15 dicembre 2007

Il Punk e l'attitudine "Faccio quello che voglio"

I Disco Drive sono un gruppo che mi piace. Li ho anche visti dal vivo qualche tempo fa, e non sono male. Li ho recensiti molto bene perché mi hanno fatto divertire. Però, hanno questo problema di fondo, che è il classico fraintendimento sull'attitudine punk.

Riporto da RockIt Mag:

Domanda: ”Continuate a definirvi un gruppo punk…”
Risposta: “Un gruppo punk nel 2007 non può suonare come I Ramones [è un punto di vista opinabile, ma ci può stare], il gruppo punk del 2007 sono i Deerhunter [avrei qualcosa da ridire, ma non è di questo che voglio parlare]. Il punk sono (…) quei gruppi che tendenzialmente fanno quello che vogliono. Questo è punk.”


La mia risposta: “MA NO!!! Non è vero, sarebbe un attimino troppo facile...”

Il peggio non sta nella castroneria in sé, né nell'ignoranza di fondo, ma nel pretendere di essere Punk rifilandoci i soliti stereotipi adolescenziali. Questo tipo di attitudine che viene spacciata per punk è in realtà il prodotto della commercializzazione del genere. Sul libro American Hardcore, Steven Blush fa un interessante osservazione. Dice: il punk negli anni '70 ha iniziato a vendere parecchio (pensate ai Crass che vendono 5000 copie di un disco totalmente autoprodotto); le case discografiche, fiutando l'affare, decidono allora di prendere questo genere e rimodellarlo per renderlo più commerciabile. Ecco allora che compaiono gli occhialoni ed i cravattini per dargli un aspetto più presentabile. Ovviamente gli si dà un altro nome, perchè punk è troppo brutto. New Wave!

Il Steven Blush pensiero: ora, partiamo dal presupposto che se vuoi vendere tante unità di un certo prodotto per un periodo di tempo che sia il più lungo possibile, bisogna fare in modo che questo prodotto diventi moda, non bisogna semplicemente buttarlo sul mercato lasciando che finiscano le scorte. Le mode sono durature perchè qualche cretino trova una propria identità nel trend e, giustamente, non si può vivere senza un'identità. L'identità è un bene primario, e i venditori (di qualsiasi genere essi siano) lo sanno bene. Il punk però è sempre stato una faccenda complicata e piena di sfaccettature: c'erano i vegetariani, i pacifisti, i militanti, gli anarchici e quant'altro, insomma ne incarnava parecchie di idee – o se vogliamo valori (ma forse questa parola è meglio non usarla). Un'altra legge del mercato è che se vuoi vendere tante unità di un certo prodotto, questo prodotto deve avere un target che sia il più ampio possibile. Il punk così com'era, così come si è sviluppato nella sua indipendenza, era troppo complicato. Soprattutto un mondo nel quale se vai al bar a chiedere un panino vegetariano ti rifilano un panino tonno pomodoro e maionese.

Quindi, come si fa a semplificare il tutto nel modo più becero e commerciabile possibile? Basta ridurre al minimo comun denominatore l'attitudine “combattiamo contro tutti coloro che non ci permettono di vivere la nostra vita dignitosamente” riducendola al molto più semplice e meno attivistico “Facciamo quello che ci pare”.

Questo modo di fare mi ricorda un concerto al Traffic che mi è stato raccontato.
Situazione: Concerto di un gruppo “panc adolescenziale”
Intreccio: uno dei membri di cotal gruppo rompe non mi ricordo che cosa della strumentazione del Traffic giustificandosi con un semplice: “aò io so panc”
Colpo di scena: er Teg gli urla: “No, te sei 'n cojone!”
Questo, è il punk di cui parlano I Disco Drive.

Io sono sicuro che il gruppo torinese in questione non le faccia ’ste cazzate da ragazzini, e sono anche sicuro che magari con quella frase abbiano voluto semplicemente riassumere la faccenda. Ma io sono sempre dell'opinione che certe cose o vanno dette bene o non vanno dette, perché dirle male può portare a tristi conseguenze come quelle del sopracitato adolescente panc.

Potrei stare qui a scrivere cartelle intere su quessto argomento, ma non lo farò perché è una bella giornata e voglio farmi un giro in bici, quindi mi appresto a concludere elencando un paio di cose che mi fanno rodere il culo a riguardo.

Il fatto che queste cazzate le dicano gruppi underground di cui, in teoria, ci si dovrebbe fidare.
Il fatto che oramai si definisce punk qualsiasi stronzo senta musica mid-tempo.
Il fatto che queste stronzate i Disco Drive le abbiano dette ad un intervistatore che non ha battuto ciglio.
Il fatto che in Italia il giornalismo musicale lo faccia chi di musica non ci capisce un cazzo.
Il fatto che i giornalisti musicali pensano sia scortese fare domande provocanti ai musicisti.
Il fatto che la gente non si rende conto che i giornalisti musicali non ci capiscano un cazzo di musica.
Il fatto che se la gente continua a stare a sentire queste cazzate, i Babyshambles continueranno a riempire le sale concerti.

