4 giugno 2012

Sun Kil Moon: Among the leaves [Caldo Verde, 2012]

Kozelek è uno che faccio fatica a capire, il che è un bene, ci mancherebbe.
È strano lui, è strana la sua faccia burbera che non c'entra niente con la musica che fa e con quello che canta. È strano pure quello che canta, che strappa un po' il cuore un po' i sorrisi. E sono strane le scelte che fa. Nel senso, inizi una carriera solista con un disco di cover degli AC/DC, poi torni al sound familiare della band che hai di fatto appena sciolto, poi ti concentri su canzoni intime come un dolore al petto accompagnate dalla sola chitarra classica (ah, e grazie per avermici fatto fare pace, già che ci siamo). Insomma, io ti tengo d'occhio, Kozelek, che spunti a buffo anche in film completamente improbabili, ed essendo stato la colonna sonora di infiniti struggimenti, ti voglio pure quasi bene.
Quindi quando il buon Donalisio mi ha detto che era uscito il nuovo Sun Kil Moon, e dopo aver rosicato perché non ne sapevo niente, mi sono precipitato ad ascoltarlo e ho pensato Ah ecco un altro disco solipsista di tessiture di chitarra classica, che però non sembra essere così complesso come l'ultimo che invece era molto pensato, molto articolato, fatto di canzoni scritte quasi in maniera classica tema-sviluppo-variazione, i pezzi sono più corti, più diretti, quasi delle istantanee, un approccio un po' più snello. Dai, non è male, ho pensato.
Esatto, non è male.
Per carità, Kozelek continua ad essere trasparente come una sorgente di acqua amara, canta di luoghi e sensazioni in maniera immediata, sognante più che appassionata, ma urgente come una fitta. Eppure questo disco sembra mancare della visione d'insieme degli altri. Non è del tutto acustico (qua e là, come nella title track, appaiono una chitarra elettrica e una batteria che ultimamente latitavano), non è del tutto continuo. È bello e morbido come tutte le cose che fa, e la sua voce sembra sempre uscire da una testa pressata da un post-sbronza solitario, ma ecco, nonostante gli ingredienti ci siano tutti e siano anche ben dosati e un po' più variegati di quanto fossero finora beh, ecco, io se dovessi iniziare a sentire Kozelek beh io ecco io mi sa che inizierei da un altro disco.

Verdetto: 6

3 giugno 2012

To Rome with love (Woody Allen, 2012)

Allora io ho visto un sacco di film di merda in vita mia perché essendoci la crisi ci può stare che uno se ne sta dentro casa e mette su la prima cosa che il convento del sacro streaming mette a disposizione e non pesca sempre bene, no?, quindi m'è capitato di vedere dei pipponi da svenire dei film senza ritmo delle robe che ridefiniscono loro malgrado il concetto di trash, ho pure un paio dii volte voluto fare degli esperimenti e ho guardato dei film italiani ggiovani quelli in cui sopperiscono alla mancanza di bravura sgranando gli occhi e gesticolando in maniera ampia, dai, avete capito, quei film in cui i personaggi dicono cose che nessuno direbbe e fanno cose inspiegabili, quei film che servono al regista sceneggiatore a vendicarsi contro la vita, cose tipo Santa Maradona, tipo Febbre da fieno, insomma io ho visto cose.
Io che To Rome With Love marcava male me lo sentivo e me lo sentivo pure da lontano, un po' perché onestamente Woody Allen non azzecca una commedia da Anything else - che manco era 'sto granché -, un po' perché questa cosa di girare un film all'anno è fisiologico che non porti a niente di buono, soprattutto quando ormai la vena s'è esaurita da un po', e su questo penso che siamo tutti d'accordo. Marcava male e me lo sentivo fin da quando repubblica.it aveva annunciato che "il nuovo film di Woody Allen sarà una dichiarazione d'amore alla città eterna", e qualcuno l'aveva visto circondato da personaggi di calibro inversamente proporzionale allo squallore durante le riprese. Marcava male quando sfronda sfronda si tratta di una commedia in location infarcita di attori all'ultimo grido (più qualche decano mendicante di attenzioni, ci mancherebbe) e incentrata sugli equivoci e sui luoghi comuni sugli italiani.
Cioè, rega', un film di Natale dei Vanzina.

