righe di premessa che ho dato all’ultimo pezzo messo online. O a qualsiasi altra cosa. E ringraziamo iddio che i dati immessi su internet non si paghino a tanto ar chilo, altrimenti siamo tutti rovinati.

Detto questo, entriamo nel vivo, sebbene con un’altra premessa: io non so ESATTAMENTE consapevolezza del perché MUZ abbia chiuso. Non sta a me saperlo, non sta a me discuterne, non sta a me nemmeno venirvelo a raccontare, perché questa rivista (come tutte) ha un editore, un direttore e uno staff: e i cazzi loro sono loro (e appunto: loro). Secondo: ci sono delle dinamiche economiche complesse. Aprire una rivista non è facile, e chiuderla lo è ancora meno. Non pensate che sia sufficiente dire Basta per mandare tutti a ramengo: c’è gente da mandare a casa, aspettative da deludere, spiegazioni da dare (spiegazioni e non giustificazioni, ma di questo ne parliamo dopo) e un gran rodimento di culo perché quando si apre una rivista è perché c’è un’intenzione e un’ispirazione dietro. Ci sono indagini di mercato, ore di lavoro spese, SOLDI – anche quelli – spesi (e tanti) e in definitiva se uno si vuole divertire c’è il sudoku. NON l’editoria.
Di certo, è ingenuo dire che una rivista chiuda esclusivamente perché mancano i lettori. I lettori c’erano, c’erano; ma c’era naturalmente anche la voglia di farli AUMENTARE, questi cazzo di lettori – che per inciso hanno portato la rivista a triplicare il numero di pagine nel giro di UN ANNO E MEZZO. Ovvio, uno fa un investimento che deve riassorbire: una rivista non diventa il triplo di se stessa restando allo stesso prezzo (che all’inizio era di due miserrimi euri – e sì: anche un euro ha un potere d’acquisto diverso dai cinque, sempre per evitare altre ondate di cavilli). in più, quell’uno che fa l’investimento può anche decidere di rendere questa rivista più bella, impaginata meglio, una rivista da collezione perché l’idea di fondo dietro questa rivista, era quella di fare una cosa DIVERSA dalla media della stampa musicale italiana. E adesso è il momento di fare un discorso apparte.

In Italia, le riviste musicali si aprono e si chiudono come fanno le massaie con le finestre. Questo perché il pubblico è poco attento, è poco competente (in Italia mediamente non sappiamo un cazzo di musica ma ne parliamo tra un secondo), gliene frega poco di seguire gli ambienti musicali e il livello è mediamente basso, spesso e volentieri fatto di meri sbrodolamenti autoerotici o tutt’al più di agiografie dovute o alla venerazione (nella migliore delle ipotesi) o al meretricio (e ci siamo capiti). Insomma, l’informazione è pochissima, e la poca che c’è in giro è anche di minimo valore.
[Onde evitare altre ondate di cavilli che potrebbero farmi venire un certo languorino di censura da ora in poi: per “pubblico” intendo la maggioranza dei lettori della stampa, quella che fa muovere i soldi. Per “ambienti musicali” intendo le scene che non sono sotto gli occhi di tutti normalmente – quello che non va in televisione, insomma. Per tutti gli altri lemmi, c’è il DeMauro online]
In più, internet ci ha viziati. Una rivista musicale, oggi, deve adeguarsi alle diverse modalità di lettura che la rete ha creato, come hanno fatto i quotidiani con l’avvento della televisione. Non più spiccia informazione – le notizie vanno e vengono in continuazione e un mensile NON PUÒ stare appresso a tutte le cose che accadono nel suo periodo di pubblicazione: e poi non mi serve davvero spendere soldi per sapere semplicemente cosa sta succedendo, quando MyYahoo mi spara in RSS le notizie in tempo reale, no? Qual è la chiave, allora? La chiave è l’approfondimento. Ed è qui che arrivano i cazzi.

Già perché buona parte dell’approfondimento della stampa musicale si dedica esclusivamente all’intervista o a un pezzo di media lunghezza, e puramente biografico/descrittivo, su un gruppo/musicista come veicolo promozionale a un avvenimento (nuova tournée, nuovo disco). Un’altra delle tante marchette, insomma, che ammanettano le redazioni al ricatto delle case discografiche (un ricatto molto semplice: Parla bene del mio artista o ti taglio copie promozionali e pubblicità), così come hanno già ammanettato le radio che fondamentalmente trasmettono gli stessi 40 singoli a ripetizione (e le cosiddette emittenti alternative non fanno differenza, quando non sono direttamente in mano a deficienti e ai loro pessimi gusti). Un’altra freccia in meno nella faretra della stampa musicale italiana: perché leggere solo recensioni/marchetta quando i blog (che si basano sul materiale procurato “alternativamente”, diciamo così) possono stroncare tranquillamente e mettermi in guardia dalle sole? E siamo daccapo a dodici.

