4 febbraio 2011

non inventate nulla, non negate nulla

David Mamet:
I tre usi del coltello
Minimum fax - 2002

Sempre il mio amico che mi ha regalato il libro sul potere, ha voluto farmi dare un’occhiata a un libro che si chiama “I tre usi del coltello” di David Mamet, che è uno sceneggiatore e drammaturgo americano – che per chi non lo sapesse è il genio dietro Glengarry Glen Ross, che in Italia era uscito sotto lo sventurato e severgniniano titolo di Americani. Mah, vabé.
Stavolta però il mio amico un motivo ce l’aveva, e cioè che gli avevo chiesto delle dritte per scrivere e allora non gli è venuto in mente niente di meglio, e onestamente non verrebbe niente di meglio nemmeno a me.
“I tre usi del coltello” è in realtà una raccolta di saggi e scritti sul cinema e sulla sceneggiatura edita da Minimum Fax, che contiene la summa dell’estetica Mamet, completamente sbilanciata verso il minimalismo di Ejsenstein piuttosto che verso l’assorbimento di Stanislavskij, nei confronti del quale, e del cui metodo è un aspro critico.
La storia, dice Mamet, sta al centro di tutto: dei problemi dello scrittore e delle preoccupazioni dell’attore. Tutti gli sforzi da parte di tutti i reparti della compagnia o della produzione devono essere concentrati a raccontare la storia nella maniera più efficace e meno enfatizzata possibile, lasciando cadere qualsiasi artificio o accessorio non necessari al diretto progresso della vicenda: in quest’ottica, perfino il personaggio, perno di tanto cinema hollywoodiano, diventa uno degli ingranaggi della storia, un interruttore che poco importa quali risvolti o quali trascorsi possa avere.
Il personaggio non esiste, approfondisce Mamet a più riprese in una porzione del libro dedicata al lavoro dell’attore: non importa in che quartieri sia nato o che marca di bourbon preferisca. Il personaggio non è altro che l’insieme delle scelte compiute e delle azioni svolte per perseguire il suo scopo. Va da sé, l’attore non ha bisogno di porsi questioni che non rientrano nel campo dell’azione, o immedesimarsi completamente nella propria parte: l’attore è un grande attore, nella visione di Mamet, quando riesce a pronunciare le proprie battute in maniera chiara, diretta e non enfatizzata, lasciando semmai allo sceneggiatore la scelta se far luce o meno sui lati del suo carattere che saranno più utili alla comprensione dell’obiettivo in questione. Non inventare nulla e non negare nulla, insomma: non aggiungere niente di superfluo ma al tempo stesso non nascondere il proprio vissuto di persona, essenziale comunque nel rendere autentica la recitazione e dunque la vicenda, da servire a un pubblico che nel suo insieme è più intelligente e di conseguenza più esigente di quanto si presupponga (forse unica ingenuità di Mamet, se proprio volete sapere la mia).
Ampio – e devastante, ve l’assicuro – capitolo del libro è la trascrizione di un incontro-lezione tra Mamet e allievi di un seminario di scrittura, nel quale lo scrittore si fa largo a colpi di cesoie tra le idee lanciate, continuando a porre la domanda più difficile: “A cosa serve nella nostra storia, come quest’elemento farà progredire la vicenda?” Arrivare all’essenziale si dimostra dunque il compito più difficile da svolgere, e mille sono le insidie che si possono celare nel percorso dell’eroe, reso impervio da un linguaggio teatrale e cinematografico che spesso tralascia l’azione a scapito di elementi di corredo, o almeno giudicati tali almeno nell’estetica Mametiana. La costruzione di una semplice scena, elemento sostanziale di cui si compone ognuno dei tre atti aristotelici diventa dunque una sfida all’ovvietà e una ricerca dell’essenza stessa del concetto base della storia, che spesso – riporta e cita – è racchiuso in una sola parola fondamentale.
La lettura di “I tre usi del coltello”, titolo preso da un blues di Leadbelly in cui i versi fanno specifico riferimento al coltello visto come elemento che benché chiave di interpretazione non riesce mai a smettere di se stesso e oggetto della vicenda, è sfiancante quanto costruttiva, un incendio purificatore per chiunque – come me, ammetto – intenda addentrarsi nel linguaggio narrativo, che sia questo applicato a un’opera fruibile da un pubblico in sala o in poltrona, occhi sullo schermo o sulle pagine. Proprio come insegna Mamet in maniera implacabile ai suoi allievi, bisogna raggiungere lo zero per ricominciare a costruire.
Statene alla larga, insomma, o siate coraggiosi: vi farà a pezzi.

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