19 aprile 2011

fidarsi è bene, non fidarsi è meglio ma in questo caso fidarsi, fidatevi.

Cuoco, Cuoco, io lo so che non ti sfugge niente e che probabilmente segnalandoti questa chicca ti sto parlando dell'acqua calda ma tu devi, tu devi, tu devi ascoltare Anna Calvi.
Io la prima volta che mi hanno detto Ah Anna Calvi mi sono pure mezzo stranito ma questo è un altro discorso che poi ti farò con una grappa in mano, io la prima volta che mi hanno detto Ah Anna Calvi mi hanno detto E' una che l'ha scoperta Nick Cave è una cantantessa mica male tiè ascolta e il pezzo che mi hanno fatto ascoltare è un singolo che si chiama Desire che io la prima volta che l'ho ascoltato la prima volta che mi hanno detto Ah Anna Calvi ho pensato Ah allora vedi che il collegamento tra l'indie rock e Springsteen non è una cosa che avevano capito solo gli Arcade Fire? E' possibile mettere d'accordo il folk erudito e quello di strada, tra il New Jersey ormai epico e il Canada che dopo gli anni 90 c'ha pure ragione ad averci la puzza sotto il naso.
Ma andiamo con ordine: Ah Anna Calvi, non si capisce quanti anni ha ma di sicuro meno di 30 e se ce la vogliamo azzardare è addirittura possibile che ne abbia meno di 25, insomma lei è inglese e non si direbbe anche se sì, e il suo lancio - lo leggi ovunque - è che Brian Eno ha detto che è la mejo cosa dopo Patti Smith. Oh, Brian Eno, non Vincenzo Mollica: Brian Eno il principe dell'understatement, uno che una cosa del genere probabilmente non la direbbe nemmeno a Patti Smith.
Dice che suo padre stava in fissa coi dischi e perdio se questa cosa si sente. Già, caro cuoco, perché alla signorina Calvi si sente che non solo i riferimenti non mancano, ma li ha interiorizzati in maniera talmente radicale che non può aprire bocca o muovere le mani senza farli schizzare come scintille. Ma andiamo - di nuovo - con ordine.
Insomma mi dicono Ah Anna Calvi andiamo a sentircela al Circolo degli Artisti e io Va bene, che dopotutto ero in una delle migliori settimane della mia vita e avrei detto Sì anche agli Inti Illimani alla basilica di Massenzio (non è vero e lo sai, ma è per farti capire) e quello che vedo è una minuscola bionda boccoluta con una tele sunburst già mezza magnata che quasi la nasconde (essendo appunto minuscola, già detto). Insieme a lei una pischella che a giudicare dall'impalcatura dietro la quale si va a posizionare suona tutti gli strumenti e le loro nonne, e un batterista. Ma attenzione: non uno di questi emaciati mingherlini; uno con due spalle così, con i MUSCOLI che infatti quando suona il colpo è secco, non occorre lavorare troppo di expander e io che ho avuto la fortuna di stare per un pezzettino dietro il fonico vedevo questi VU che saltavano come cocainomani, una bellezza, una bellezza, non me l'aspettavo. E tra l'altro questa cosa è un bene, dato che come bene sai, al Circolo ti tocca suonare per forza più forte del locale altrimenti la sua rinomata acustica di merda ti castiga. E qui succede il miracolo.
Quando questa gnappetta bionda coi pantaloni a vita alta che pare una Marlene torera inizia a cantare, si spegne la luce, anzi: la luce s'è già spenta perché prima di cantare ha iniziato a suonare e io non ho mai sentito una donna suonare così bene l'elettrica. Nel senso, avere questa sintesi tra tocco, suono (hai presente quella zona dorata in cui se spingi un po' più sulle corde l'ampli inizia a frignare, hai presente) e scioltezza: la regazzetta si permette pure degli svolazzi niente male che più di una volta m'è toccato di dire Woah. Lo stesso approccio, cuoco, lei ce l'ha anche vocalmente: tutto, tutto, viene guidato sulla sottilissima linea che separa la quiete dal fragore, e la musica è dinamica, dinamicissima, oltre che, e questa è la cosa notevolissima, scritta da paura.

