3 aprile 2011

un eterno zero a zero

José Saramago
Memoriale del Convento
Feltrinelli - 1987

Io a Saramago gli voglio tanto bene, lui è uno degli scrittori che consiglierei e consiglio a chiunque, in qualsiasi circostanza, ammesso che abbia le spalle abbastanza larghe da sostenere il peso di ognuna delle sue righe, che sono tante e non vanno a capo se non quando finisce il foglio, e la mente – pure – abbastanza larga da fa passare l’ampiezza di una narrazione che a tratti sembra non avere soluzione di continuità, nemmeno quella dell’interpunzione che sappiamo benissimo è ridotta all’osso: virgole e punti perché insomma, Poche chiacchiere, dice Saramago, e ha ragione: tutto quello che scrive serve e poche volte ne ho dubitato.
Io di Saramago ho letto buona parte della produzione e ho sempre chiuso il libro con un senso di pienezza, di sazietà e di leggera ebbrezza, come dopo un pasto lauto e carico di sapori genuini, veraci, raramente sofisticati, quanto piuttosto figli di una tradizione popolare, benché elevata da un’erudizione ai limiti dell’enciclopedico.
Bene. Ora:
Sul Memoriale del convento mi avevano preallarmato: mi avevano detto che non era la cosa più brillante che aveva scritto. Ed è vero. Ci mancherebbe, il libro ha esattamente lo stesso carattere di ciò che racconta, ed è il tentativo di liberarsi dal fango dell’epoca ed erigersi verso l’alto. Lo fa re Giovanni V con la costruzione del convento a Mafra, lo fa l’infanta al termine del romanzo nelle sue nozze che la libereranno dalla bruttezza da cui è piagata dalla nascita, lo fanno Baltasar e Blimunda, i due effettivi protagonisti del romanzo, nell’aiutare il padre Bartolomeu in odor d’alchimia a costruire una macchina volante.
Né manca l’elemento surreale, come altrove nella sua letteratura: al di là della macchina che effettivamente riuscirà a volare, la capacità di Blimunda, orfana di rogo, di vedere sotto la pelle delle persone, cosa che le permetterà di collezionare le volontà, uno degli ingredienti della ricetta alchemica che permetterà all’uccello meccanico di spiccare il volo.
Ciò che non spicca il volo, invece, o che almeno non riesce a mantenere quota, è il tono generale del romanzo, che più che in altri libri del portoghese è un centellinare continuo di intuizioni, verità e avvenimenti, un continuo temporeggiare e ritardare l’azione del romanzo, per attardarsi non solo in riflessioni continue su ciò che è in cielo e in terra, superbamente filtrate dall’ottica del tempo (e ciò sarebbe bene), ma impastoiate da ripetute e lunghe enumerazioni che va bene rispecchino le litanie che punteggiavano il quotidiano dell’epoca, però più volte suscitano impazienza.
Difficile insomma resistere alla tentazione di scavalcare qualche riga durante le elencazioni dal sapore omerico del corteo del re che accompagna la figlia a sposarsi, delle statue di santi e degli ordini monastici nelle processioni che tornano e ritornano nel libro, seguite e osservate appassionatamente dal popolo, anch’esso rapito nel tentativo di elevazione – più sensuale che spiriturale.
Insomma, chi sosteneva che Memoriale del convento è un libro “pesante” anche nel senso più banale del termine, aveva ragione. Abituati a una scrittura e a delle vicende che sanno anche accattivare, il Saramago del Memoriale risulta un po’ stoppaccioso e difficile da mandare giù, anche per i lettori più pazienti. Se dovete iniziare a leggerlo, iniziate da altrove, se invece andate di fretta, io direi quasi che potreste pure passare avanti, ecco.

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