27 febbraio 2011

Nascondere il figlio strano in cantina: il suono sotto il suono dei Cowboy Junkies.

E insomma così, di punto in bianco, il cane venne al cuoco e gli chiese di spiegare in tre parole perché è opportuno ascoltare i Cowboy Junkies.
E io ho pensato - Beh cane mio, magari “Opportuno” non è la parola più adatta, specie ora che per la regola della degenerazione esponenziale del relativismo culturale praticamente è diventato “Opportuno” ascoltare tutti e rintracciare in tutti una particella di genio, una scintilla di qualità…
Ma insomma, io sono il cuoco, un pre-moderno, uno che ha creduto nella “Politicità” delle proprie scelte musicali – salvo poi precipitare nella disperazione anni dopo, al momento di comprendere che tante delle filippiche in cui mi ero gettato anima e core giravano intorno a solenni cazzate preconcette – e dunque in omaggio ad un antico retaggio eccomi qua a spiegarvi PERCHÉ sarebbe giusto ascoltare i Cowboy Junkies e dargli almeno una possibilità.

Un po’ di psicologia.
I Cowboy Junkies sono canadesi, il loro digestivo per la musica sono stati Neil Young e il paesaggio canadese (che poi è la stessa cosa…) e questa è già un’indicazione.
Tra i loro ascolti si desume una passione per i Velvet Underground, Townes Van Zandt, Hank Williams e Bruce Springsteen, tanto per citare alcuni dei musicisti cui tributeranno la loro stima con almeno una cover. Questa è un’ulteriore indicazione.
C’è poi, ad integrazione e nutrimento, la solita messe senza tempo (e spesso senza nome) di american music del tempo che fu, da cui puoi spuntare a caso una Carter Family, un Johnny Cash piuttosto che un Robert Johnson per cominciare a definire il “Quadro Cowboy Junkies” un po’ più accuratamente che solo nei contorni: indicazioni aggiuntive.

Un po’ di storia.
Il loro primo lavoro è roba del 1986. Il contesto americano è fin troppo clemente verso questi figli della grassa terra del nord. Diciamoci la verità: avere la compagnia di Rank and File, Violent Femmes, Rain Parade, Dream Syndicate, Opal, Walkabouts (per citarne qualcuno) vuol dire non essere propriamente SOLI AL MONDO nel portare avanti un discorso di rielaborazione delle radici dell’american music, della ballata, attualizzarla e bla bla bla…
I nostri eroi si confrontano con questo contesto:anche questo va tenuto a mente.

In un’intervista che lessi su un Buscadero di un milione di anni fa Michael Timmins, band-leader, chitarrista nonché fratello della cantante della band, dichiarava che i suoi ascolti erano stati solo i Clash per un sacco di tempo, salvo poi scoprire che oltre alla migliore band di tutti i tempi c’erano stati anche altri interessanti ed apprezzabili artisti di cui aveva fatto esperienza in seguito.
Da questo possiamo tranquillamente desumere che l’elemento fondatore della band (nonché autore) è stato un ragazzo normale che, come tutti, ascoltava la musica del suo tempo e ne traeva giovamento. Non siamo, dunque, di fronte ad uno di quei fenomeni tipo SONO UN DISSOCIATO IN FISSA SOLO E SOLTANTO CON LA MUSICA DEGLI APPALACHI E CON LE GIGHE IRLANDESI CHE SI SUONAVANO PRIMA DELLA GUERRA DI SECESSIONE oppure con una di quelle famiglie di campagnoli la cui radio, nel 1979-80, trasmetteva magicamente solo la collezione di 78 giri di Joe Bussard e non captava nulla di suonato dopo il 1957.
Può non sembrare così ma vi assicuro che vi sto fornendo l’ennesima indicazione.

Una gelida scheda analitica delle loro caratteristiche ne parlerebbe così.
Voce femminile dal tono etereo; chitarre taglienti suonate con garbo e con un approccio blues che trasfigura a volte nella psichedelia se non, addirittura, nel raga; atmosfere sospese e richiami al folk, al blues e al gospel; notte; autunno; foglie che cadono… perché è opportuno ascoltare i Cowboy Junkies?
Perché Oliver Stone ha scelto la LORO versione di Sweet Jane invece di quella dei Velvet Underground per il suo Natural Born Killers forse?
Francamente no, anche se fa curriculum.