13 dicembre 2007

Rolling on the river. Ike Turner 1931-2007.

the all black scrive:
è morto ike turner e io gioco nel campionato di quelli che gli dispiace.

sybille scrive:
io gioco nel campionato di quelli che doveva morire diversi anni fa. linciato.

the all black scrive:
boh, io non nego le malefatte, ma così sarebbe come consegnare alla storia ray charles come eroinomane e pasolini come ricchione

sybille scrive:
cose assolutamente diverse.

the all black scrive:
mah
ike era un musicista di spessore
ben prima che arrivasse tina
era uno che aveva già fatto le fortune della chess

sybille scrive:
non credo lo sia stato fino alla fine
appunto
poteva morire prima, quand'era in tempo
si sarebbe conservato solo il ricordo di un grande musicista
ho una vena femminista, non riesco a dispiacermi

the all black scrive:
boh, io il ricordo lo conservo, scindendo l'idea del gran musicista dall'idea del gran testa di cazzo

sybille scrive:
si può essere teste di cazzo in molti modi.
io credo che chi picchia una donna debba passare la vita a scontarlo
ma ho una visione assai rigida di questa cosa. io considero violento uno che mi dice stronza
non faccio testo

the all black scrive:
su questo sono d'accordo. sono solo infastidito dal fatto che oggi i giornali titolano E' morto Ike Turner, marito violento di Tina.
sarebbe come dire E' morto Frank Sinatra, mafioso gaudente

sybille scrive:
vabbè, ma i giornali, lasciamo perdere. devono farsi capire dalla casalinga di voghera
capisci che a loro dello spessore non gliene frega una mazza

the all black scrive:

lo capisco bene: non mi rassegno, però
e non voglio nemmeno immaginare cosa ne scriverà il manifesto
sempre che voglia sprecarsi per parlare di un rockettaro.

sybille scrive:
lo so. fondiamo un nuovo quotidiano

the all black scrive:

ci sto
la pravda

sybille scrive:
guarda, prendendola da un altro verso, è la ragione per cui il direttore vuole scrivere un libro su chet baker
tutti hanno scritto roba su di lui. solo per tracciarne il lato oscuro, di quello che gli cadevano i denti, tanto era strafatto
poi, che fosse uno dei più grandi, emozionanti, commoventi musicisti mai esistiti, lo sanno in pochi

the all black scrive:
per forza, non fa presa

sybille scrive:
anche billie holiday. il libro su di lei più accreditato sostiene che fosse una donna con problemi mentali. ritardo psichico

the all black scrive:
ecco, per una volta rollingstone non è male
Ike Turner an essential and largely undervalued figure in the history of both rhythm & blues and rock & roll, died in his home in San Marcos, California, earlier today. He was seventy-six years old. The cause of his death is unknown at this time.

sybille scrive:
bravi
comunque, "muore ike turner. grande musicista, piccolo uomo" ci stava bene uguale

the all black scrive:
ma è uguale a scrivere muore billie holiday grande voce piccolo cervello o qualcosa del genere, non credi?

sybille scrive:
assolutamente no. perché in quel caso non è provato. è una teoria di un giornalista. invece ike si è guadagnato sul campo la sua fama

the all black scrive:
e anche grazie al film
che ha anche influito non poco

sybille scrive:
vabbè

the all black scrive:
posso copincollare la nostra conversazione sul blogghe?

sybille scrive:
era così interessante?

the all black scrive:
boh
non necessariamente deve essere COSI' interessante. è un blog, non è una cosa importante.

sybille scrive:
ok

8 dicembre 2007

panino del mese: mceyed peas

Ve lo dico io perché In Rainbows è il disco più importante degli ultimi dieci anni. Sette, anzi. Primo, perché abbiamo dovuto aspettare sette anni (da Kid A, per intenderci) per ascoltare una sintesi così elegante ed equilibrata di pop, sperimentazione, azzardo e tradizione. Ma per questo basta capirci un minimo di musica e dare un’ascoltata anche veloce al disco per capire che c’è dentro qualcosa di miracoloso che conferma i Radiohead tra i più grandi gruppi di tutti i tempi. E questo perché hanno capito la lezione di tutti i migliori (i Beatles e gli anni 60 ma non le fesserie hippie, gli U2 e gli anni 80 ma non la wave a righine da Circolo degli Artisti, i Pink Floyd ma non la spocchia e gli stronzi assoli di chitarra, l’elettronica ma non la masturbazione punta e clicca) e l’hanno rimescolata in maniera sapiente, autosufficiente (non c’è bisogno di conoscere i modelli per apprezzare la grandezza il risultato finale) e soprattutto accessibile a TUTTI i livelli.
Ma c’è di più.
In Rainbows è il disco più importante degli ultimi dieci (ok, sette) anni perché è facile pensare che sia il disco più venduto di tutti i tempi che non sia mai stato pubblicato da una casa discografica. Sette anni fa i Radiohead hanno fatto il colpaccio mandando alle stelle Kid A senza uno straccio di singolo o di video (tranne quella roba da dieci secondi a botta che tenevano per un po’ sul sito per poi levarla di mezzo): il disco era bello e si vendeva da solo, in culo ai maxicartelloni pubblicitari, ai pusher delle radio e chiaramente alla Premiata Macelleria MTV. Adesso replicano mandando alle stelle un disco senza uno straccio di disco. Capito bene. E volete sapere perché è importante? Perché questo disco è la goccia che fa traboccare il vaso.