Le storie che compongono il film sono 4. Per facilitare l'indicizzazione, inserirò un rumore di campanello ogni volta che si presenta una banalità. Pronti? Via.
La prima: Una turista americana si innamora di un avvocato romano. I genitori di lei sono un impresario in pensione e una psicanalista. I genitori di lui sono un impresario di pompe funebri che rivela avere un talento nascosto da tenore (ding!) e una casalinga che riesce effettivamente a pronunciare la battuta "Ci sentiremo tutti meglio dopo aver mangiato qualcosa" (ding!) e che cucina con le mozzarelle fresche che arrivano ogni giorno da Napoli (cioè, ma cheddavèro?) (ah, e ding!). L'impresario convincerà il padre di lui ad esibirsi in un allestimento dei Pagliacci (ding!) che finisce in standing ovation (ding!) in una platea il cui calibro è messo in scena dalla presenza di due noti stilisti omosessuali siciliani (ding! ding! ding!). Vi risparmio l'unico (UNICO) dettaglio un po' comico della faccenda, che già stiamo andando abbastanza in merda così, direi.
La seconda: una coppia di Pordenone (dotata ciononostante di uno spiccato accento romano) arriva a Roma per sfruttare un aggancio in società per un lavoro prestigioso. Lei esce per andare dal parrucchiere e si perde nel centro di Roma dove incapperà nelle riprese dii un film (ding!) e conoscerà un viscido attore fascinoso (ding!) che tenterà di sedurla (ding!). La pudica maestrina friulana (ding!) si farà corrompere dal fascino della notorietà e cederà alle lusinghe di lui MA: quando stanno per infilarsi nel letto un rapinatore si materializza dal bagno E CONTEMPORANEAMENTE (NUMERO!) la moglie del viscido attore fascinoso farà irruzione nella camera d'albergo (ding!) al seguito di uno stuolo di "addetti alla sicurezza" che avrebbe fatto impallidire i teatrini di varietà degli anni 40. Il rapinatore riuscirà però a farla passare liscia all'attore (ding!) e finirà a letto con la maestrina (ding!), tutto nel giro di pochi secondi. Avevo già menzionato che lei è pudica? Dice addirittura "Madonnina mia", credetemi: ho pensato che da un momento all'altro cicciasse fuori Amedeo Nazzari.
NEL FRATTEMPO nella stanza d'albergo dove il suo uomo la sta aspettando fa il suo ingresso per sbaglio una mignotta (interpretata da un'attrice spagnola, trovata geniale) che lui dovrà spacciare per sua moglie (ding!) ai suoi zii, che li coinvolgeranno in un'uscità in società dove lui dovrà celare il suo imbarazzo e la sua vergogna di persona rispettabile (ding!). Alla fine della fiera, lui tromberà la mignotta spagnola ricavandone edificazione come uomo e come persona, grazie alle sagge osservazioni di lei (ding!) sulla necessità degli uomini italiani di avere la moglie santa e l'amante mignotta (ding!). Tornato in albergo, troverà la sua mogliettina dall'aria innocente e le dichiarerà che faranno meglio a tornarsene in provincia (ding!) ma non prima di una pelle figlia della ritrovata disinibizione sessuale di entrambi (ding!).
La terza: un architetto americano in vacanza diventa la coscienza di un giovane studente americano che perde la testa per una bellissima ciarlatana amica della sua donna (ding!) che lo seduce, lo convince a fare cose da pazzi e poi lo accanna senza farsi troppi problemi (ding!). Ci si chiede per tutto il tempo se lo studente esista davvero o se non sia un ricordo di gioventù. Si perde interesse molto presto nella risposta.
La quarta: un tizio qualunque, presentato come cittadino romano nonostante sia uno dei toscani più famosi del mondo (ding!), si ritrova da un momento all'altro investito dalla notorietà (ding!) e viene braccato dalla stampa e dalla tv e dai paparazzi (il più importante apporto della lingua italiana alla comunità internazionale, a quanto pare) anche nel bagno (ding!). Dopo lo sgomento prima e gli eccessi poi - narrati ovviamente in chiave sessuale (ding!) - il tizio qualunque viene scaricato, rendendolo dapprima contento, ma poi frustrato (ding!), per imparare anche lui un'importante lezione sulla vita (ding!) da parte del suo ex autista talmente romano che infatti è napoletano (ding!).
Sono 26 campanelli, se non ho contato male ma può essere perché a una certa, non me ne avrete, ho anche perso il conto. Direi che è notevole, per essere un film in cui non ci sono i Fichi d'India.
E questi sono solo gli avvenimenti. Sto lasciando fuori le immagini da cartolina, il pizzardone e l'uomo gutturale in canottiera che fanno da sipario al film, il fatto che praticamente TUTTE le donne portino un vestito a fiori - cosa che paradossalmente finisce anche per essere plausibile, giacché i protagonisti pare siano stati scongelati dal 1953 - sto lasciando fuori il fatto che nessuno nel film ha un accento romano fatta eccezione per la bigotta coppia friulana, le strizzatine d'occhio alle pecorecce colonne sonore di Umiliani & co., che non si vede una macchina nemmeno a Via Veneto, e che Via Veneto sia anche solo menzionata in un film del 2012.
Sto lasciando, infine, fuori la banda che suona Nel blu dipinto di blu sulla scalinata di Trinità dei Monti non foss'altro perché preferisco non pensarci, ve lo giuro, mi vergogno, non ne parliamone mai più, davvero.