I Cowboy Junkies non hanno avuto una carriera sempre in crescendo. Sono una band che sulla distanza spesso si è persa e, nel complesso, una loro discografia consigliata, compilata dal sottoscritto, non andrebbe oltre i primi due album più qualche altro preso a macchia di leopardo tra la loro produzione ma, cosa essenziale, i Cowboy Junkies ci hanno fatto dono di un “Suono” e questo è quello che vi serve per andarveli a cercare.
Le radici americane sono state declinate in molte disparate maniere.
Sono state sporcate di punk, distorte di metal, evirate di hard rock, imbastardite di southern, rinvigorite di altro rock e contaminate di elettronica. E, ultimamente, fraintese di pre-war fricchettone e depressone che alterna rari, altissimi momenti ad uno standard francamente involuto e dispersivo che non si sa più se vuole riformare, partire da/per superare, sovrapporre per sperimentare o eiaculare per non scopare (sì, sto parlando di Will Oldham, sì sto parlando di Devendra Banhart, sì, sto parlando delle Cocorosie e anche di Low Anthem....).
Ma le radici americane come le hanno declinate i Cowboy Junkies sono un esempio di varie perfezioni formali e di una certa, passatemi la parola, PUREZZA dell’approccio.
Purezza, perché c’è filologia; purezza nella ricerca di soluzioni che coniughino eleganza e fruibilità; purezza di suoni e, si badi, di atmosfera.
C’è quasi sempre molto SPAZIO nelle canzoni dei Cowboy Junkies, uno spazio in cui il silenzio, senza farsi protagonista indesiderato della musica, gioca un ruolo strategico.
Abbiamo detto “Notte”, ”Autunno” ma potremmo dire anche “Neve” per evocare il mondo suggestivo delle loro canzoni.
I Cowboy Junkies hanno la capacità di far comparire un camino, una coperta e possono accompagnarti placidamente mentre guidi nella notte e fuori dall’abitacolo sta piovendo il finimondo.
Se passi in un bosco dopo la pioggia e li ascolti TUTTO MAGICAMENTE È AL SUO POSTO.
Non dovrei forse essergli grato per questo?
Ma c’è di più.
Al di sotto della superficie su cui il sublime, il solenne, la voce bianchissima di Margo Timmins (vero elemento chiave della band), le foglie che cadono, i buoni cari vecchi tempi andati, dio, il country e il blues scorrono assieme e concorrono a comporre l’edificante quadretto c’è… l’America.
L’assassino che è in me, le mani sporche di sangue, gli anni ‘50 che suonano sempre bene quando è appena stato consumato un atto di crudeltà, un delitto.
Un’inquietudine, un senso di vaga obliquità, un’ appena accennata e sensuale perversione.
Per questo, i Cowboy Junkies, nella loro purezza e ineffabilità, sono un’ottima colonna sonora se hai accoltellato qualcuno venti minuti fa; per questo, la morbida voce di Margo, le sfuggevolezze chitarristiche (prelibate peraltro) e la base ritmica invece sempre così discreta e puntuale quasi a dirti: “vedi che le cose stanno COSÌ e non nell’altro modo…” fanno, a volte, un po’ paura.
Avete mai ascoltato Blue Moon nella versione di Elvis? Non sembra di sentir cantare un assassino sbronzo di sangue e di alcool (il secondo sicuro…) che canta riverso sul cadavere di cui è responsabile?
Quell’effetto eco spettrale sulla voce, la chitarra pizzicata in lontananza, con timore quasi, meccanica come un organetto da luna park, quel silenzio…
Mi ha sempre terrorizzato quella canzone.
Anche la loro versione è terrorizzante. Dolcemente. Ne è praticamente la figlia.
Oppure potreste ritrovarveli a cantare di angeli o a rileggere un gospel con questo silenzio attorno, DENTRO al disco, come se suonassero di notte su una montagna nel nulla canadese di uno di quei loro inappuntabili parchi nazionali che, alla fine, non sapete se commuovervi o scappare a gambe levate.
Qualcosa come Twin Peaks con la dolcezza che Twin Peaks non doveva avere.