Che le major siano nella merda è assodato (se ne parla anche la stampa italiana vuol dire che ormai è cosa trita e di dominio pubblico). Tutto questo da diverso tempo, da quando i Metallica ottennero la chiusura di Napster perché rosicando per non avere abbastanza soldi, fecero i bulli con dei ragazzetti brufolosi che non avevano pagato dazio per sentire i loro tronfi riffoni di chitarra giapponese. Le major hanno iniziato a emanare un odore strano e da allora niente è stato più lo stesso.
Oggi, a dieci (sette, ci risiamo) anni di distanza, lo smottamento è in piena corsa e non c’è più verso di frenare la fuga di brani, capitali e (novità!) artisti dal portafoglio delle principesse conglomerate.
La stampa, in più, con questa cosa ci va a nozze. Sembra che questo colpo fatale al sistema discografico as we know it sia non più che una stramberia di quattro snob ossoniensi capitanati da uno che si è permesso perfino di dire di no a Sir Paul (questo in titolo: poi si legge nell’intervista che l’ha fatto perché non si sentiva all’altezza – bravi, era Repubblica: l’avrete riconosciuta dal sensazionalismo spicciolo, vero?). Il che è ovvio, tenuto conto che la stampa fa capo allo stesso meccanismo: grossi giganti mediatici che a un certo punto hanno iniziato a partorire topolini, ma costosissimi e pure protetti anche da crittografie anticopia che non girano nell’autoradio. Chiaro che minimizzando l’accaduto iniziano anche a pararsi sottilmente il culo: non sia mai domani dovessimo tutti scoprire che possiamo anche fare a meno dei quotidiani, dei loro faccendieri in quota opposizione e della loro pessima, pessima sintassi.

Eppure è così: dopo cinquant’anni (se non di più) di prassi consolidata, è chiaro che oggi la gente pensa che sia una cosa inaudita e incosciente rinunciare a una casa discografica per mettere fuori qualcosa. Questo perché la gente (e la stampa, che è fatta da gente, mentre noi speravamo fosse fatta da professionisti) non ha la minima idea di come funzionino le cose, e del fatto che le case discografiche sono un costo: come qualsiasi struttura costano, e richiedono risorse e passaggi che oggi – nell’era dell’accesso – sono risparmiabili.
Fortunatamente i Radiohead, che snob saranno anche snob ma so’ pischelli per bene, stanno minimizzando la cosa. Abbiamo solo voluto mettere fuori un disco, hanno dichiarato, non era mica nostra intenzione portare un attacco al cuore dell’establishment facendo perdere all’apparato milioni di sterline: avevamo un disco, avevamo i canali, non avevamo un contratto, l’abbiamo messo fuori da solo. Noi poco ci crediamo, perché i Radiohead sono gente che riflette e a cui sta sul cazzo il sistema postcapitalista (soprattutto quello mediatico), ma tutto sommato non era un’osservazione troppo da santarellini.
Mettere fuori un disco da soli è possibile, anzi: spesso è addirittura meglio. Da queste parti, qui in basso, dove non girano i soldi ma le idee, i musicisti sanno perfettamente che la casa discografica è un canale, uno strumento che serve a raggiungere un pubblico. Si fa una cosa, e a cosa fatta, si dà a un’etichetta che distribuisce il tutto e si tiene una parte degli incassi – sempre a patto che l’accordo sia vantaggioso.
Qui da queste parti siamo disillusi al fascino della rockstar, e facciamo pure bene. Le rockstar sono delle persone fuori dal mondo e il 90% di loro sono perfettamente INCAPACI di fare buona musica, e questo anche perché all’interno di un contesto mediatico basato sull’apparire, in cui la gente diventa famosa perché È famosa (così, a buffo), le rockstar non sono nemmeno TENUTE a farla (qualcuno ha mai sentito DAVVERO un disco di Amy Winehouse? NON SERVE!) Dall’altra perché le rockstar sono dei fenomeni costruiti per dare stabilità, apparenza e quindi un ritorno d’immagine proprio alle etichette che le mettono sotto contratto e che lucrano sulla loro instabilità (non dimentichamo la morte di Sid Vicious o di Cobain, il colpo di culo più GROSSO che le loro etichette potessero avere).
Questa cosa ha alimentato un’idea collettiva per cui il fine ultimo della carriera di un musicista fosse quello di arrivare a un contratto discografico, e poi pace: campi di rendita. La casa discografica ti scrive e arrangia le canzoni, ti organizza un tour, ti manda in televisione e ti ci mantiene perché ne ha tutti gli interessi. È come essere il capo di un partito italiano: diventi la parte visibile di un apparato che lavora per tenerti esattamente dove sei. In più puoi anche spaccare le sedie e schiacciare due pischelle a botta.
Per cinquant’anni questa cosa ha funzionato, poi è arrivato Internet.
Come tutte le grandi istituzioni – commerciali e non – anche le major discografiche sono sempre e pesantemente indietro coi tempi. Non è stato capito che non bastava mettere sotto contratto le nuove sensazioni partite da Myspace perché le parabole di visibilità offerte da internet sono ancora più ripide di quelle rese possibile dalla televisione. Le major hanno pensato che essendo le uniche depositarie di mezzi di comunicazione e promozione a livello planetario (adesso chi è che non è mai uscito dagli anni ‘80, eh?!?), potevano tenere saldo il loro dominio approfittando di queste meteore, ignorando completamente le leggi che regolano le loro brevi traiettorie. Bisognava capire che stava cambiando il linguaggio promozionale, che la nuova disponibilità di materiale resa possibile dalle possibilità di comunicazione li detronizzava dal ruolo di nodo insostituibile dello scambio, che la visibilità di realtà underground metteva anche dei pesanti interrogativi critici sul loro ruolo. E questo sia per il pubblico che per i musicisti.