Insomma, To Rome With Love è un film povero, orrendo, indifendibile, che assomiglia a Roma nella misura in cui i suoi buchi ricordano i pregiati asfalti della giunta Alemanno, e che oltre a rappresentare il punto più basso della filmografia di Woody Allen (e io ho visto Hollywood ending, quindi SO di cosa sto parlando) è un insulto non tanto ai romani o agli italiani - di cui mi frega poco, vi dirò - quanto al cinema tout court.
Veramente, lasciate perdere, piuttosto guardate qualcosa con Jerry Calà che non vi vuole insegnare un cazzo ma almeno lo dice.

2 aprile 2012

Prega per noi picchiatori

Il picchiatore giunse una sera a casa di sua madre. Erano anni che non vi tornava. Portava con sé solo i suoi vestiti sgualciti e gli acciacchi di una vita di botte. Stava fermo dietro la porta di casa di sua madre come un conoscente qualsiasi che, passando da quelle parti, si fosse fermato a vedere se la vecchia era in casa ma poi, raggiunto da mille scrupoli, si fosse fermato là, sulla soglia, davanti al campanello. Per salutarla, avrebbe dovuto bussare ma data l’ora avrebbe disturbato – temeva – e così restava fermo là, sulla soglia, davanti al campanello. Con un contegno che forse non si addiceva ad un figlio.

Quando venne dato alle stampe Devils And Dust (2005) la critica spese tutti gli elogi che aveva per il singolo omonimo, canzone sulla notte di guardia nel deserto iracheno dal punto di vista di un soldato, cioè di un figlio di mamma americano, ma non notò nemmeno la presenza di suo fratello cattivo, arruolatosi perchè il lavoro era poco e la vita già cara all’epoca: assolutamente per necessità. Un picchiatore anzi, il, picchiatore.

Bruce Springsteen non ha praticamente mai celebrato personaggi negativi o neutri. I suoi perdenti sono stati schiacciati dall’immobilità sociale che è la cifra della provincia e del sobborgo statunitense ma nel loro complesso sono personaggi che, almeno interiormente, ricercano una qualche forma di purezza.
Quando sbuca fuori il picchiatore ci troviamo in un campo parecchio diverso. E nuovo.

The Hitter è una delle più belle canzoni in assoluto dell’ uomo del New Jersey ed è invisibile: è il suo più grande pregio e il segreto del suo fascino incommensurabile.

Bruce Springsteen primo attore, protagonista, è un figlio, per l’ennesima volta nella sua carriera.
Il teatrale vocione dell’incipit è già un inedito: “Come to the door ma and unlock the chain”, il tono grosso di un omone un po’ stanco un po’ fatto scemo dalle mazzate; “I was just passing through and get caught in the rain”: si scusa, sta piovendo, ha bisogno di un posto e casa della madre è da quelle parti.
Si scusa. Non deve esserci un gran rapporto tra i due, lui è un picchiatore, un pugile troppo avanti con gli anni che ha fatto la sua vita e se ne è fregato di molto ma non di tutto. Eppure si scusa perchè – e questo è da Bruce – vuole bene alla sua vecchia. La madre, come concetto, in Springsteen è sempre una cosa positiva, ma questa volta c’è qualcosa di diverso: “I was no more than a kid when you put on the Southern Queen, with the police on my back I fled to New Orleans”.
Per sottrarlo agli sbirri la mamma lo carica su un battello diretto a New Orleans. In questo modo lo salva, è vero, ma decide anche il suo destino: il ragazzino combatterà negli incontri clandestini che si tenevano presso i moli del porto – fight was my home and blood was my trade – dice il picchiatore: sua casa è il combattimento, il sangue il suo commercio.
La mamma non se lo accolla il picchiatore. Non è una cattiva madre, probabilmente, e il figlio le vuole bene, ma l’unica cosa che ha saputo fare è levarselo dai coglioni. E lui dovrà cavarsela da solo, come può.

A questo genere di disperato manca la finalità riscattatoria dei personaggi di The Ghost of Tom Joad
oppressi dalla grande depressione, dal capitalismo e dai padroni; d’altra parte è un soggetto troppo “antico” per poter appartenere al pantheon degli anti eroi di Nebraska che sono tutti più o meno calati in contesti suburbani fatti di auto usate, disoccupati sbroccati e amori alienanti vissuti con gli spiccioli che Mamma America dimentica di raccogliere dagli stabilimenti industriali in liquidazione.
The Hitter è un disperato a sé e allo stesso tempo uno sfigato tout court, uno che non ha mai avuto la possibilità di essere altro da ciò che è stato.
Al fondo il picchiatore non è un criminale, un delinquentello da strada, ma un rozzo povero di spirito che non si aspetta nessuna redenzione. Per lui è un problema che non esiste.