Ti dico io com’è andata: MUZ voleva essere una rivista che dedicava spazio a gente non necessariamente per copertura promozionale; un esempio: due degli ultimissimi numeri dedicavano la copertina e la cover story a David Bowie e a Joni Mitchell perché è un ottimo spunto prendere un compleanno per parlare di qualcuno senza per forza sottolineare l’occasione contingente. Non ho idea di chi altro abbia fatto o farebbe una cosa del genere. Per Bowie forse pure pure, ma per Joni Mitchell decisamente NO. Ancora: l’ultimo numero di MUZ era dedicato a un sondaggio sulla più bella canzone italiana, che è un argomento sempre molto controverso, visto che buona parte delle penne è sempre pronta a saltare su carrozzoni revivalisti del Ma non era poi così male, sebbene con la stessa profondità di vedute di una pischelletta che si prova diverse montature di occhiali. Infine: MUZ era una rivista con POCHISSIMA pubblicità. E tra questa POCHISSIMA pubblicità, ancora MENO vi era la pubblicità delle case discografiche, proprio perché voleva sottrarsi alla dinamica di ritorisione delle major (o di chiunque, dai; e il prossimo che si lamenta perché l’Espresso ha il 30% minimo di foliazione dedicata alla pubblicità farebbe bene a venirmelo a dire DI PERSONA).
In definitiva, l’idea dietro MUZ era quella di fare della CRITICA, che è una cosa che in pochi - pochissimi? NESSUNO? – si sono azzardati a fare in Italia. Prendi della gente che conosce la musica profondamente, che l’ha studiata, che l’ha ascoltata E analizzata, togli tutto l’apparato masturbatorio del giornalismo indie e hai dei discorsi semplici, efficaci e – perdio – SERI. Non insomma, l’approfondimento gossiparo a cui siamo abituati, non la retrospettiva “in occasione della nuova uscita”, non l’intervista/marchetta. Una roba “a buffo”, esattamente come questo blog. Un tentativo di parlare di cose buone e di trasmetterle alla gente. Troppo fessi, dite?

Allora ti dico io com’è andata. In Italia, noi non abbiamo educazione musicale. Da queste parti ancora siamo del parere che i musicisti (categoria che idealmente non esiste in Italia, dove preferiamo parlare di “cantanti”) siano come i calciatori, gente che vuole fare la bella vita e un mucchio di soldi divertendosi e senza fare un VERO lavoro: si affida al Magico Produttore (spesso un maneggione della peggior specie) e voilà: è in televisione (almeno per qualche minuto).
In culo – tutto questo – alla gente che come me suda, si sbatte e si spacca la schiena e i denti (letteralmente) per mandare avanti un progetto onesto, non mediato dai grassi e crassi pappa dell’industria della Gloriosa Canzone Italiana – che San Remo protettore l’abbia in gloria e magari la chiami a sé nel Regno dei Cieli.
Di conseguenza, la musica è relegata nelle pagine degli “Spettacoli” dei quotidiani, senza un approfondimento valido, senza uno straccio di indotto critico, culturale e – va da sé - economico a supporto. La musica diventa un contorno, un contenitore al cui interno c’è il vero prodotto, che è poi ciò che viene realmente veicolato dal cannibale mercato discografico italiano.
In più, le riviste italiane non parlano mai di MUSICA (Generi? Linguaggi? Tecniche espressive? Sociologia della musica? Etichette?) ma di PERSONAGGI: non c’è musica intesa in senso generale, c’è solo musica che serve a smerciare l’immagine di qualcuno (spesso e volentieri sempre grazie all’intervento del Magico Produttore di cui sopra). Anche in ambito underground, il che è ancora più scandaloso. Un esempio: sappiamo TUTTO della depressione di Jacob Bannon e delle sue abitudini alimentari, ma non sappiamo nulla di COME questa depressione aiuti la musica dei Converge ad essere quella che è o – ma questa è davvero ambizione – come e se la musica dei Converge si inserisca in una corrente valida, strutturata, o destinata a durare.

Fare critica musicale seria (attenzione: critica musicale NON-colta, che di studi rossiniani e verdiani ne abbiamo a enciclopedie intere; e NON-jazz, che si rivolge a un pubblico fedele, serio e cazzo: COMPETENTE) in Italia significa andare a mettere le mani nel fuoco: la gente (vedi sopra alla voce “pubblico” cosa intendo anche per “gente”) non ne vuole sapere, di leggere di testi, linguaggi musicali, sociologia e politica musicale e così via. La gente è abituata alle programmazioni di musica “leggera”, a Tricarico, alla superficialità. La gente vuole le SUONERIE, il tormentone dell’estate (il pettoruto sito di Repubblica invitava i suoi utenti a scegliere il loro già a fine aprile) e qualcosa da cantare sotto la doccia. Tutto il resto è noia (non a caso).
In Italia, gente come Adriano Celentano può andare in televisione e dire di aver inventato il rap (e nessuno gli dice un cazzo).
In Italia, gente come Zucchero può dire in giro di essere un bluesman (e nessuno gli dice un cazzo).
In Italia, gente come il dottorVascoRossi (laurea honoris causa) finisce per essere un messia della rock music (e figuratevi se a VascoRossi qualcuno gli dice un cazzo: adesso è anche amico della stradale, quindi occhio che vi fa venire a pescare a casa).
In Italia, il sito di un grosso network radiofonico pubblica un articolo sui Rolling Stones con una foto di un gruppo che NON È i Rolling Stones, e linka l’articolo alla RIVISTA Rolling Stone, non al sito dei Rolling Stones (indovinate se qualcuno gli ha detto un cazzo, o se si è direttamente accorto di qualcosa).
In Italia, se qualcuno si azzarda a far notare gli errori madornali alle persone che dovrebbero essere “esperte” in materia (in altre parole, a dire le cose come stanno) non viene nemmeno tacciato di apostasia (magari), o di antipatriottismo (magari): viene semplicernente liquidato come uno a cui “nun je sta bene un cazzo”, alla fine è un po’ tutto uguale (ve l’avevo detto che il livello era bassissimo).