Una precisazione è d’obbligo, lo stile della band non giace staticamente sul notturno, l’autunnale, l’aereo e il noir, questo è quello che io definivo il “Suono” che di loro, a mio avviso, rimarrà.
Negli anni hanno girato attorno all’argomento in vari modi, provandosi persino, con risultati non convincenti, a riempire un po’ di quel vuoto che è la pietra angolare del loro stile.
Hanno ripercorso stesse vecchie strade impolverate calpestandole con passo rispettoso e mai iconoclasta.
Se siete riformisti, forse i Cowboy Junkies non fanno per voi, meglio un gazebo del PD.
Tuttavia a mio modo di vedere, sono riusciti, attraverso quel “Suono” di cui vi ho detto e di cui ci hanno fatto dono a diventare, rapidamente e senza troppo clamore, un gruppo “classico”, minore senz’altro ma ugualmente classico. Una di quelle band che, quando si incontrano, si amano o si detestano e questo è un merito.
Sanno farti sentire caldo e sanno farti sentire freddo. Sanno farti compagnia.
Sanno metterti a tuo agio, farti volteggiare come se fossi dentro a una placenta per poi gettarti gentilmente, e freddamente, all’aperto, sotto il cielo, sulla nuda terra.
E là sta a te decidere se metterti a piangere o a ridere.
Alla prossima.

24 febbraio 2011

M'hanno rimasto solo, 'sti cinque c-c-c-cornuti !

Devo essere onesto: non sono stato a contare i giorni che mi separavano dall'uscita del nuovo disco dei Radiohead come era capitato per In rainbows. Sarà che prima ero più attento e meno sommerso dai sensi di colpa per aver trascurato gente come Neil Young o Mississippi Fred McDowell o i New Bomb Turks. Sarà che effettivamente anche sulla stampa non particolarmente specializzata se n'era parlato molto di più, magari in virtù del fatto che stavano per dare un bel calcione nel culo dell'industria discografica, cosa di cui sono sempre stato e sempre sarò fan (del calcione nel culo, ovviamente). Anzi, se devo essere del tutto onesto, che stesse per uscire un disco nuovo dei Radiohead non ne sapevo direttamente un cazzo. Questo insomma era il clima.
Tuttavia a un certo punto quando ho letto che The king of limbs era fuori da un momento all'altro ero contento. Noi trentenni del 2010 non possiamo contare su chissà quanta gente per regalarci un sogno, e pure quelli che sono sopravvissuti dall'epoca d'oro iniziano a scricchiolare: Bruce Springsteen sta rimediando una toppa dopo l'altra e forse c'è bisogno di mettersi a fare i sit-in davanti a casa sua per fargli capire che è arrivato il momento di dedicarsi all'intimismo e soprattutto (perdio) LASCIAR PERDERE le canzoni basate sugli obbligati, che c'hanno rotto il cazzo. Del resto forse l'ha pure capito, dato che la cosa migliore che ha messo fuori negli ultimi due o tre anni è stato un cofanetto di outtakes che non fa altro che dimostrare che 1. il boss aveva buon gusto e capacità di selezione, almeno nel 1975, 2. deve smetterla di scrivere canzoni basate sugli obbligati. L'avevo già detto. Lo ridico; Dylan ormai s'è rintanato nella sua Nashville celeste come una specie di Sant'Agostino cauntri e tutto sommato sta facendo dischi gradevoli ma gradevole non basta; Neil Young ha fatto un disco sicuramente interessante sicuramente pieno di spunti di riflessione e sicuramente sorprendente data la veneranda età che non farebbe presupporre ancora questa voglia di sperimentare; Tom Waits non ne parliamo, Glitter and doom è stata una pugnalata al cuore, pare un bootleg ripreso con un iphone cinese. Su chi ci si butta? Su Costello? Su Joe Jackson (che quasi quasi pure pure)? Mark Hollis era il 1998 quando ha detto Contenti ora beh adesso andate a cagare. Non ci rimane molto.
Ci rimangono giusto i Radiohead, ecco, che comunque finora non hanno sbagliato un colpo (tranne il primo, beh, perché adesso venitemi a dire che Pablo Honey è un bel disco e vi schiaffeggio con una trota), e oltre a fare dei dischi belli hanno anche fatto dischi interessanti e seminali. Insomma diciamocelo, a loro non gli si può dire un cazzo.
Poi un bel giorno ti ascolti questo The king of limbs e c'è qualcosa che non quadra: otto tracce, meno di quaranta minuti, protools a tutta callara fin dal primo minuto. Beh, pensi, anche In rainbows iniziava così e poi però regalava belle perle, magari si riprende subito dopo. E invece no: il disco prosegue con un miscuglio di songwriting ipnotico tipicamente loro e minimal techno o quel cazzo che è (ammetto la mia praticamente totale ignoranza in fatto di sottogeneri elettronici) che però alla lunga ecco, insomma, noi vorremo sentire i radiohead, e anche quando i radiohead appaiono lo fanno in maniera un po' stanca, ricalcando idee che sembrano aver già sfruttato nei dischi precedenti - perché diciamocelo, pezzi come codex o give up the ghost sembrano un po' reckoner o videotape alla moviola.
Il risultato complessivo è che sembra di aver ascoltato una sorta di compilation di outtakes di The eraser, il disco elettroparanoide che Thom Yorke aveva fatto uscire qualche anno fa, tinto di impressioni e nevrosi che i coraggiosi che hanno sentito le colonne sonore di Jonny Greenwood hanno percepito nettamente (e sì, sono un coraggioso ma vi giuro: mai più). Beninteso, che i radiohead ben difficilmente riuscisserò a farsi una cazzo di risata bene o male l'avevamo capito già da anni, ma non finora non li avevo mai visti come un gruppo serioso, cioè un gruppo che più che accompagnarti nella loro nazione di cervelli (per cui hanno anche scritto un inno una decina di anni fa) ha iniziato a spintonarti, chiaro e semplice.
E insomma io non lo so se ci voglio andare, con loro, portato a forza in questi territori, e non solo perché ultimamente voglio più bene a Greg Cartwright che a Brian Eno: sono piuttosto sostenitore del teorema del teorema del bastone e della carota, e nel corollario per cui meglio prima la carota.

