Devo essere onesto: non sono stato a contare i giorni che mi separavano dall'uscita del nuovo disco dei Radiohead come era capitato per In rainbows. Sarà che prima ero più attento e meno sommerso dai sensi di colpa per aver trascurato gente come Neil Young o Mississippi Fred McDowell o i New Bomb Turks. Sarà che effettivamente anche sulla stampa non particolarmente specializzata se n'era parlato molto di più, magari in virtù del fatto che stavano per dare un bel calcione nel culo dell'industria discografica, cosa di cui sono sempre stato e sempre sarò fan (del calcione nel culo, ovviamente). Anzi, se devo essere del tutto onesto, che stesse per uscire un disco nuovo dei Radiohead non ne sapevo direttamente un cazzo. Questo insomma era il clima.
Tuttavia a un certo punto quando ho letto che The king of limbs era fuori da un momento all'altro ero contento. Noi trentenni del 2010 non possiamo contare su chissà quanta gente per regalarci un sogno, e pure quelli che sono sopravvissuti dall'epoca d'oro iniziano a scricchiolare: Bruce Springsteen sta rimediando una toppa dopo l'altra e forse c'è bisogno di mettersi a fare i sit-in davanti a casa sua per fargli capire che è arrivato il momento di dedicarsi all'intimismo e soprattutto (perdio) LASCIAR PERDERE le canzoni basate sugli obbligati, che c'hanno rotto il cazzo. Del resto forse l'ha pure capito, dato che la cosa migliore che ha messo fuori negli ultimi due o tre anni è stato un cofanetto di outtakes che non fa altro che dimostrare che 1. il boss aveva buon gusto e capacità di selezione, almeno nel 1975, 2. deve smetterla di scrivere canzoni basate sugli obbligati. L'avevo già detto. Lo ridico; Dylan ormai s'è rintanato nella sua Nashville celeste come una specie di Sant'Agostino cauntri e tutto sommato sta facendo dischi gradevoli ma gradevole non basta; Neil Young ha fatto un disco sicuramente interessante sicuramente pieno di spunti di riflessione e sicuramente sorprendente data la veneranda età che non farebbe presupporre ancora questa voglia di sperimentare; Tom Waits non ne parliamo, Glitter and doom è stata una pugnalata al cuore, pare un bootleg ripreso con un iphone cinese. Su chi ci si butta? Su Costello? Su Joe Jackson (che quasi quasi pure pure)? Mark Hollis era il 1998 quando ha detto Contenti ora beh adesso andate a cagare. Non ci rimane molto.
Ci rimangono giusto i Radiohead, ecco, che comunque finora non hanno sbagliato un colpo (tranne il primo, beh, perché adesso venitemi a dire che Pablo Honey è un bel disco e vi schiaffeggio con una trota), e oltre a fare dei dischi belli hanno anche fatto dischi interessanti e seminali. Insomma diciamocelo, a loro non gli si può dire un cazzo.
Poi un bel giorno ti ascolti questo The king of limbs e c'è qualcosa che non quadra: otto tracce, meno di quaranta minuti, protools a tutta callara fin dal primo minuto. Beh, pensi, anche In rainbows iniziava così e poi però regalava belle perle, magari si riprende subito dopo. E invece no: il disco prosegue con un miscuglio di songwriting ipnotico tipicamente loro e minimal techno o quel cazzo che è (ammetto la mia praticamente totale ignoranza in fatto di sottogeneri elettronici) che però alla lunga ecco, insomma, noi vorremo sentire i radiohead, e anche quando i radiohead appaiono lo fanno in maniera un po' stanca, ricalcando idee che sembrano aver già sfruttato nei dischi precedenti - perché diciamocelo, pezzi come codex o give up the ghost sembrano un po' reckoner o videotape alla moviola.
Il risultato complessivo è che sembra di aver ascoltato una sorta di compilation di outtakes di The eraser, il disco elettroparanoide che Thom Yorke aveva fatto uscire qualche anno fa, tinto di impressioni e nevrosi che i coraggiosi che hanno sentito le colonne sonore di Jonny Greenwood hanno percepito nettamente (e sì, sono un coraggioso ma vi giuro: mai più). Beninteso, che i radiohead ben difficilmente riuscisserò a farsi una cazzo di risata bene o male l'avevamo capito già da anni, ma non finora non li avevo mai visti come un gruppo serioso, cioè un gruppo che più che accompagnarti nella loro nazione di cervelli (per cui hanno anche scritto un inno una decina di anni fa) ha iniziato a spintonarti, chiaro e semplice.
E insomma io non lo so se ci voglio andare, con loro, portato a forza in questi territori, e non solo perché ultimamente voglio più bene a Greg Cartwright che a Brian Eno: sono piuttosto sostenitore del teorema del teorema del bastone e della carota, e nel corollario per cui meglio prima la carota.