In un ambiente del genere, una rivista come MUZ era quindi una scommessa estremamente azzardata. Ricapitoliamo:
- Argomenti impopolari INSIEME ad argomenti popolari. Un bagno di sangue: scontentare sia il lettore medio di Blow Up con la puzza sotto il naso – quello a cui un disco che vende più di 2000 copie fa cacare PER PRINCIPIO, quello che c’ha più righe lui nell’armadio che l’Auchan al reparto cancelleria – che il lettore medio di XL che non sa e forse non vuole sapere chi cazzo è Tom Waits;
- Niente pubblicità – e niente marchette di conseguenza: nessuno che vi dirà che il disco nuovo dei White Stripes è una ROTTURA DI COGLIONI, dopo che ci hanno regalato il Tormentone dell’Italia Campione.
- Argomenti che il popolino non esiterebbe a definire “pallosi” (ovvero: CHI CAZZO È Joni Mitchell?)
Se in più la togli dalle edicole (e cara, solerte, commentatrice: si dà il caso che io SO che a un certo punto MUZ è uscita dalle edicole – questa è del resto la differenza tra me che ci stavo dentro e te che avevi una mattinata da perdere) corri ulteriormente il rischio di andare a gambe all’aria, rischio che consta nel chiedere a una già sparutissima cerchia di aficionados di diventare ANCORA più tenaci nell’andarsela a cercare. Puoi vincere o puoi perdere. Indovina cos’è successo.

Ancora:
La critica è l’analisi di una situazione recente ma non immanente. Non è più cronaca – perché non si limita a narrare gli eventi senza assumere una posizione critica, appunto. Non è ancora storia, però – perché non c’è la distanza obiettiva necessaria a valutare un evento all’interno di un contesto generale, macroscopico. Compito della critica è quello di commentare un evento, un movimento, una situazione, un fatto (di qualsiasi tipo). Questa è teoria storiografica, che ricordo ancora a memoria dai tempi dell’università, sempre perché non sono molto avvezzo a dire cagate. Ci siamo?
Ora. Chi scrive un pezzo che abbia la pretesa (o i requisiti) di essere “critico”, porta IN SÉ le premesse di un possibile riposizionamento di vedute, alla luce di successivi sviluppi, cambiamenti, o revisioni. Questo accade in qualsiasi ambito e in qualsiasi campo della valutazione umana – senza contare il fatto che nessuno ha o pretende di avere la verità in tasca, a meno che non sia qualche trombone che senti parlare di musica alla RAI o sulle grandi testate.
Al contrario, la critica DEVE cambiare idea se cambiano i contesti storici, sociali, culturali e linguistici per valutare un fatto o un contesto. Del resto, chiunque affronti una lettura che esprime un parere sa bene che quel parere è dettato da una quantità pressoché infinita di variabili soggettive (tra cui anche la possibilità di un errore di valutazione, diciamolo).
Che si possa quindi cambiare idea su un articolo non solo è possibile, ma sacrosanto e legittimo. Che si possa cambiare idea su TUTTO – espresso come opinione – è sacrosanto e legittimo.
In altre parole, chiedi a David Geffen cosa ne pensa oggi, della decisione di pubblicare Nevermind su un’etichetta secondaria e a bassissima tiratura, dopo aver previsto un disastro econonico, scarsissime vendite, e per evitare che la sua cattiva pubblicità ricadesse sul suo marchio principale.

TUTTO QUESTO per mera chiarificazione, e senza dimenticare che io non ho il MINIMO bisogno di “giustificare” la chiusura di una rivista musicale. Secondo uso diffuso e comune, ti ricordo, la parola “giustificazione” si associa alla riparazione di una colpevolezza o di una mancanza che io francamente non vedo (sempre perché stiamo cavillando, ci mancherebbe altro).
Al contrario, trovo piuttosto poco credibile intraprendere la lettura di QUALSIASI tipo di testo basato sull’opinione – da MUZ a Heidegger – se si considerano effimere, inconsistenti e posticce (o se si ignorano tout court) le basi su cui si fonda. In più, trovo addirittura ridicolo, quando non irritante, mettersi a “cavillare” – per continuare a usare un termine ormai caro a questo blog – su questioni che definire marginali è quantomeno generoso.
Contenuti, allora: dibattito. Adoro essere “abilmente smontato”, a patto che mi si arricchisca, o che si arricchisca un qualsiasi tipo di discorso. Ma discorso sulla sostanza, sulle idee, sulle opinioni. E PER CORTESIA, avvalorato da FATTI.

In alternativa, ecco da dove potete scaricare StumbleUpon per Mozilla Firefox:
https://addons.mozilla.org/it/firefox/addon/138

...e ci mancherebbe, senza offesa.

17 giugno 2007

sono sempre i migliori che se ne vanno.

Questo è il primo pezzo che ho scritto per Muz, una rivista bella ma sfigata che ha chiuso poco dopo che arrivassi io. era bella, funzionava bene ma costava quasi cinque euro e NON si trovava in edicola. di conseguenza immagino che non vi siate scapicollati da feltrinelli soldi in bocca per procurarvene una copia.
Quello che volevo fare è cercare di rendere uno spaccato vivo dell'underground italiano - e romano in generale - dato che ho sempre avuto l'idea che noi non abbiamo niente da invidiare a Orange County o - se è per questo - a Washington DC.
Poi però ho cambiato idea.

Il pezzo è stato pubblicato a gennaio 2007.