Nel corso dell’intero brano si ripercorre la storia di quest’uomo, dalla sua fuga a New Orleans fino al momento in cui la canzone avviene e cioè quella particolare sera di pioggia mentre si trova a passare dalle parti di casa di sua madre.
Madre che non fiata nemmeno: a lei viene chiesto solo di lasciarlo riposare un attimo prima di riprendere la strada.
Strada che stavolta è la Storia.
Normalmente in Bruce avviene l’esatto contrario: è la storia che è la strada perchè è solo in strada che possono svolgersi le storie. Diceva il boss di qualche anno prima: “Out in the street i just feel alright”, solo in strada mi sento bene. Ed è in strada che avviene la redenzione di Mary e del suo lui in Thunder Road; in strada si gira il musical di Jungleland, per strada muore The Angel, sono le strade dei bassifondi, Badlands, la scenografia di tutto Darkness on the edge of Town.
In The Hitter avviene questa inversione tematica e così l’universo springsteeniano raggiunge una dimensione storiografica. È il racconto di un reietto, di un non protagonista e avviene NELLA storia. Non ci sono strade in questa canzone; solo esterni, al limite.

La storia si insinua con riferimenti a cose, la Southern Queen è esistita, anzi, credo esista tutt’ora e a persone, pugili, come Champion Jack Thompson ovvero Cecil Lewis “Jack” Thompson (1904-1946) campione dei pesi welter nel 1928 che The Hitter pare abbia sbattuto al tappeto in un imprecisato campo infangato.
I combattimenti clandestini, il porto, i battelli, i campioni di boxe sono fotogrammi in seppia dell’immaginario americano, sono un passato tanto più remoto quanto più elevata è stata la velocità della storia degli U.S.A. nel secolo scorso. E dunque The Hitter ci mostra un Bruce Sprigsteen alle prese con qualcosa di diverso dalle semplici “radici”, si fa antichità lui stesso.
Ancora, la convivenza tra il passato del flashback narrativo del pugile che rivede la sua vita e il presente di questo soliloquio in presenza di sua madre rimanda ad un risvolto credo trascurato dai più.
Chi ascolta la canzone dà per scontato che la madre del picchiatore abbia aperto la porta e, fattolo entrare, si sia sorbita tutta ’sta storia senza fiatare. In realtà, nela variazione armonica (il bridge), che pur contiene l’unico dettaglio fisico della madre – i dark eyes che lo fissano mentre lei ascolta - non ci danno certezze.
I asked you for nothing not a kiss, not a smile...” sembra il genere di frase che dice uno che sta perorando la sua causa, non uno che sta sbracato su una poltrona a sorseggiare quel qualcosa di caldo che una madre dovrebbe preparargli in queste occasioni. Suona un po’ come: “...e forza mà, fammi entrare..”
Perciò sono giunto alla conclusione che a The Hitter la madre NEMMENO GLI APRE. E i dark eyes il picchiatore può vederli solo attraverso lo spiraglio che lei gli concede:quello di una porta tenuta da un catenaccio, tra lo stipite e la porta stessa.

Non è un caso che la canzone termini con il nostro che, lasciata la madre, recupera l’unica dimensione a lui nota con l’ennesima scazzottata, l’unico luogo in cui torna ad essere uomo, l’unico uomo che è riuscito ad essere.

The Hitter, molto più di Devils and Dust è una parabola sul militare americano.
Molto più elegantemente accede alla Bellezza con la maiuscola per la scelta di impattare sull’ascoltatore esclusivamente con la narrazione.
Non a caso il tessuto sonoro – di matrice profondissimamente folk – è scarnissimo, sommesso più che intimo, elegiaco, definitivo.
È la consapevolezza della maledizione che una guerra ti lascia dentro.
Il commercio di sangue del picchiatore è il commercio di sangue del soldato americano-tipo. Un ragazzino mediamente testa di cazzo, poco istruito, poco sensibile, spedito ad uccidere con la consapevolezza di andare a farlo unicamente perchè a casa non c’era altro da fare. L’esportazione della democrazia non è affar suo e lui lo ha capito. E sua madre, impotente perché non ha potuto salvarlo da questo (o non ha voluto), perché non ha potuto preservarlo dall’arruolamento, non può neanche condividere le vergogne del figlio – che avrà ucciso forse per non essere ucciso – perché la vergogna che lei stessa porta dentro è troppo grande.
E così non apre l’uscio.

Il silenzio di The Hitter è desolante, è un colpo di genio, il modo migliore per far passare il brano inosservato. Stavolta non ci si rifà a Steinbeck, stavolta lo si diventa.