Qualche giorno fa Josh Homme – che è uno che dentro una major ci è nato e cresciuto perché quando è uscito il primo Kyuss per la Elektra (cioè BMG, se non ricordo male) aveva 18 anni – ha dichiarato in un’intervista che “le case discografiche fanno schifo”, e non è il primo pezzo grosso che sputa nel piatto dove ha mangiato; una cosa del genere l’aveva detta anche Trent Reznor. Insomma, la Interscope è in allarme rosso, e non stupirebbe nessuno se iniziasse una fuga o verso qualche indie, o addirittura verso il buon vecchio FattoInCasa, tanto non credo che ai succitati gentiluomini manchino le risorse per mettere su un baraccone di produzione distribuzione e stampa per fatti loro.
In casa EMI c’è maretta pure da più tempo, dato che i Radiohead a fine contratto non solo non hanno voluto rinnovare (gravissimo) ma hanno anche dato lezione a tutti. A differenza del bullismo dimostrato da altre major, però, la EMI sta cercando di affrontare la situazione in casa, reclamando percentuali anche sugli incassi dei concerti e del merchandising (toh! un’idea brillante! miracolo!), o mettendo il pepe al culo direttamente agli artisti del suo carnet che non producono abbastanza o che abbastanza non vendono. Secondo quanto si è letto in giro (sempre su stampa scandalistica: Repubblica), nel mirino ci sarebbero fotomodelli come Robbie Williams o come i Coldplay (un ottimo esempio di gruppo che in un contratto major ha trovato la cuccagna: dopo il primo disco che tutto deve dimostrare hanno iniziato a sfornare dischi di canzoni di natale e ragazzini come conigli: pare mi’ cuggino che appena firmato l’L3 s’è comprato la Golf e ha messo su 5 chili). In più, bomba: la EMI ha deciso di non finanziare più la RIAA, la lobby che in America difende in Parlamento e in tribunale gli interessi delle major.
Non solo: la Free Software Foundation di Richard Stallman metterà gratuitamente a disposizione i suoi avvocati (specialisti del diritto d’autore, gente: roba da cagarsi sotto) nelle cause milionarie contro privati cittadini per aver scaricato illegalmente brani del loro catalogo, e per ridefinire la legge e il concetto di diritto d’autore, soprattutto dopo quella barzelletta del gestore telefonico tedesco che voleva brevettare un colore (ma come cazzo si fa…).
Un’altra tegola? La nota ufficiale della polizia canadese per la quale, data la diffusione del fenomeno e le controversie di diritto internazione in corso, la ricerca e i procedimenti contro chi scarica musica non rientra più nelle loro priorità. Ci rendiamo conto?
In uno scenario del genere, che si sta costellando di pericolosissimi precedenti, è chiaro che chi può corre ai ripari. Le grosse case discografiche, ormai trasformatesi in Oliver Hardy con la bombetta sfondata e la vernice addosso, si stanno avviando ad essere tra i più grandi fiaschi economici del decennio: gli investitori potrebbero iniziare a pensare che non vale la pena mettere soldi in questi mastodonti mangiasoldi, le holding potrebbero iniziare a lasciar perdere e in quattr’e quattr’otto avremmo la morte delle major as we know it. Altro che new economy. Ha ha ha.