Le canzoni di Anna Calvi sono una prova di cultura singolarissima. Lei si sente proprio che deve aver passato tutta la sua adolescenza ad ascoltare dischi con attenzione religiosa (il che mi fa strano perché è pure una discreta sventola, vuol dire che c'è giustizia a questo mondo) perché non solo la scrittura è articolatissima e coraggiosa, in grado di ridere e piangere, di colpire e di accarezzare, ma è nei dettagli che nasconde le grazie migliori. A differenza dei e delle indie rockers contemporanee, il suo approccio è tutt'altro che minimale: dal suono alle progressioni spesso mira al sontuoso, al prezioso (benché per fortuna mai al preziosismo), e aggiunge senza mai nemmeno avvicinarsi ad essere stucchevole.
Insomma un incrocio tra Buckley figlio, Patti, il miglior indie folk odierno (leggi Arcade Fire, appunto) e un continuo incrociare rotte percorse e intrecciare discorsi già presi: la severità wave, la forza d'urto di uno stadium rock innico (il prossimo che dice anthemico gli taglio i pollici), e il baroque pop più caloroso e avvolgente. Il tutto con dentro una tele suonata benissimo e riverbero-a-mollata al punto da strizzare un occhio al surf So-Cal e uno a Ribot nel deserto; colori e strati di suono e una batteria che pare prodotta da Steve Albini, ma non lo è perché per fortuna è più tiepida.
E questo solo il suono, perché la sua voce, impietosa, approfondisce e scava: sia dentro il tuo petto che dentro decenni di musica buona: Patti, la Callas, Yma (in basso), Jeff e Ian pure, più tanta chanson noir. Mai punk, eh, zero punk: limpida e diaframmatica come poche ne ho sentite: però che botte, perdio.
Io, cuoco, quando sono uscito dal Circolo ho pensato Oh Anna Calvi, e questo è quello che dico da allora, dato che tra l'altro è la cosa migliore che ho sentito da un bel po' di tempo a questa parte, che di cose ne sto sentendo a nastro che sembra che non ho mai tempo e invece il disco suo l'ho già sentito tre volte in una settimana
Cioè, quando mai.

4 aprile 2011

José Saramago: Memoriale del convento (director's cut)

a sarama' ho capito: santo lazzaro e santo barnaba e santo marcello e santo eusebio e santo ciro e santo giovanni e santo michele e santo antonio e santo massimiliano kolbe e i santissimi cosma e damiano ho capito sarama'. ennamo su.
questo libro è come quando la pischella te la dà una volta al mese.

3 aprile 2011

un eterno zero a zero

José Saramago
Memoriale del Convento
Feltrinelli - 1987

Io a Saramago gli voglio tanto bene, lui è uno degli scrittori che consiglierei e consiglio a chiunque, in qualsiasi circostanza, ammesso che abbia le spalle abbastanza larghe da sostenere il peso di ognuna delle sue righe, che sono tante e non vanno a capo se non quando finisce il foglio, e la mente – pure – abbastanza larga da fa passare l’ampiezza di una narrazione che a tratti sembra non avere soluzione di continuità, nemmeno quella dell’interpunzione che sappiamo benissimo è ridotta all’osso: virgole e punti perché insomma, Poche chiacchiere, dice Saramago, e ha ragione: tutto quello che scrive serve e poche volte ne ho dubitato.
Io di Saramago ho letto buona parte della produzione e ho sempre chiuso il libro con un senso di pienezza, di sazietà e di leggera ebbrezza, come dopo un pasto lauto e carico di sapori genuini, veraci, raramente sofisticati, quanto piuttosto figli di una tradizione popolare, benché elevata da un’erudizione ai limiti dell’enciclopedico.
Bene. Ora:
Sul Memoriale del convento mi avevano preallarmato: mi avevano detto che non era la cosa più brillante che aveva scritto. Ed è vero. Ci mancherebbe, il libro ha esattamente lo stesso carattere di ciò che racconta, ed è il tentativo di liberarsi dal fango dell’epoca ed erigersi verso l’alto. Lo fa re Giovanni V con la costruzione del convento a Mafra, lo fa l’infanta al termine del romanzo nelle sue nozze che la libereranno dalla bruttezza da cui è piagata dalla nascita, lo fanno Baltasar e Blimunda, i due effettivi protagonisti del romanzo, nell’aiutare il padre Bartolomeu in odor d’alchimia a costruire una macchina volante.
Né manca l’elemento surreale, come altrove nella sua letteratura: al di là della macchina che effettivamente riuscirà a volare, la capacità di Blimunda, orfana di rogo, di vedere sotto la pelle delle persone, cosa che le permetterà di collezionare le volontà, uno degli ingredienti della ricetta alchemica che permetterà all’uccello meccanico di spiccare il volo.
Ciò che non spicca il volo, invece, o che almeno non riesce a mantenere quota, è il tono generale del romanzo, che più che in altri libri del portoghese è un centellinare continuo di intuizioni, verità e avvenimenti, un continuo temporeggiare e ritardare l’azione del romanzo, per attardarsi non solo in riflessioni continue su ciò che è in cielo e in terra, superbamente filtrate dall’ottica del tempo (e ciò sarebbe bene), ma impastoiate da ripetute e lunghe enumerazioni che va bene rispecchino le litanie che punteggiavano il quotidiano dell’epoca, però più volte suscitano impazienza.
Difficile insomma resistere alla tentazione di scavalcare qualche riga durante le elencazioni dal sapore omerico del corteo del re che accompagna la figlia a sposarsi, delle statue di santi e degli ordini monastici nelle processioni che tornano e ritornano nel libro, seguite e osservate appassionatamente dal popolo, anch’esso rapito nel tentativo di elevazione – più sensuale che spiriturale.
Insomma, chi sosteneva che Memoriale del convento è un libro “pesante” anche nel senso più banale del termine, aveva ragione. Abituati a una scrittura e a delle vicende che sanno anche accattivare, il Saramago del Memoriale risulta un po’ stoppaccioso e difficile da mandare giù, anche per i lettori più pazienti. Se dovete iniziare a leggerlo, iniziate da altrove, se invece andate di fretta, io direi quasi che potreste pure passare avanti, ecco.