Nell’incuria più totale The Hitter è e sarà sempre uno dei capolavori assoluti di Bruce Springsteen, una di quelle canzoni per le quali varrebbe la pena perdonargli qualunque disco di merda lui abbia fatto, e che in questi anni non ha certo lesinato.
In seguito, molto più risalto è stato dato ad un altro pezzo su un combattente, “The Wrestler”, diventato colonna sonora dell’omonimo film di Darren Aronofsky ma, come il mondo del wrestling è fatuo e inautentico, così il pugilato, la nobile arte, è reale e ben più adatto a farsi metafora di un’attualità ancora attuale e che forse Bruce Sprigsteen depreca più di quanto la sua funzione di autoelettosi “Cantore degli americani” (ma d’altra parte se non lo fa lui, chi lo dovrebbe fare?) gli permette di mostrare.

Qui io ho visto ancora una volta il grande artista.
Nel picchiatore non ho trovato me stesso come altre volte, eppure ho sentito così vicino il vocione un po’ scazzato, da giuggiolone, che Sprigsteen sfodera per cantare questo pezzo che, alla fine, non ho potuto far altro che dare seguito al finale della storia.
Mi sono commosso.
E ho cominciato a pensare di iscrivermi a pre-pugilistica.

20 febbraio 2012

vestirsi al buio

Io la fissa e l'attesa per il disco nuovo di Peter Broderick l'ho capita e l'ho condivisa. Lui è uno dei pochi che quando parla vale la pena di fermarsi ad ascoltare. Ha talento, sa dove andare e soprattutto ha un gusto per il sobrio che me l'hanno fatto apprezzare. Quando ho saputo che c'era un suo disco nuovo in streaming ero contento, e ho fermato addirittura Billie Holiday.
Poi vabbé, l'ho ascoltato.
E per carità, non è che il disco non mi sia piaciuto, sebbene anche nelle sue parti migliori non è niente per cui strapparsi i capelli, ma mi ha un pochetto deluso. Deluso nel senso Peter-da-te-non-me-l'aspettavo.
Ora: non ho né voglia né intenzione di parlare del disco di Peter Broderick: esce per Bella Union che è la cocca della stampa indipendente (e vorrei pure vedere), pitchfork ha il cazzo duro da settimane, insomma tra qualche giorno di questo disco ne parlerà anche Cronaca Vera.
Piuttosto, ciò che mi viene in mente è l'epidemia dalla quale sembra che anche il bimbo prodigio più amato dalle donne sembra non sia riuscito a salvarsi, e cioè quella della luccicanza. Mo' mi spiego meglio.

Nel suo ultimo pezzo, il cuoco stava riflettendo sul fatto che pochi dischi usciti ultimamente sono stati in grado di emozionarlo. Ora, lui ha una regione di osservazione radicalmente differente dalla mia, ma entrambi siamo così rompicoglioni proprio perché aspettiamo sempre qualcosa che cambi la vita, o almeno il battito cardiaco: devo dire che negli ultimi anni qualcosa in grado di farlo l'ho anche ascoltato - mo' insomma non è che sono diventato uno zombie come Assante che ancora va dicendo che il rock è morto: a me i Fleet Foxes mi hanno commosso, e A.A. Bondy e gli Arcade Fire e i Band of Horses e certe cose dei Bombay Bicycle Club pure, però devo dire che rispetto alla quantità STERMINATA di materiale che esce ogni giorno, sono pochissime le cose che mi colpiscono veramente, le cose per le quali farei spazio nella mia stanza,spenderei dei soldi. Non credo, infine, che si tratti semplicemente di un fatto statistico: siamo tutti d'accordo che in 70 anni di discografia la robaccia ha sempre battuto almeno 50 a 1 la roba buona, almeno quantitativamente. Credo piuttosto che sia un discorso di zeitgeist, e qui finalmente arriviamo a bomba.

Io che a quanto pare ho un MUCCHIO di tempo da perdere, ascolto praticamente qualsiasi cosa esca che non sia techno, reggae, poetastri italiani o RAC. Se esce qualcosa, è abbastanza verosimile che almeno un minuto di attenzione gliela dedicherò. A me la musica piace, è inutile che faccio il vago, e in lei ci credo e ci SPERO. Eppure ci sono periodi in cui la musica mi sembra mediamente peggiore, come se il plateau su cui poi svettano i picchi fosse più basso. E questo, signori, è uno di quelli.

Vedi, cuoco, a me non stupisce che la musica del 2012 (quel tipo di musica del 2012 che da ora in poi chiameremo musicadel2012) non ti emozioni, perché salta fuori che non sia questa la sua missione.
Pensala così: in un contesto artistico-musicale in cui il dibattito più ricco è quello sul revival - o meglio, su quanto il revival sia la matrice dell'atto musicale odierno -, la musica è affannata nel cercare di assomigliare il più possibile a qualcosa di già occorso nel passato. Ci mancherebbe: gli stessi Fleet Foxes marcano 1971, e solo in un periodo come questo hanno senso il Wall of sound 2.0 o un'intera etichetta come la Daptone. Ne parlavamo l'altra sera, ricordi? Tu eri un po' ubriaco ma io no. Tralasciamo pure il fatto che una musica che cerchi così disperatamente una legittimazione nel suono del passato ha dei seri problemi di autostima e pure qualche contrattempo edipico. Piuttosto:
Ricordi cosa diceva Adorno? La categoria principale di ascoltatori attinge nel serbatoio dei consumatori di cultura: la musica, come il cinema, i film, e anche i libri - ahimé - è un orpello da indossare come un cappotto nuovo, e il paragone con l'abbigliamento non è tirato per i capelli, mo' ti dico, porta pazienzae seguimi.