La partita a questo punto è del tutto aperta. Da una parte alcuni discografici hanno già iniziato a diversificare il mercato: c’è chi ha pisciato tutto e si è buttato sulle bibite e sugli aerei (che spero non facciano cacare quanto le bibite), c’è chi sta iniziando a pensare di incrementare il giro di suonerie per cellulari (cosa che farebbe facilmente presa sul popolo bue e sarebbe più facilmente controllabile tramite accordi con i gestori) e c’è chi sta alzando i toni della guerra alla “pirateria”, finanziando le ricerche universitarie A PATTO che gli istituti riservino una percentuale della ricerca ai sistemi anti-copia o alla restrizione dei loro terminali ai protocolli P2P. Insomma, di ridimensionamento o di politica economica alternativa per il momento sembra che non se ne parli. Un po’ perché come strutture economiche sono troppo articolate e sviluppate per poter operare tagli sensibili – e poi sappiamo che i loro artisti, viziati e fuori dal mondo, non rinuncerebbero mai a qualche punto percentuale sugli introiti, cosa che tiene alti i prezzi dei cd molto più della siae o dell’iva al 20%, e questo TENIAMOLO A MENTE; un po’ perché per la loro stessa sopravvivenza all’interno delle multinazionali a cui appartengono devono tenere alto il giro di soldi, per non essere vendute o peggio smantellate.
In più, ci saranno sempre larghe fasce di ascoltatori che nonostante le lamentele per i prezzi dei cd – e, cosa più IPOCRITA: per la scarsa qualità del pop dei giorni nostri – continueranno a spendere 30 carte per la solita robaccia gangsta o per qualche puttana col toppino aderente. E dimoselo, su.Possibile allora che le major approfittino di questo nuovo mercato e inizi a specializzarsi su questo, continuando allora una tendenza già iniziata una ventina d’anni fa: la musica di qualità alle indipendenti (che avranno SEMPRE il loro mercato, con o senza napster, con o senza mp3), e la musica di massa alle major, distaccandosi quindi definitivamente dal pubblico critico e consapevole e sintetizzandosi su prodotti indifferenziati per gente diseducata e qualunquista. Come il McDonald’s: roba veloce e totalitaria, per un pubblico senza gusto e pronto a cacciare fuori i soldini per la merda, purché si presenti bene.

18 novembre 2007

Cose da poco che mi fanno arrabbiare molto - #1

Leggevo su Internazionale che Repubblica sta per far uscire IN ESCLUSIVA (caratteri cubitali) il nuovo libro di Stephen King. Meglio, su Internazionale ho visto la pagina pubblicitaria che Repubblica ha comprato per promuovere l'iniziativa.
Beninteso, non ho niente in contrario al fatto che i quotidiani escano insieme a libri, volumi dell'enciclopedia, raccolte di fumetti, quel cazzo che vi pare. Visto che la maggior parte degli italiani non ha mai messo piede dentro una libreria, e se ce l'ha messo è stato per comprare il libro del papa o quello delle barzellette su Totti (che ALMENO mandava tutto in beneficenza, al contrario del papa che secondo me i soldi se li mette pure in tasca: magari si tiene pronto per quando l'Acea gli manderà l'ingiunzione di pagamento per la corrente consumata E MAI PAGATA dal Vaticano); visto che gli italiani non leggono un cazzo, insomma (questo almeno in media: io e la mia donna e i miei amici da soli alziamo il quoziente del quartiere, come minimo), mi pare che almeno una minima, una timida proposta sia una cosa positiva. Certo, poi la gente coi libri ci può sempre fare quel cazzo che crede: quando lavoravo in libreria una sera imboccò un tipo che mi chiese due metri e mezzo di libri – possibilmente tutti della stessa collana – per riempire una libreria che aveva appena comprato. Però insomma, almeno uno ci prova, a spigne i libri.
Dunque che cos'è che mi ha fatto rosicare a bomba, sveglio da dieci minuti, mentre sorseggiavo il caffé e sfogliavo Internazionale seduto in un posto che non vi dirò ma non per questo non è importante? Mi ha fatto rosicare il fatto che questo libro esce in edizione italiana a firma di “Stephen King con lo pseudonimo di Richard Bachman”. “STEPHEN KING (ancora caratteri cubitali), con lo pseudonimo di Richard Bachman” (a caratteri scubitali, talmente piccoli che a una prima occhiata ve lo potete anche scordare, di leggerli – probabilmente passerete metà della vostra vita senza nemmeno immaginarlo).
Secondo il DeMauro, uno pseudonimo è un “nome fittizio sotto cui una persona sceglie di svolgere la propria attività spec. in campo letterario, artistico o dello spettacolo”. In altre parole, uno pseudonimo nasconde il nome del vero autore di un'opera per motivi che poi sono cazzi dell'autore, non sta a noi dirlo e dopotutto non ci frega niente, perché un libro non smette di essere bello se l'ha scritto mio zio o Saramago (per i lettori meno accorti, no: mio zio e Saramago non sono la stessa persona). Stephen King adotta lo pseudonimo Richard Bachman dal 1977, cioè da tre anni dopo che la sua attività editoriale era iniziata. Non lo so perché lo faccia, non me ne frega nemmeno niente, ma dev'essere perché magari sotto quel nome fa uscire alcuni romanzi che non seguono esattamente il filone tradizionale degli altri, oppure perché si diverte un mondo a buttarla in cagnara, oppure perché il cagnolino azzurro gli ha detto di fare così, insomma non è questo quello che voglio dire.
Quello che voglio dire è che nonostante siano trent'anni che Stephen King giochi con i suoi lettori adottando questo pseudonimo, la gente di Repubblica (che vive sull'albero delle banane, o peggio: pensa che ci viviamo noi) va in culo a una delle tradizioni più antiche della letteratura senza pensarci due volte e fa uscire un libro firmato da “STEPHEN KING con lo pseudonimo di Richard Bachman”. Nunc est bibendum.