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“Il successo è il solo infallibile criterio di saggezza per le menti volgari”
(E. Burke, 1729-1797)

Beh, no: se pensate che qui ci mettiamo a fare i critici snob, mi sa che vi state sbagliando di grosso. Nel senso che non è che stiamo qua a contare le copie vendute da un disco e valutare in maniera inversamente proporzionale il loro spessore musicale. Magari queste cose le facciamo fare a qualcun altro, ché a noi vabé che ci piacciono i Mastodon e i Dillinger Escape Plan (sì, qui tendiamo a parlare di musica un pochino violenta), ma ci piacciono anche i Beatles, che insomma, proprio di nicchia non sono mai stati, dall’alto delle carrettate di dischi che hanno snocciolato e venduto.
Però il successo – e questo l’ha detto Edmund Burke, statista e pensatore irlandese, per cui prendetevela con lui (anche se è morto 209 anni fa, ha-ha) – è effettivamente un criterio un po’ troppo sopravvalutato, negli ultimi due/tre decenni. È vero che Elvis ha un po’ cambiato sul nascere le regole della rock and roll music ancora in fasce, ma c’è uno spettro che si aggira per il mondo, e il suo nome è comun... “underground”! Il suo nome è “underground”.
La scommessa proposta (dall’insigne Martorella a me, e da me a voi, se avete la pazienza di seguirmi) è di segnalarvi e parlarvi delle centinaia di band che in Italia vivono, prosperano – e vendono, credetemi – senza che voi ne abbiate avuto mai idea, finora. Macinano i chilometri in perfetto spirito ultrà per andare a suonare in squat puzzolenti senza uno straccio di impianto, prendono scarpate in faccia perché quello è lo bello stilo de lo arde core e se sono stati particolarmente fortunati dormono in furgone con una piotta (leggi: 100 euro) in tasca.
E tutto per la gloria, signori, che qua sotto, sotto la superficie dorata e corrusca che MTV stende sotto gli occhi di milioni di persone; qua in cantina, insomma, ci crediamo ancora, alla passione e alla gloria.
Eppure, non va pensato che questo ambiente sia popolato e sostenuto da sprovveduti o da cani sciolti e disorganizzati. Grazie al cielo internet e le comunicazioni di massa non hanno permesso solo il proliferare di rave magnacervello o flash mob situazionisti e un po’ bislacchi. C’è un mondo che ha iniziato a proliferare sotto il pelo dell’acqua, proprio come quello che il santissimo Claudio Capone e la sua santissima voce (che Dio lo benedica nei secoli) illustra nei documentari delle tre di notte. Un mondo che è fatto di ottime band, di un nutrito pubblico, e uno sparuto e agguerrito manipolo di etichette, agenzie di booking, grafici e gestori di locali che danno loro il supporto necessario. Trait d’union? L’abbiamo testé detto: la passione e la gloria.
Del resto, di passione bisogna averne tanta, per sfidare il pubblico infingardo e la congiuntura perenne e le intemperie penetranti e i cavi rotti e le platee ostili e i tempi stretti. Qui, del resto, parliamo di apparati entusiasti, non di apparati professionali.
Già, perché nonostante Elvis abbia certamente cambiato sul nascere le regole della rock and roll music, grazie al cielo non si è scrollato di dosso l’odore di umido degli scantinati e delle sale prova improvvisate, o almeno finché non ha voluto trasformarsi nel Carro di Viareggio di se stesso, insomma. Ed è questo odore – il vero odor di santità della roccarolla – che si è tramandato fino ai giorni nostri, sincero e inequivocabile come un cazzotto dato per benino, e qui torniamo a casa.
Vabbè, ma di che stiamo parlando? Di questo: in Italia, oggi, ci sono almeno una decina di band che stanno facendo parlare di sé l’Europa. L’Europa che ascolta, chiaro, non quella che sta davanti alla televisione a ingoiare qualsiasi cosa. L’Europa che cerca la musica, che scopre ed è curiosa. Alcuni di loro i confini del Vecchio Continente l’hanno anche sorpassato, e da tempo. E con dignità. Insomma: un amico mio, per dire, è stato a New York di recente e ha visto in un negozio il disco di uno di questi gruppi: questi sono segnali, e pure piuttosto precisi.
E allora ecco la scommessa: sollevare il masso e decifrare il mondo che c’è sotto.
Attenzione: diciamo “sotto”, e non a caso. Tant’è che parrebbe essere giunto il momento del Primo Disclaimer (non sappiamo se ce ne saranno altri, ma è verosimile): underground, o indipendente, non è emergente.
Emergente è ciò che è destinato a uscire allo scoperto, ciò che va in superficie, ciò che si rende evidente a tutti. Non ci siamo, non è di questo che stiamo parlando.
Emergente? Emergente è il MEI, il mondo fatato di ambiziosi cantautori o intraprendenti discografici che scalpitano come Puffi al pensiero che questa gavetta nella semioscurità a cui sono confinati è solo un passaggio, prima delle folle adoranti, prima delle bave sui finestrini e delle ragazzine paonazze che ci mostra MTV (a proposito, sondaggio: sembrano inquietanti anche a voi?). Emergente è chi aspira a diventare “cantante famoso” perché lo crede possibile, o magari perché la sua stessa musica lo permette.
Questo è tutto un altro ambiente, invece: un ambiente fatto di dedizione, di costanza. Forse un po’ palloso (sempre molto meno di quanto non possa sembrare), forse quasi religioso nel suo rispetto, nella sua etica più o meno rigida. Ma alla fine si tratta di un moto dello spirito (pensate quanto ne sarebbe stato contento Sant’Agostino, se solo fosse stato ancora vivo...), e come tale è sempre genuino, almeno visto da qui.
Anche lontano dai riflettori, anche lontano dalle grandi attenzioni. Poi aoh, se non vi va di starci a sentire non è che ve l’ha prescritto il dottore...