La tendenza principale del revivalismo del 2012 - che è solo DIVERSO da quello per esempio del 2002: abbiamo revival da quando abbiamo dischi, non prendiamoci per il culo - è il ripescaggio degli atteggiamenti musicali della prima metà degli anni 80. Hai letto bene, ho scritto atteggiamenti musicali e non musica. Il periodo di osservazione privilegiato in questo momento è infatti un periodo in cui la diffusione della tecnologia ha generato un pop sintetico (e ok) ma fatto di giustapposizioni più dettate dalla curiosità e dal capriccio che da una visione d'insieme (come gli agghiaccianti abbinamenti rosa/marrone/celeste che vedi addosso alla gente al Fanfulla).
La neo-eccitazione per la disponibilità di gadget musicali sposta l'attenzione dal cosa mettere nelle canzoni a come metterci sopra: proprio come sono pochi quelli che resistono alla tentazione di provare tutti gli effetti della pedaliera appena comprata, la musicadel2012 è distratta dal dimostrare quanto può essere ESATTAMENTE fedele ai suoi bruttissimi modelli di 30 anni prima. Pazienza, insomma, che le Superga puzzano: noi ce le mettiamo uguale perché è vintage.
Certo, tu mi dirai Anche il punk e il garage sono partiti dal desiderio di emulazione e dalla tecnologia a basso costo, ma qui non parliamo di disagiati che rimediano alla rabbia col volume, quanto di persone che - almeno a sentire ciò che fanno - si ANNOIANO e, nella fretta di arrivare a conclusioni che è la primogenita del terzo millennio, decidono che è ennui e la mettono nella musica. Oltre a non sentire il cazzo (non c'è soul, cuoco, nemmeno un po'), nella maggioranza della musicadel2012 non sento nemmeno urgenza, bisogno.
L'intenzione, per come si sta riproponendo, è stupire e - presuntuosamente - fondare nuovamente un'estetica del kitsch che, alla continua ricerca di un nuovo e più nauseante accostamento, non ha tempo per approfondire il contenuto. Veloce e feroce come un uragano di detriti, la musicadel2012 è una musica che devi avere il coraggio di portare per strada come i tirabaci, una musica con cui essere d'accordo più che in sintonia, e che riflette la necessità dei 20enni di questa generazione di apparire più vecchi (dai cazzo, la PERMANENTE?!?) e più ricchi; in culo alla precarietà e all'insicurezza planetarie, la  totale, orizzontale e inorganizzata musicadel2012 fa ballare di nuovo come macchine, manifestando la testa che vince sul cuore, la volontà che vince sulla necessità, ed elitarismo: proprio come i Rayban da una piotta e mezza per leggere meglio le notizie che arrivano da piazza Syntagma.
Esattamente come nella prima metà degli anni 80, la musica di questi ultimissimi anni è la musica più BIANCA e borghese che ho sentito da un po', fredda ed esatta come i Casio che hanno marcato zimbello per tutta la nostra infanzia.

È per questo che ho rosicato quando ANCHE nel disco nuovo di Broderick sono apparsi i coretti all'unisono o il tema cantato dalla voce tenorile (l'equivalente musicale insomma del mocassino, degli accessori kitsch): ho rosicato perché anche lui che ricordavo orientato a una certa sobrietà un po' romantica non ha saputo evitare di indulgere al patinare per bene la superficie, trascurando che i pezzi sì, insomma, ma alla fine vi dirò. Anche questo suo http://www.itstartshear.com/ si inserisce nel filone della musicadel2012 che è revivalista nel linguaggio, nel modo di essere concepita, sulle orme del rococo à la Bon Iver (la traduzione musicale di Instagram, praticamente) che se avremo pazienza - e se ci dirà culo - sarà però seguito da una nuova ondata integralista, che a questo punto non potrà fare altro che spogliare la musica di questi cosmetici vivaci e di questi pizzi che la rendono un po' svampita un po' mignotta, e riporti all'attenzione la sua essenza - il cazzo di songwriting, insomma, quello che se non ce l'hai ti attacchi al cazzo e BASTA.
E basta, appunto.