Ora, non mi voglio mettere a pontificare sulla direzione che Repubblica ha preso negli ultimi anni, una specie di direzione pacificatrice, volemosebbenista, autoreferenziale e culturalmente qualunquista (pronta a fare da supporto per il Partito Democratico di cui sono convinto che sia tra gli ispiratori, insomma), che l'ha reso il Giornale delle Verità Assolute (come dice il Cuoco che è sempre un passo avanti), ma è innegabile che almeno da un punto di vista culturale, dal punto di vista delle analisi critiche e massmediologiche farebbe impallidire perfino Vincenzo Mollica, in quanto a banalità e completa incompetenza. Non ci dimentichiamo che la sua sezione musicale è curata da una persona completamente incapace di giudicare una canzone da un punto di vista testuale, cioè la sua scrittura, il suo materiale musicale. Siamo ancora all'Oh che belle parole, oh che sentimento, oh che intensità e che belle atmosfere. Battisti, insomma. Similaun, insomma. Non una parola di approfondimento su quello che c'è DENTRO una canzone, privilegiando il solito “cosa c'è DIETRO una canzone”, sulla scia dei cantautori truffatori italiani che si comportano con i giornalisti come se fossero ispirati direttamente dal cielo e fossero chissà quali messaggeri di stocazzo (e i giornalisti che ci abboccano pure, legittimando e perpetuando le sante parole di Zappa per cui la stampa musicale è gente che non sa scrivere che parla di gente che non sa suonare a gente che non sa leggere).
Non mi voglio nemmeno mettere a scavare nel troiaio del rispetto per il contenuto culturale che da sempre abbiamo in Italia, un rispetto talmente grande che ci fa doppiare i film (perché devo sentire un Premio Oscar con la voce di uno che hanno scartato all'Accademia dell'Arte Drammatica? Che, la voce non è importante? Ci accontentiamo di vedere qualcosa che si muove su uno schermo?), un rispetto talmente grande che ci fa ristampare 1984 di Orwell ogni autunno con tanto di fascetta “Le origini del Grande Fratello”, un rispetto talmente grande che il sito di un network radiofonico nazionale pubblica una notizia sui Rolling Stones con una foto di un gruppo che NON sono i Rolling Stones e con il collegamento alla RIVISTA Rolling Stone. Chapeau.
Repubblica insomma pubblica il nuovo di “STEPHEN KING con lo pseudonimo di Richard Bachman” sulla scia di una totale mancanza di CORAGGIO a livello imprenditorial/editoriale (e culturale soprattutto). Questo senza contare che Stephen King fa libri di GENERE, la gente SEGUE il genere e quindi SA chi cazzo è Richard Bachman. Insomma i giornalisti e i redattori di Repubblica – che evidentemente si sentono depositari del sapere – sono convinti che i loro lettori non sappiano nulla finché non glielo dicono loro. Meno male che c'è Repubblica allora.
Sul modello generalista e pigliatutto che mamma RAI ci insegna ormai da anni, cerca di accaparrarsi il maggior numero di lettori e aficionados abbassando il minimo comune denominatore delle sue notizie, delle sue iniziative e ovviamente delle sue proposte. Il risultato? Vabè, sul sito lo sappiamo: notizie approssimative e leccaculo, didascalie da prima elementare e sise OVUNQUE (perfino il sito del Corriere ha smesso); sul cartaceo non lo so, perché mi sono stomacato da tempo. Peccato che adesso anche le sue iniziative collaterali si stiano rovinando: la raccolta di fumetti era cosa buona e giusta, così la scelta (anche se pure in quel caso un po' cachettica) di romanzi del Novecento e quelli dell'Ottocento e così via. Questo è proprio uno scivolone nel rispetto del proprio pubblico, ma non arriva come una sorpresa (e questa è la cosa più amara, perché come in tutte le cose, ci sta profondamente sul cazzo dare ragione ad Andreotti, perfino quando dice che a pensar male si fa peccato ma quasi sempre ci si azzecca).
Il fatto è che potremmo anche averne un po' piene le palle di questo tipo di approccio marketing da nursery, all'essere imboccati di omogeneizzati culturali resi sicuri da tutte le precauzioni del caso. Già me lo vedo il prossimo volume: Il meglio della Galleria degli Uffizi (è un Museo che sta a Firenze), una nuova edizione del Nome della Rosa con le pagine in latino tradotte in italiano, i film di David Lynch con le scene più difficili spiegate coi popup – magari dalla SUPERBA Claudia Morgoglione (GRANDISSIMO talento, non ve la perdete), l'albo da colorare del PD.
La domanda definitiva, quella con cui chiudo pure perché mi sono rotto il cazzo di scrivere, e perché tra l'altro si è abbondantemente capito cosa intendevo, è: Ma perché devo continuare a farmi dire come stanno le cose da gente che mi tratta come fossi un coglione?