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niente

6 giugno 2007

cosa sono i milioni quando in cambio ti danno le scarpe

Perciò salta fuori che nella sventura (anche se non è stato del tutto così) il Cuoco è stato fortunato. La sventura si intende: avere il computer sfondato, l’accesso a internet limitato, e la musica dentro bloccata.
Un paio di giorni fare ho dovuto deframmentare l’hard disk dove metto i miei mp3 (per le forze dell’ordine: non vi allarmate, sono tutti tratti da copie originali che custodisco gelosamente in una botola segreta di casa mia), e dato che dei suoi 70 Gigabyte avevo risparmiato solo il 2%, ho dovuto fare spazio, altrimenti la deframmentazione non avrebbe potuto svolgersi correttamente (il che a rigor di logica potrebbe non essere la solita stronzata che mi dice Windows, dato che effettivamente lo spazio fisico dove mettere la roba serve), e di conseguenza avrei poi provveduto io a frammentare il mio computer, magari con una pesante sedia o con altri oggetti contundenti (ho iniziato a un certo punto a guardare con la brama negli occhi la Tartaruga Ninja che troneggia accanto al monitor). Insomma, la morale della favola è che ho dovuto liberare circa 8 giga di mp3, e vi assicuro che non è stato facile.

Già perché una delle più grandi piaghe dell’era dell’informazione e di internet veloce è proprio il motivo per cui internet veloce è nato, cioè avere a disposizione il MAGGIOR NUMERO di dati nel MINOR TEMPO possibile.
Quando avevo il 56k a casa dei miei genitori, avevo WinMX. Il primo pezzo che scaricai fu Staralfur, dei Sigur Ros. Lo scaricai perché non ne potevo più di sentir parlare bene di questi Sigur Ros e io ero ansioso di unirmi al coro o di distaccarmene (uno dei miei sport preferiti tra l’altro). Se avete familiarità con questo brano (e se non ce l’avete non continuate a leggere questo post: piuttosto, andate a guardarvi le sise sul sito del Corriere) ricorderete che è piuttosto lungo, almeno rispetto alla media delle canzoni pop. Il risultato è che ci misi circa una settimana per tirarlo giù da internet (per le forze dell’ordine: era uno sfizio, avevo naturalmente il disco originale), e quando fu finalmente completo godetti come un maiale selvatico – non solo per la qualità del brano, che è eccelsa, ma anche per la portata dell’impresa, a quei tempi per me inedita e titanica.
Ma è arrivato il momento del disclaimer.

Questo non è un post revivalista. Sono d’accordo con Frank Zappa per cui “il mondo non dovrà necessariamente finire con una catastrofe. Ci sono altre possibilità, come la burocrazia, o il revival”.
Ieri preparavo la peggiore carbonara della storia e ascoltavo due tizi su Radio 105 (cucinare è l’unico modo possibile per ascoltare la radio, ma ne parliamo un’altra volta) che intessevano le lodi del Commodore 64 e del suo fascino e delle quantità di tempo oceaniche che servivano a caricare un gioco con la cassettina (gioco che spesso e volentieri NON si caricava sprecando un pomeriggio intero).
Allora ve lo spiego con calma. Ok, vorremmo tutti tornare bambini, vorremmo tutti ritrovare l’età dell’innocenza (o l’innocenza stessa), siamo tutti affascinati dai ricordi e dal passato MA il Commodore 64 faceva cagare perché era un cassonetto color nocciola a cui era perfettamente IMPOSSIBILE impartire dei comandi e di conseguenza era INUTILE al divertimento che prometteva. Certo, ha insegnato lo stoicismo e mostrato la dura faccia della vita a molti di noi quando ancora eravamo illusi e nani, ma fondamentalmente parlando era veramente una merda. L’Amiga 500, ecco: quello spaccava il culo. Inserivi il dischetto e funzionava. Il Commodore 64 no. Mettevi la cassetta e non funzionava: roba da chiedere indietro i soldi.
DI CONSEGUENZA: il 56k era una merda – per lo stesso motivo – e l’ADSL è bello, perché serve allo scopo per cui è stato inventato. Non ho nessuna intenzione di piangere di nostalgia sui modem a forma di cornetta, non ho nessuna intenzione di piangere sui dischetti morbidi, non ho nessuna intenzione di glorificare cose che facevano oggettivamente rate solo perché si situano nella mia infanzia-protoadolescenza.