13 febbraio 2012

Una nota da diario

Per evitare che pensiate che mi mobilito solo per eventi riguardanti Springsteen e affini torno sul blog per parlare d’altro.
Tra l'altro, il nuovo album di Springsteen s’appresta, il singolo non mi è piaciuto e prima di venire colto dall’ennesimo travaso di bile per lo svuotamento che ha subìto la sua scrittura nell’ultimo decennio ho preferito tornare a scrivere per moventi diversi.
In questi giorni - dopo più di un anno di garage - la mia collezione di dischi è finalmente rientrata a casa nella sua totalità.
Immaginate di aver dovuto passare un periodo consistente di tempo lontano dalla vostra collezione; immaginate di aver avuto solo il computer e un lettore mp3 come enti eroganti musica per circa un anno e mezzo/due. E, infine, immaginate di tornare finalmente alle vostre cose, ai vostri dischi e di trovare la situazione cambiata. La storia che quelle pile e pile di dischi raccontano di voi, il valore, il significato di ogni singolo pezzo sono diventati un’altra cosa.
Più di quanto incida sul vostro mutevole gusto il normale scorrere del tempo, la “vacanza” forzata appena conclusasi – portatrice anch’essa di nuovi stimoli e visioni – decide dello status quo del momento attuale. La “vacanza”, come distanza - distanza evidentemente emotiva oltre che fisica – ha modificato il vostro punto di osservazione e, con esso, la vostra visione. Rimirate i titoli uno dopo l’altro; magari vi scappa un sorriso per aver ritrovato un vecchio amico, cioè un disco cui siete legati o magari vi chiedete, vedendone un altro: “e tu che cazzo ci fai qui?”.
Ora, voi potete pure imputarmi di scoprire l’acqua calda ma vi giuro che costruire un’epica di se stessi è un lavoraccio e la musica può aiutare molto da questo punto di vista: insomma non è un’esperienza piana e di ordinaria leggibilità ritrovarsi a quasi 40 anni con dischi che oggi, suscitando dubbi su se stessi, suscitano, transitivamente, dubbi su VOI stessi.
Non è tutto.

Ravviso, da un po’ di tempo, una cortocircuitazione emotiva rispetto all’esperienza dell’ascolto e mi faccio domande: il fatto che non mi ingrifo più come un dì all’ascolto di un album è imputabile ad una vita in cui la lotta tra squali e dinosauri piuttosto che il destino di Capitan Uncino hanno preso il sopravvento sul godimento della scritttura di Holland & Dozier o degli arrangiamenti di Timber Timbre oppure è che stiamo storicamente attraversando un periodo di riflusso delle urgenze?
Consumando come è mio uso la stampa musicale, mi ritrovo orfano di quell’entusiasmo che trasuda dalle recensioni e che invece non trasuda più da ME. A fronte di segnalazioni di dischi di pregio la mia risposta emotiva è sovente disillusa; sempre più di rado leggo dietro il pregio delle forme quella SOSTANZA che muove le umane cose, le umane genti e sovrintende all’accoppiamento alla copula e ai grandi mutamenti della civiltà.
Scorrono allora dinanzi a me i titoli degli album in cui anche per una sola settimana mi sono riconosciuto: dischi che ho deciso di esibire sui miei scaffali perchè una collezione di dischi è anche questo, esibizione, pisellometria.
Scorrono quelli che ho deciso di serbare dentro un hard disk in attesa di acquisto o masterizzazione.
Scorrono un po’ troppo, scorrono in troppi.
I primi a causa del cortocircuito storico, del tempo che passa, dell’acqua passata che non macina più. I secondi a causa del cortocircuito del presente, dell’indifferenza dell’orecchio dell’ascoltatore. La vita che cambia e ti cambia? Il sovraccarico d’informazione? L’inizio dello spegnimento? Eccesso di consapevolezza della serie “beati i poveri di spirito”? Voglio credere di no. E non per credere ancora un po’ nella mia transitoria esistenza o nel suo significato ma per credere ancora nella musica e nel suo secolare contributo.

Richard Middleton nel suo Studiare la popular music fa riferimento ai meccanismi (industriali, mediatici, socio-politici) che sussumono il disagio giovanile per metterlo a sistema nonché a bilancio. Riletta così la storia dell rock’n’roll diventa una storia di venduti talmente strafatti da non accorgersi nemmeno di esserlo e di venduti talmente contenti da non preoccuparsene affatto. E dunque quello che ci è arrivato è solo quello che è stato permesso arrivasse alle nostre orecchie, cuori, anime, lombi.
Non solo: sembra che nel confezionare un suono che fosse “Spirito del tempo”, considerando la variabile “Tempo” come soggetta alle compressioni più efferate e dunque inducendo a repentini cambiamenti di indirizzo la massa ascoltante, possiamo ritenere possibile che a forza di confezionare ci si sia fatti prendere la mano proprio dalla confezione.
Lo dissero i Clash, dopotutto:” You think it’s funny turning rebellion into money?”. A onor del vero a loro successe esattamente questo ma, comunque... it ain’t funny.