PLAYLIST>
Radiohead: Faust Arp
Bad Brains: Don't need it
The Soul Stirrers: Any day now
Minutemen: There ain't shit on T.V. Tonight
The Rolling Stones: Can I get a witness
Discharge: Ain't no feeble bastard
The Undertones: She can only say no
The Jesus Lizard: Postcoital glow
Neil Young & Crazy Horse: Don't cry no tears
The Drifters: There goes my baby
James Brown: Night train
Cro-mags: World peace
Hüsker Dü: Powerline
Elvis Presley: I'm left, you're right, she's gone
Descendents: Tonyage
Bobby Bird: Try it again
Fugazi: Argument
Physique du role: Truman
Agnostic front: Police state

10 novembre 2007

the life fantastic of Howard Newcombe

Insomma stamattina ho incontrato Richard e mi ha spiegato un paio di cose. Stava al baretto a Santa Croce, dove viene avvistato frequentemente, seduto a un tavolino rivolto verso il marciapiede: bastone, giubbotto da motociclista, parrucca, Richard. Niente occhiali da sole, un po' ho rosicato. Sul tavolino c'erano almeno tre tazze di caffé vuote (Alice ricorda cappuccino), un pacchetto di Winston Blu e briciole ovunque. Briciole e zucchero a velo anche sulla canottiera nera in bella vista e in grembo, jeans neri dall'orlo sfilacciato. Stava dicendo a un passante (che è stato grato per il nostro intervento e si è dileguato all'istante) che se digiti Richard Benson su internet ti esce "tutto un tabulato lungo così delle serate che ho fatto da trent'anni a questa parte".

Ci siamo rimasti male però, per il 2 novembre, Richard.
Ma guarda, non si poteva proprio fare.
Avevi da fare, Richard?
No, no, è che non avevo garanzie. Lo sai quanto mi volevano dare? Mille euro! Io normalmente prendo settemila euro a serata. In America mi hanno dato centomila dollari da una parte e centomila dollari dall'altra. Con mille euro non si può. E poi mi devo trasportare gli strumenti, devo pagare due trasportatori e poi devo pagare il gruppo. Alla fine mi rimangono duecento euro e con duecento euro che ci faccio?
Giustamente, Richard.
Ma con tutti i soldi che gli faccio fare, all'Alpheus... E poi dico: se avessi la passione, se mi divertissi almeno... Ma non mi diverto nemmeno più. Un paio di volte a momenti m'ammazzano, mi tirano le cose addosso; mi hanno mezzo cecato un occhio, l'ultima volta.
Beh, però è andata anche bene, direi, Richard.
Mah, insomma...
Ma come? C'era un delirio di gente, Richard.
E poi francamente ho preferito rimandare anche perché il gruppo non era all'altezza.
Ah, non è lo stesso gruppo dell'altra volta?
No, no, ci sono degli altri ragazzi. Quindi rimandiamo. E poi mi hanno quasi sfondato tutta la strumentazione. Ma dico, io non ho più garanzie. Sono andato a suonare in America, in Germania, in Spagna. In America è andata benissimo, in Germania il non plus ultra, in Spagna invece un disastro.
Come un disastro, Richard?
I locali non erano adatti.
In che senso non erano adatti, Richard?
Dico io: avevo chiesto sedici uomini di servizio d'ordine. Che ci vuole? Niente, i ragazzi dell'organizzazione erano della gentaglia. Insomma, è anche per la sicurezza vostra. Sennò va a finire che prima o poi si fa male qualcuno, prima o poi sale qualcuno sul palco e si mette a sparare.
Beh, non credo che si arriverebbe mai a tanto, Richard...
Ma no! Pensa che quando sono andato a suonare in America l'ultima volta, ero in Virginia, c'è stato un processo – che io ho vinto – perché a un certo punto un ragazzo si è messo a sparare e io, che quando sono in America sono sempre armato, l'ho dovuto seccare.
Ma come, Richard?
Eh beh, quello sparava all'impazzata, di sicuro avrebbe fatto male a qualcuno anche nel pubblico. Andavamo a finire come quel povero... Diamond Darrell dei Pantera. Insomma c'è stato subito il processo, io ho dovuto chiamare il mio avvocato da New York. Naturalmente ho vinto.
Ci mancherebbe, Richard.
Il mio avvocato, Howard Newcombe, si è imbestialito e ha cominciato a far partire denunce a tutti. Innanzitutto al Governatore della Virginia, perché il ragazzo ha sparato con l'arma del padre, ma poi si è scoperto che il ragazzo era psicopatico, era perfino in cura in un istituto e tornava a casa tutti i fine settimana. E allora dico, come si fa a dare il porto d'armi a qualcuno se ha il figlio psicopatico? E poi ha denunciato il commissariato, e poi ha denunciato gli organizzatori. Insomma è andata a finire che il Governatore, il Governatore della Virginia, mi ha dato dei soldi per lasciar cadere tutta la cosa. Io ho accettato, figuriamoci, e quindi abbiamo fatto a metà io e il mio avvocato.
Hai fatto bene, Richard.
Allora capirai che a queste condizioni per me non è possibile fare un concerto. Quando mi hanno sfondato gli amplificatori tu pensi che Radio Rock mi abbia pagato i danni?
No, Richard, non credo.
Eh, non mi hanno dato un cazzo. Quindi...
Sì però torna presto, Richard, ci siamo rimasti molto male. Ci faresti un autografo, comunque?
Come no.
Firma qui, Richard, a pagina 666.
A chi lo devo dedicare?
Ad Alice, Richard.
Solo ad Alice?
Sì sì, solo ad Alice, il libro è suo, Richard.
Ecco qua.
Grazie, Richard. Torna presto.
Senz'altro. Ciao ragazzi.