Ora: dice che l'ultima canzone si chiami Separator perché in realtà dovrebbe essere una specie di entr'acte per un nuovo disco che sarebbe anche questo in uscita da un momento all'altro, un po' come fecero con Kid a e Amnesiac. Io spero sia vero, io spero che non ci lascino così, deludendo un'intera generazione sperduta, ecco. Cattivi.

4 febbraio 2011

non inventate nulla, non negate nulla

David Mamet:
I tre usi del coltello
Minimum fax - 2002

Sempre il mio amico che mi ha regalato il libro sul potere, ha voluto farmi dare un’occhiata a un libro che si chiama “I tre usi del coltello” di David Mamet, che è uno sceneggiatore e drammaturgo americano – che per chi non lo sapesse è il genio dietro Glengarry Glen Ross, che in Italia era uscito sotto lo sventurato e severgniniano titolo di Americani. Mah, vabé.
Stavolta però il mio amico un motivo ce l’aveva, e cioè che gli avevo chiesto delle dritte per scrivere e allora non gli è venuto in mente niente di meglio, e onestamente non verrebbe niente di meglio nemmeno a me.
“I tre usi del coltello” è in realtà una raccolta di saggi e scritti sul cinema e sulla sceneggiatura edita da Minimum Fax, che contiene la summa dell’estetica Mamet, completamente sbilanciata verso il minimalismo di Ejsenstein piuttosto che verso l’assorbimento di Stanislavskij, nei confronti del quale, e del cui metodo è un aspro critico.
La storia, dice Mamet, sta al centro di tutto: dei problemi dello scrittore e delle preoccupazioni dell’attore. Tutti gli sforzi da parte di tutti i reparti della compagnia o della produzione devono essere concentrati a raccontare la storia nella maniera più efficace e meno enfatizzata possibile, lasciando cadere qualsiasi artificio o accessorio non necessari al diretto progresso della vicenda: in quest’ottica, perfino il personaggio, perno di tanto cinema hollywoodiano, diventa uno degli ingranaggi della storia, un interruttore che poco importa quali risvolti o quali trascorsi possa avere.
Il personaggio non esiste, approfondisce Mamet a più riprese in una porzione del libro dedicata al lavoro dell’attore: non importa in che quartieri sia nato o che marca di bourbon preferisca. Il personaggio non è altro che l’insieme delle scelte compiute e delle azioni svolte per perseguire il suo scopo. Va da sé, l’attore non ha bisogno di porsi questioni che non rientrano nel campo dell’azione, o immedesimarsi completamente nella propria parte: l’attore è un grande attore, nella visione di Mamet, quando riesce a pronunciare le proprie battute in maniera chiara, diretta e non enfatizzata, lasciando semmai allo sceneggiatore la scelta se far luce o meno sui lati del suo carattere che saranno più utili alla comprensione dell’obiettivo in questione. Non inventare nulla e non negare nulla, insomma: non aggiungere niente di superfluo ma al tempo stesso non nascondere il proprio vissuto di persona, essenziale comunque nel rendere autentica la recitazione e dunque la vicenda, da servire a un pubblico che nel suo insieme è più intelligente e di conseguenza più esigente di quanto si presupponga (forse unica ingenuità di Mamet, se proprio volete sapere la mia).
