13 gennaio 2011

come diventare stronzi

Robert Greene e Joost Elffers (ed.)
Le 48 leggi del potere
Baldini & Castoldi - 2003

Non sono del tutto sicuro del motivo per cui a un mio amico sia apparso urgente dovermi regalare questo libro. Cioè, per certi versi capisco che fosse un periodo in cui mi serviva un po’ più di autorità e freddezza e polso nei miei stessi confronti in primis, e in più il mio caro amico mi aveva avvertito che questo libro mi avrebbe probabilmente reso un calloso superomista o un cinico nazista. Il che fa ridere perché sa meglio di me che non voglio diventare niente del genere. Un nazista, intendo.
Il libro in questione è “Le 48 leggi del potere”, curato da Robert Greene e Joost Elffers, un corposo vademecum di 600 e passa pagine sul come farsi crescere il pelo sullo stomaco traendo spunto e insegnamento da valanghe di esempi, aneddoti storici e parabole letterarie. Il tutto, manco a dirlo, inteso ad avvalorare la tesi goebbels-darwiniana per la quale solo il più forte e il più bastardo sono destinati a sopravvivere. Di queste 48 leggi, ognuna corredata di sterminati riferimenti e richiami, alcune sono semplici varianti di un ceppo principale (tendere a tacere, curare l’apparenza e l’aspetto, nascondere le proprie intenzioni e soprattutto essere implacabili implacabili implacabili nel perseguimento del proprio obiettivo), per cui si insinua il dubbio che magari si potevano anche ridurre a una quarantina scarsa, ma poco importa. Poco importa anche che alcuni di essi si mostrino parzialmente contraddittori, come quello relativo al concentrarsi su un solo obiettivo accanto al dettame di non asservirsi a un solo scopo. D’altronde, il libro insegna anche a usare diversi approcci a seconda del proprio scopo. (Maledizione, sono contagiato).
Ciò che importa, al contrario, è la visione del mondo come una vasca senza fondo piena di squali, da affrontare con tutte le risorse a propria disposizione, e la clinica spietatezza con cui la visione del potere come obiettivo astratto viene posta davanti e prima di tutti: amici, parenti, familiari, etica, buoni pasto.
Greene e Elffers non specificano infatti in cosa, dopotutto, consista il potere: se sia questo il successo, affermazione, realizzazione di sé o esercizio incontrastato di una volontà su un’altra, non hanno nemmeno bisogno di delinearlo. Il potere è il raggiungimento di uno scopo, di un obiettivo, di un McGuffin hitchcockiano che poi lo sapete solo voi cos’è, se avete bisogno di sfogliare queste pagine – cosa che francamente non mi auguro e non vi auguro.
Personalmente, nonostante i gustosissimi e numerosissimi episodi citati nel libro (che prende a mani basse dalle biografie di truffatori, seduttori o peggio: uomini di stato), non ho potuto che ingoiare con una smorfia questa imponente bibbia della manipolazione delle menti ma anche dei sentimenti altrui, in cui perfino umiltà, onestà e sincerità sono espedienti e carte da giocarsi per buttarlo in quel posto al prossimo. Probabilmente ognuno di noi ha bene in mente moltissimi dei trucchi da opportunista che questo libro consiglia a bizzeffe, ed è forse solo la loro quantità e la loro concentrazione a renderli un po’ indigesti.
Però poi fa venire voglia di Rodari.

3 gennaio 2011

sì però adesso portami a mangiare, tom

Tom Robbins
Feroci invalidi di ritorno dai paesi caldi

Stamattina chiedevo al mio amico libraio di consigliarmi qualcosa nonostante gli avessi fatto notare che finora avesse preso un libro su due. Quello che c’aveva preso era A confederacy of dunces, di John Kennedy Toole, di cui non ho intenzione di parlare ora.
Quello che invece non c’aveva preso proprio era Feroci invalidi di ritorno dai paesi caldi, di Tom Robbins (che devo sempre pensarci su due volte per non confondermi con Tim Robbins, che sarà anche bravo ma non scrive libri). Il libro in questione, un bel tomo Baldini & Castoldi da quasi cinquecento pagine che trasuda cheapness da ogni font, narra la storia di un tale Switters, un agente della CIA che si ritrova in giro per il mondo a fare non si sa bene cosa, non si sa bene per quale motivo.
Dice bene il risvoltista nelle prime tre righe: il romanzo è un pretesto per la sua esibizione. Di fatto la narrazione non fa altro che seguire il buon agente originario di una Seattle piatta e piovosa nelle sue peripezie esteriori e interiori, e gettare in pasto al lettore le scintille che le sue variopinte esperienze fanno sbattendo contro la sua interiorità e il suo articolato apparato culturale, in grado di elevarlo dalle circostanze verso un’astrazione e una riflessione sull’umano piuttosto brillante e convincente.
Switters si ritroverà in una gaudente vacanza in Thailandia con un suo saggio collega a riflettere sul desiderio, ci racconterà di come strafatto di ecstasy si farà convincere dalla sua nonna hacker a liberare il suo pappagallo in Amazzonia, e altre bizzarre faccende di cui spesso e volentieri persino lui stesso ignora i motivi o il significato. Il tutto è chiaramente un dispositivo per una – abbiamo già detto – interessantissima analisi sull’assurdita di ciò che facciamo e del perché, sul senso della missione e dell’obiettivo come persone.
E allora perché ho abbandonato questo libro?
Perché troppo spesso, nelle prime duecento pagine che delimitano il viaggio che ho percorso all’interno di questo libro, mi sono chiesto e ho chiesto al buon Tom Robbins: “Ma che me lo stai dicendo a fare?”. Attenzione: non il legittimo e necessario “Perché mi stai dicendo questo?”, la domanda che ti spinge a voltare pagina, a desiderare che l’intreccio si dipani e finalmente l’eroe abbia di fronte la risoluzione – o la negazione – del suo desiderio. Non so, insomma, se alla fine Switters riuscirà a congiungersi con la sorellastra adolescente Suzy, la purezza e la quiete che si augura fin dall’inizio in maniera anche piuttosto evidente, o se ‘sto pappagallo vecchio come sua nonna riuscirà a morire nel suo habitat naturale. Perché?
Quando porti la tua donna fuori a cena ti può capitare che nell’eccesso di premura o calcolando male il traffico ti ritrovi in un anticipo mostruoso. Ciononostante siete tutti vestiti e in macchina e dovete ammazzare almeno una mezz’ora di tempo. Puoi portarla a fare un giro lungo, chiacchierando e ascoltando un po’ di musica. Se magari sei preso bene e ti va di aumentare il senso di attesa nei confronti della serata è possibile che il giro si protragga ulteriormente e potresti far prendere la mano a vagare per strade laterali o per percorsi che nella tua testa prima o poi si ricongiungeranno a due passi del ristorante dove la tua prenotazione non è ancora abbastanza matura per essere raccolta.
È un pensiero carino, ci mancherebbe, ma tocca andarci piano: nessuno vuole che la signorina inizi a lamentarsi di avere fame, o peggio, confessi che ormai, dopo tutte queste curve e queste frenate e accelerazioni, le sia passata e che grazie ma no grazie.
Capito, Tom?