Ora: dice che l'ultima canzone si chiami Separator perché in realtà dovrebbe essere una specie di entr'acte per un nuovo disco che sarebbe anche questo in uscita da un momento all'altro, un po' come fecero con Kid a e Amnesiac. Io spero sia vero, io spero che non ci lascino così, deludendo un'intera generazione sperduta, ecco. Cattivi.
Tuttavia a un certo punto quando ho letto che The king of limbs era fuori da un momento all'altro ero contento. Noi trentenni del 2010 non possiamo contare su chissà quanta gente per regalarci un sogno, e pure quelli che sono sopravvissuti dall'epoca d'oro iniziano a scricchiolare: Bruce Springsteen sta rimediando una toppa dopo l'altra e forse c'è bisogno di mettersi a fare i sit-in davanti a casa sua per fargli capire che è arrivato il momento di dedicarsi all'intimismo e soprattutto (perdio) LASCIAR PERDERE le canzoni basate sugli obbligati, che c'hanno rotto il cazzo. Del resto forse l'ha pure capito, dato che la cosa migliore che ha messo fuori negli ultimi due o tre anni è stato un cofanetto di outtakes che non fa altro che dimostrare che 1. il boss aveva buon gusto e capacità di selezione, almeno nel 1975, 2. deve smetterla di scrivere canzoni basate sugli obbligati. L'avevo già detto. Lo ridico; Dylan ormai s'è rintanato nella sua Nashville celeste come una specie di Sant'Agostino cauntri e tutto sommato sta facendo dischi gradevoli ma gradevole non basta; Neil Young ha fatto un disco sicuramente interessante sicuramente pieno di spunti di riflessione e sicuramente sorprendente data la veneranda età che non farebbe presupporre ancora questa voglia di sperimentare; Tom Waits non ne parliamo, Glitter and doom è stata una pugnalata al cuore, pare un bootleg ripreso con un iphone cinese. Su chi ci si butta? Su Costello? Su Joe Jackson (che quasi quasi pure pure)? Mark Hollis era il 1998 quando ha detto Contenti ora beh adesso andate a cagare. Non ci rimane molto.
Ci rimangono giusto i Radiohead, ecco, che comunque finora non hanno sbagliato un colpo (tranne il primo, beh, perché adesso venitemi a dire che Pablo Honey è un bel disco e vi schiaffeggio con una trota), e oltre a fare dei dischi belli hanno anche fatto dischi interessanti e seminali. Insomma diciamocelo, a loro non gli si può dire un cazzo.
Poi un bel giorno ti ascolti questo The king of limbs e c'è qualcosa che non quadra: otto tracce, meno di quaranta minuti, protools a tutta callara fin dal primo minuto. Beh, pensi, anche In rainbows iniziava così e poi però regalava belle perle, magari si riprende subito dopo. E invece no: il disco prosegue con un miscuglio di songwriting ipnotico tipicamente loro e minimal techno o quel cazzo che è (ammetto la mia praticamente totale ignoranza in fatto di sottogeneri elettronici) che però alla lunga ecco, insomma, noi vorremo sentire i radiohead, e anche quando i radiohead appaiono lo fanno in maniera un po' stanca, ricalcando idee che sembrano aver già sfruttato nei dischi precedenti - perché diciamocelo, pezzi come codex o give up the ghost sembrano un po' reckoner o videotape alla moviola.
Il risultato complessivo è che sembra di aver ascoltato una sorta di compilation di outtakes di The eraser, il disco elettroparanoide che Thom Yorke aveva fatto uscire qualche anno fa, tinto di impressioni e nevrosi che i coraggiosi che hanno sentito le colonne sonore di Jonny Greenwood hanno percepito nettamente (e sì, sono un coraggioso ma vi giuro: mai più). Beninteso, che i radiohead ben difficilmente riuscisserò a farsi una cazzo di risata bene o male l'avevamo capito già da anni, ma non finora non li avevo mai visti come un gruppo serioso, cioè un gruppo che più che accompagnarti nella loro nazione di cervelli (per cui hanno anche scritto un inno una decina di anni fa) ha iniziato a spintonarti, chiaro e semplice.
E insomma io non lo so se ci voglio andare, con loro, portato a forza in questi territori, e non solo perché ultimamente voglio più bene a Greg Cartwright che a Brian Eno: sono piuttosto sostenitore del teorema del teorema del bastone e della carota, e nel corollario per cui meglio prima la carota.
Ora: dice che l'ultima canzone si chiami Separator perché in realtà dovrebbe essere una specie di entr'acte per un nuovo disco che sarebbe anche questo in uscita da un momento all'altro, un po' come fecero con Kid a e Amnesiac. Io spero sia vero, io spero che non ci lascino così, deludendo un'intera generazione sperduta, ecco. Cattivi.
Nessun commento:
Posta un commento