Detto questo, di cosa stiamo parlando. Stiamo parlando del fatto che la possibilità di accesso che internet permette è un assedio, una spinta costante dall’esterno. Ci sono milioni di motivi per cui procurarsi (per le forze dell’ordine: procurarsi e non scaricarsi, eh? Io sto attento al linguaggio) un disco, e qui torna in ballo il santo e santo e santo Calvino. Se avete presente Se una notte d’inverno un viaggiatore (se non ce l’avete presente vale sempre l’invito di cui sopra) sapete che ci sono tanti tanti motivi per cui un lettore legge un libro. L’ascoltatore non fa affatto differenza, ma al contrario: è persino aiutato dal fatto che ascoltare un disco è meno impegnativo, richiede meno tempo – e spesso anche meno impegno intellettivo – che leggere un libro. Di conseguenza, l’ascoltatore (ma attenzione: non quello casuale, ma quello cosciente, l’ascoltatore che fa dell’ascoltare praticamente un lavoro a tempo pieno) tende ad essere ossessivo-compulsivo, e ad essere animato da un certo delirio di onnipotenza, per cui Bisogna ascoltare TUTTO. Bene. Grazie Calvino, ancora una volta.
Io sono ossessivo-compulsivo, lo ammetto, ma c’è da ammettere anche che sono in buona compagnia. E di conseguenza sposo su tutta la linea la serie di motivi che spingono qualcuno (me) a procurarsi un disco. Ci sono i dischi che non puoi non aver ascoltato, ci sono i dischi di cui hai sentito parlare, ci sono i dischi di cui hai letto e sei curioso, ci sono i dischi che ti piovono semplicemente addosso, i dischi che ti consiglia un amico che a dritta o a storta qualcosa che tu non hai ce l’ha, ci sono i dischi che ti sono sempre piaciuti, ci sono i dischi in cui suona qualcuno che suonava in un disco che ti piaceva (perché poi bisogna anche dire che questi stronzi musicisti non è che si stanno mai con le mani in mano, no: loro migrano, sciamano, e noi dobbiamo seguirli, cazzo, altrimenti che ascoltatori siamo?), ci sono i dischi che hanno fatto la storia, ci sono i dischi che spaccano, i dischi importanti, i dischi seminali, i dischi di quell’etichetta che finora non ne ha sbagliata una, i dischi di cui adesso stanno parlando tutti, i dischi che la stampa sostiene che, e poi ci sono i dischi che piacciono alla tua pischella e vuoi capire perché, i dischi che ascoltavi quando eri pischello e i dischi – perché no? – che ascoltava TUO PADRE quando era pischello (se era di buoni gusti, altrimenti cazzi amari).
Sono centinaia, sono migliaia, di dischi. E non va trascurato che ognuno di questi dischi è stato influenzato, provocato, generato da altri dischi, fino a racchiudere in un enorme rete la discografia totale globale. E attenzione: sto tralasciando un milione di categorie, almeno (tipo i dischi dei gruppi che girano nella tua scena, i dischi dei gruppi che vogliono suonare con te, e poi i dischi che ascolta il tuo vicino su last.fm. (E ancora, questa gente fonda etichette, collabora, pubblica compilation o selezioni che VANNO ascoltate, c’è da diventare scemi, credetemi).
Internet permette questo accesso, che è potenzialmente infinito e continuamente rinnovabile. Puoi prendere tutto quello che vuoi, ascoltarlo, soppesarlo, giudicarlo e inserirlo in una griglia qualsiasi – secondo il momento storico, il filone, il genere, il gusto e così via. Noi siamo IMPOTENTI davanti a quest’assedio, tant’è che la banda è sempre occupata e lo spazio non basta mai e le bestemmie volano come schegge. Noi ci documentiamo, noi vogliamo sapere, noi vogliamo aver ascoltato, valutato, appreso. Curioso che questa fame non si plachi mai, curioso che vada di pari passo e si amplifichi con il sempre crescente mercato e la sempre più vasta proposta discografica (mai visti tanti gruppi SCONOSCIUTI nelle collezioni della gente prima di Myspace, e mai visti tanti gruppi fare un disco solo e poi levarsi dal cazzo, com’era del resto programmato).
Curioso, almeno quanto è curioso sentirsi dire dopo tutto questo Aoh, ma non ti piace proprio un cazzo, quando si ascolta RadioRock in macchina con qualche amico/a, ma questo è un altro discorso.

Ma cosa succede, allora, quando invece di incamerare materiale occorre liberarsene? Cosa succede quando il tuo pc si è trasformato in un catorcio e non hai UN file UNO integro nel disco rigido? Tocca cancellare.
Ho pianto per ognuno dei dischi che ho eliminato dalla mia collezione di iTunes. Perfino quelli degli emofroci a cui volevo dare una seconda (o terza o quarta: sono magnanimo) possibilità, perfino quelli di gruppi metalcore talmente derivativi che possono essere apprezzati solo se commercializzati come outtakes di Slaughter of the soul, perfino quelli di questi nuovi gruppi stronzi con i nomi da festa che hanno più righe nell’armadio che capelli in testa – a proposito, appena possibile facciamo due chiacchiere anche sui death from above 1979 –, perfino quelli di questi matti giapponesi che fanno musica distorcendo i suoni dei giocattoli fino a farli diventare rantoli del pianeta che va a puttane (e su questo non ci piove). Ho cancellato i dischi che so che non avrei ascoltato mai, i dischi che proprio non facevano per me (ho scoperto di avere ben quattro dischi di Elton John in playlist, e adesso SO cosa significa essere inaffidabili a se stessi), i dischi che tanto mi basta allungare una mano e infilarli nel lettore e vaffanculo. È stato difficile ma ce l’ho fatta.