Facciamo qualche esempio
Liz Green è una scoperta recente, il suo disco O’ devotion (2012) si presenta nelle dismesse vesti di un impianto pre-war, con la strumentazione ridotta ad una chitarra pizzicata sempre più o meno allo stesso modo e una sezione di ottoni che entra sempre più o meno allo stesso modo a commento o sostegno delle composizioni. La dinamica tra gli strumenti in gioco diventa nota al quarto pezzo e le sorprese finiscono. Il disco è ritenuto buono, le recensioni ne dicono bene e in effetti possiede tutti i clichè di un disco buono.
Chain & the Gang sono in giro penso da un po’ più di tempo, hanno adottato un’attitudine garage con sporcature black (potremmo definirla un formula detroit style degli anni zero), si pregiano di un cantato ubriaco alternato ad uno spoken abbastanza stonato e personale da non indugiare in tardi “Loureedismi” deprecabili per definizione. Formalmente si presentano al meglio per scelta dei suoni ed informalità superficiale. Roba da giacchetto di pelle nera con maglietta bianca sotto al concerto.
Pete Molinari lo diremmo uno che tramanda, uno che ha scelto le vie della tradizione. L’impianto della sua musica è diurno senza romperti necessariamente il cazzo col fatto che il sole splende in cielo. Può essere giorno fatto ok, ma il cielo può essere velato, il vento può darti noia, e la mamma può essere lontana. Chitarre pulite, “cristalline” direbbero quelli del Buscadero, scrittura lucida e di basso profilo, una versione meno timida ma anche meno complessa e affascinante di M. Ward. Buonino.
Ognuno dei prodotti summenzionati è fatto ad arte ma sembra pensato per giocarsi tutto al primo, secondo ascolto. Messi alla prova sulla lunga distanza sono solo intrattenimento ben confezionato ma sul mio scaffale forse non ce li metterò. E come loro tanti altri, di oggi e di ieri.
Questo scisma tra musica e autobiografia si nutre male per scarsità di sostanza ed io languisco. Utilizzare ad arte inflessioni stilistiche, citazioni eleganti, scenari rassicuranti in cui potersi accomodare senza il benchè minimo sussulto non mi restituirà l’anima che la musica anni fa mi ha rubato. Non è poi difficile parlare con la panza e nessuno ti rimprovera se non sei riuscito a scrivere Darkness on the edge of town, il punto è che CI DEVI ALMENO PROVARE!
Perché tutto sembra rinviare ad un melange di epoche passate nella musica che incontro oggi ma niente mi aiuta a vivere in questa. E allora eccolo, l’intrattenimento. Intrattenuti in attesa del prossimo momento storico. Giungeremo sguarniti per carenza di sostanza del momento storico precedente?
No, voglio ripropormi il bisogno di ritrovare urgenze autentiche, voglio esigere da chi fa musica che si giochi qualcosina in più delle lezioncine sui propri ascolti e su come li ha assorbiti bene.
Voglio che ci provi, che ci stia dentro. Ed io voglio rituffarmi in quel magnifico gioco che è “Pizzicare l’impostore” incontrando le mille difficoltà di chi ha di fronte un’impostura ben pensata e giubilando di fronte a qualcosa di VERO.
E voglio riconquistare il mio diritto ad illudermi perchè ultimamente la musica mi sembra venga fatta solo per farmi viaggiare comodamente sbracato su un divano davanti a due casse.

Mi passa per le mani Dog in the sand di Frank Black & the catholics, quel disco l’ho adorato e ora non mi fa più niente; Gentleman Blues dei Cracker con cui ho elaborato una separazione: ne vedo tutti i difetti; Elvis Costello, Delivery man, cui ho nobilitato la masterizzazione contraffacendone copertina e custodia e facendolo sembrare un disco originale è finito in una bustina trasparente di plastica recando con sé la copertina scannerizzata a memoria imperitura di quando bastava AVERLI i dischi per essere felici, anche se non erano originali.
Ripercorro la mia storia e mi sorprendo commosso stringendo tra le mani Smoking in the fields dei Del Fuegos (per fortuna su vinile) e tornando a quante salvate mi ha fornito questo bolso album di rock FM da strada con una bar-band prodotta come se dovesse suonare a San Siro.
Sono anch’essi, senza dubbio, contributi a quello scenario dipinto ad arte dall’industria dell’intrattenimento: oggi languiscono nelle loro carenze ma a suo tempo sono serviti a qualcosa.
Sono la mia storia, le mie glorie e vittorie, i miei sbagli.In attesa di collezionarne di ulteriori, rimiro questi qua.

La prossima volta parleremo invece di chi aggira tutte le mie pastoie esistenziali facendo le cose e basta e facendole come si deve.
Ma questa è un’altra storia.