Ampio – e devastante, ve l’assicuro – capitolo del libro è la trascrizione di un incontro-lezione tra Mamet e allievi di un seminario di scrittura, nel quale lo scrittore si fa largo a colpi di cesoie tra le idee lanciate, continuando a porre la domanda più difficile: “A cosa serve nella nostra storia, come quest’elemento farà progredire la vicenda?” Arrivare all’essenziale si dimostra dunque il compito più difficile da svolgere, e mille sono le insidie che si possono celare nel percorso dell’eroe, reso impervio da un linguaggio teatrale e cinematografico che spesso tralascia l’azione a scapito di elementi di corredo, o almeno giudicati tali almeno nell’estetica Mametiana. La costruzione di una semplice scena, elemento sostanziale di cui si compone ognuno dei tre atti aristotelici diventa dunque una sfida all’ovvietà e una ricerca dell’essenza stessa del concetto base della storia, che spesso – riporta e cita – è racchiuso in una sola parola fondamentale.
La lettura di “I tre usi del coltello”, titolo preso da un blues di Leadbelly in cui i versi fanno specifico riferimento al coltello visto come elemento che benché chiave di interpretazione non riesce mai a smettere di se stesso e oggetto della vicenda, è sfiancante quanto costruttiva, un incendio purificatore per chiunque – come me, ammetto – intenda addentrarsi nel linguaggio narrativo, che sia questo applicato a un’opera fruibile da un pubblico in sala o in poltrona, occhi sullo schermo o sulle pagine. Proprio come insegna Mamet in maniera implacabile ai suoi allievi, bisogna raggiungere lo zero per ricominciare a costruire.
Statene alla larga, insomma, o siate coraggiosi: vi farà a pezzi.

Dum Dum Girls: Blissed out (Art Fag, 2010)

Io lo sapevo che a fidarsi di pitchfork prima o poi la fregatura arrivava. Cogli Arcade Fire m'aveva detto bene e infatti mi sa che ne avevamo già parlato, e invece co' 'ste Dum Dum Girls no.
Intanto la cosa che mi consola è che non si siano ispirate al pezzo dei Talk Talk perché io a Mark Hollis gli voglio bene e a 'ste tizie qua no.
E non gli voglio bene, ho deciso, perché paiono appartenere a quella schiera di gruppi da puzza sotto il naso e malvestite che sono troppo più intelligenti di te e allora spostano l'asse dell'attenzione dal gusto all'apprezzamento. Snob e po-mo, sono ingabbiate in un quadrilatero tra Ian Curtis, Phil Spector, Kristin Hersh e lo shoegaze. Intendiamoci, la loro musica non è né abbastanza intensa, né abbastanza scanzonata, né se è per questo abbastanza squallida o depressiva. Pare essere al contrario semplicemente una serie di bozze affogate nel riverbero (si fa fatica a credere che siano effettivamente una band, piuttosto che un duo fatto di cantante chitarrista e batteria) e inacidite da una produzione lo-fi più realista del re che come (troppo) spesso accade, rovinano invece di aggiustare. Il che tra l'altro dimostra che in sub pop ogni tanto qualche crepa la rimediano.
Voi non avete bisogno delle Dum Dum Girls, insomma. Voi al massimo avete bisogno dei Mummies. Ecco, i Mummies.

Sentenza: ** e non * giusto per le tette in copertina che manco so' 'sto granché.