E curiosamente, ho scoperto che lavorare di cesoie è bello. Soprattutto quando si inizia a pensare che i propri ascolti stiano diventando indifferenziati e che l’unica cosa che basti a un disco per finire nella propria collezione sia la sua disponibilità o meno in un dato momento. È stato bello cancellare la musica che effettivamente non volevo, operare una selezione, sentire di concedersi solo il meglio o quello che più faceva al caso mio.
Per dirne una, e sfiorare l’argomento al volo, è stato bello sbarazzarsi di Death From Above 1979, o Panic! At The Disco, o The Horrors, o Blood Brothers, perché è stato – e io ci credo a queste cose – il mio NO personale ai gruppi che vendono solo sulla scia dell’hype che è stato creato intorno a loro (e se mi venite a dire che i Blood Brothers sono un gruppo valido poi mi dovrete DIMOSTRARE il perché, e in tal caso state pronti che vi rompo il culo). Niente mi toglie dalla testa che molti di questi gruppi in realtà non piacciono a nessuno, ma sono tanti carini e sono vestiti tanto bene e poi guarda che bei video.
Vedete? Brian Eno ci aveva visto giusto più di dieci anni fa (altro che Myspace, allora): alcuni gruppi sono come la pubblicità delle macchine. Non vedrete più pubblicità di macchine che pubblicizzano le prestazioni o le cose che una macchina FA. Lo sappiamo benissimo che una macchina serve a spostarcisi dentro: quello che la massa vuole quando sceglie un prodotto è uno stile di vita, è un sentirsi i più fighi del bigonzo all’interno di un determinato contesto socio-culturale che li riconosce e giustifica.
E allora siccome ci tengo, io, alla musica, di questi fantocci non so proprio che farmene. Quindi via, cancellare. Tanto le righine mi ingrassano.



playlist>
rapoon: cerulean
kristin hersh: sugar baby
ensemble modern (frank zappa): uncle meat
tom waits: jesus gonna be here
johnny mathis: an open fire
thee silver mt. zion memorial orchestra and tra-la-la band: ring them bells (freedom has come and gone)
napalm death: moral crusade
the hold steady: most people are djs
the beatles: ask me why
bob dylan: absolutely sweet marie
the clash: the right profile
the (international) noise conspiracy: armed love
mastodon: blood and thunder
billie holiday: i loves you porgy

2 giugno 2007

tre appunti tre fuori dai denti

Alcuni eventi mi hanno forzosamente tenuto lontano dalle pagine del blog per un bel pezzo.
Il computer ha tirato i remi in barca ed è stato dichiarato ufficialmente deceduto un paio di mesi fa;
prendere sette, dico, sette goal nella stessa serata ha fiaccato le mie riserve intellettuali e di buon senso lasciandomi a vagare per le vie della mia città come un orangutan con le mutande; ho incontrato una straordinaria creatura di sesso opposto al mio...
Il paradosso dei paradossi è che in tutto questo tempo non ho mai veramente pensato a quello di cui avrei scritto quando sarei tornato sul blog. E così sono tornato totalmente impreparato. “Ma a noi che ce ne cale?”, direte voi, ed io non posso darvi torto ma il punto è che ho registrato un disinteresse per la “Musica parlata”, che non è il Rap, bensì quello che si dice intorno alla musica stessa. Ad un certo punto ho lasciato che a prendermi fossero solo le emozioni, senza applicare il vaglio della razionalità, senza applicare categorie. Alla fine della fiera mi ritrovo soltanto con domande senza risposta, due o tre cosine che ho capito e poca sugna.
Una domanda potrebbe vertere sul collegamento possibile tra il guasto del mio computer e il mio improvviso allontanamento dalla musica parlata, ma credo sia una forzatura.
Voglio dire, io non leggo molto di musica su internet, più che altro mi nutro di carta stampata (che spesso si rivela urticante), dunque non è ipotizzabile un ruolo del computer nel mio fruire di recensioni, articoli e quant’altro.
Il pirtupir permette di scaricare discografie intere ma è già fruizione, non musica parlata e smettere, per qualche tempo, di scaricare musica ha i suoi risvolti benefici: puoi ascoltare centinaia di cose rimaste inevase.
Così, manzo manzo, vengo a contatto con una serie di cose nuove e ricontattato da alcune delle vecchie.

Vi faccio un esempio.
In questa città così piena di preti da aver perduto ogni diritto alla grazia divina autentica, ogni tanto qualche folle decide che SIAMO ANCHE NOI UNA METROPOLI EUROPEA! Ora, questo folle è uno che le cose le sa fare, ama le cose che amo io e così, pure lui manzo manzo, dopo aver preso una fregatura dai Real Kids, azzecca un terno al lotto e porta a Roma un gruppo di messicani avvolti nella leggenda del Punk californiano: gli Zeros.
In un raro momento di normalità culturale della capitale mi sono visto un concerto che andava visto e che volevo vedere. Perché a vederli salire sul palco conciati come banditi di un film western, coi volti cotti dal sole e i denti bianchi come perle, e ’ste chitarre rozze e rockarolla, e fare, tra le altre, LITTLE LATIN LUPE LOU come se niente fosse, davanti a un pubblico di romanazzi in giacche di pelle, canotte, tatuaggi, gonne corte e cappellini da baseball è sembrato, per un singolo momento, che questo presidio di preti e monache potesse essere anche qualche cosa d’altro.
Gli Zeros sono arrivati, hanno suonato da paura, se ne sono andati.
Dalla tomba sono usciti, nella tomba ritornati.
Così ho capito una cosa: se lasci un buon ricordo puoi ripresentarti sempre, anche come fantasma, l’importante è non tradire mai la persona cui ti stai palesando.
Una grande rock’n’roll band ha ben presente questa cosa, per questo si SFORZA di suonare bene, anche quando gli anni son passati ed è strano fare Punk dopo i quaranta.
Una grande rock’n’roll band, vi dirò di più, sa mantenere una DIGNITÀ nel fare questo.
Gli Zeros lo sanno fare. Altre band, di cui oggi, per misericordia, non farò il nome, invece, ti restituiscono solo la loro immagine del tempo, possibilmente peggiorata.
Tu hai tutti i loro dischi, sono anni che li aspetti e, quando arrivano, tutto quello che sanno darti con la musica è: “GUARDA QUANTO SIAMO ANCORA FATTONI!”...
Ma vaffanculo e suona!
Allora un’altra cosa che ho capito è che, anche se hai lasciato un buon ricordo, FORSE È MEGLIO FARLA QUALCHE PROVA!

Ho portato al termine un esperimento con la fine della stagione delle piogge (anche se a guardare come piove oggi si direbbe il contrario). Tutto è iniziato un uggioso giorno lavorativo. Fresco d’acquisto, il lettore cd portatile che uso in macchina, veniva caricato a The Jam: This is the modern world.
Lungo il tragitto verso il posto dove lavoro lo facevo suonare mentre, sotto un cielo plumbeo, schizzi di pioggia mi costringevano ad azionare i tergicristalli.
I Jam, contro ogni pronostico, CI STAVANO BENE. Quei brani tesi, veloci, pieni di jingle jangle e schitarrate, di coretti, di Soul al calor bianco, sferzavano la giornata di pioggia quanto la pioggia stessa sferzava quella giornata. E non si trattava di una sensazione di piacere per contrasto ma per assonanza, armonia. Lungo la via Appia nuova ho un’intuizione che condurrà all’esperimento sopracitato: I GRUPPI INGLESI, SUONANO SEMPRE BENE QUANDO PIOVE...
La teoria da dimostrare si è rivelata troppo ambiziosa. Per un attimo, nella mia testa, era balenato il pensiero che gli inglesi scrivessero canzoni con giornate di pioggia dentro, per quanta ne vedono cadere. Mi ero suggestionato al pensiero che quel modo di scrivere e suonare, meno sanguigno, meno semplicista, meno immediato dei colleghi oltre-Atlantico fosse un riflesso antropologico della meteorologia d’Albione. Nel tempo questa teoria mi si è incartata, però alla fine della fiera ho stilato una lista di roba inglese che, tempo permettendo, può farvi ottima compagnia:
The Jam “This is the modern world”
The Clash “London calling”
Elvis Costello & the Attractions “Get Happy”
The Kinks “The Kinks”
The Damned “The Black album”
È solo una top five, ma per ora può bastare. Provate a farci caso anche voi e, eventualmente, mettete un commento nel blog... tanto non vi rispondo.

Tra le nuove cose con le quali sono venuto a contatto recentemente c’è questo duo improbabile che si fa chiamare Death From Above 1979. Bel nome, per carità, ma sul loro You’re a woman, I’m a machine sono state spese parole grosse, troppo grosse.
Non saprei citare testualmente le recensioni che ho letto sul loro conto, né saprei ricordare i riferimenti fatti per dare un’idea di chi diavolo sono questi (somigliano a Tizio, a Caio...), per questo vi sorbirete i miei, di riferimenti.
Cosa non secondaria, il tenore del mio commento sarà sensibilmente diverso da quello delle recensioni lette.
Innanzitutto una cosa: l’entusiasmo:PERCHÉ?!?
Perché recensioni così entusiaste? Perché illudere il popolo (che prima o poi se ’ncazza...) annunciandogli grandi emozioni e divertimento?
Questo disco è talmente privo di elementi emozionanti che se sentite delle emozioni mentre lo ascoltate... SIETE DEI BUGIARDI!
Le categorie che scomoderei per definire i DEATH FROM ABOVE 1979 passano per pochi elementi probanti.
Hanno effettuato un’operazione scaltra: hanno proposto una versione low-fi dei FRANZ FERDINAND. Basso distorto e batteria furiosa un po’ wave un po’ boh. Vaghe reminiscenze Sabbathiane e quel nonsocché di Stoner su un impianto che strizza l’occhio alla dance music.
Attraente vero? Intrigante, quasi... Ma il risultato è scadente.
In questo disco non troverete groove se è quello che state cercando; non troverete melodie particolarmente accattivanti da canticchiare durante le abluzioni; non troverete un muro di suono spesso e fitto; non troverete calore danzereccio o la nostalgia dei ’50 tanto cara agli anni ’80.
Questo disco, francamente, è già un miracolo se vi fa incazzare: vuol dire che ha suscitato qualcosa in qualcuno. Ascoltarlo è stato noioso ed inutile: avrei fatto meglio a spazzare il pavimento della mia camera.
Trovare questo prodotto così privo di talento, contemporaneamente, così pompato dalla stampa non è stato meno spiacevole che ascoltarlo. Il solo pensare che “La Formula”, la pozione magica, anche solo perché tale, funzioni davvero, è la più grossa cazzata da apprendisti stregoni che i nostri recensori possono permettersi. Questo disco non ha nulla da darvi. La sua “Formula” non supporta una scrittura davvero interessante. Il fascino per questo suono cade vertiginosamente dopo il primo minuto di ogni canzone impedendoti di ascoltare i brani per intero. Questo perché, oltretutto, non è che ’sta misticanza malassortita di Q.O.T.S.A., Editors, dance in pessima salamoia gli sia proprio riuscita bene. La loro mancanza di credibilità mi fa dubitare della loro sincerità e, dunque, la seduta è definitivamente sciolta: I DEATH FROM ABOVE 1979 SONO BRUTTI (e i nostri recensori dei mitomani...). Non comprateli, non scaricateli, uscite a bervi un chinotto oppure ripassate l’intera discografia dei B-52’S, se volete. E diffidate gente, diffidate...
Sono tornato!
con osservanza, nuovamente vostro umile servo
il Cuoco.