Adesso la mia donna ha un autografo di Richard Benson – con dedica – a pagina 666 del suo manuale di Circuiti per la Microelettronica (IV edizione), e io so che Richard è in grado di guardarti dritto in faccia mentre ti dice una delle più grandi cazzate che sentirai mai in vita tua.




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Sham 69: Tell us the truth

30 ottobre 2007

Ignorantia legis...

...ED ORA QUALCOSA DI COMPLETAMENTE DIVERSO!!!

sabato 20 ottobre 2007

Nuova Legge sui Blog e Siti sembra cadere

Dovrà essere approvata in Parlamento una incredibile proposta di legge di riforma dell'editoria pensata in Agosto da Riccardo Franco Levi, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, e approvato integralmente il 12 ottobre da tutto il Consiglio dei Ministri, la quale prevede l'iscrizione al ROC, il pagamento di un bollo e di avere un giornalista al suo interno come editore responsabile.
Si tratta di un DDL di riforma dell'intero settore dell'editoria che inserisce anche delle gravissime limitazioni alla libertà di parola sul web, tanto che, come ha affermato Beppe Grillo nel suo blog, pochissimi siti in Italia potrebbero continuare ad esistere se questa legge venisse approvata in Parlamento.
Mentre in tutto il mondo il web 2.0 cresce, con le persone che online trovano la possibilità di aggregarsi, scrivere i propri pensieri e scambiarsi opinioni, in Italia si va al contrario del resto delle altre nazioni, proponendo una norma che "...chiunque abbia un blog o un sito debba registrarlo al ROC, un registro dell’Autorità delle Comunicazioni, produrre dei certificati, pagare un bollo, anche se fa informazione senza fini di lucro, a dotarsi di una società editrice e ad avere un giornalista iscritto all’albo come direttore responsabile."
Dopo il clamore suscitato ieri (ovviamente solo in Rete, stampa, radio e tv tradizionali non ne hanno neppure parlato), lo stesso Franco Levi butta acqua sul fuoco e visto che è un politico moderno e sa come usare Internet risponde direttamente al blog di Beppe Grillo che lo aveva accusato, in realtà altri siti come Punti-Informatico.it o i-dome.com avevano parlato della vicenda molto prima, ma nessun politico se ne era interessato.
Levi in una lunghissima risposta afferma tra l'altro che: "Con il provvedimento che tra pochi giorni iniziera’ il suo cammino in Parlamento non intendiamo in alcun modo tappare la bocca a internet‚ provocare la fine della Rete. Non ne abbiamo il potere e, soprattutto, non ne abbiamo l’intenzione [....]
Ci occupiamo di editoria persuasi che, nel tempo in cui viviamo, un prodotto editoriale si definisca a partire dal suo contenuto (l’informazione), e non più dal mezzo (la carta) attraverso il quale esso viene diffuso. Vogliamo creare le condizioni di un mercato libero, aperto ed organizzato in modo efficiente.
Per questo, intendiamo, tra le altre cose, abolire la registrazione presso i Tribunali sino ad oggi obbligatoria per qualsiasi pubblicazione e sostituirla con l’unica e più semplice registrazione preso il Registro degli Operatori della Comunicazione (Roc) tenuto dall’Autorità Garante per le Comunicazioni (AgCom)."


Eh sì bellezze mie, perché pare che con tutti i, mi si perdoni l'eruditismo, CAZZI che il parlamento italiano ha da dover sbrigare PROPRIO QUESTA stronzata della riassunzione in un discorso editoriale istituzionale dei blog e di altre amenità della rete costituisca un'urgenza bisognosa di impellente risoluzione.
E MEI COJONI VERI!!! Io li adoro, sul serio! Non so come farei senza i nostri legislatori e le loro divine ispirazioni normative. Molto affabilmente, la metterò giù così.

  • Siamo al secondo anno di legislatura, non è stata ancora approvata una legge sul conflitto di interesse.

  • Non è stata ancora discussa una legge sulla gestione degli acquedotti e sul DIRITTO all'acqua come bene comune e, tra l'altro, nei nostri cessi gli stronzi e le cacarelle continuano ad essere traghettati verso la fogna dall'acqua potabile.

  • Non è stata ancora approvata una legge elettorale diversa dall'obbrobrio precedente.

  • Non è stata ancora discussa seriamente una normativa sulla sicurezza sul lavoro tant'è che i lavoratori muoiono come mosche e SENZA FUNERALI DI STATO mentre i militari (ed anche i mercenari, già che ci siamo), morti “nell'adempimento del proprio dovere”(e che i manovali no?) ricevono solenni esequie pubbliche, passaggi sulle principali testate nazionali e la solidarietà di alleanza nazionale (notare la minuscola. Che tanto basta che porti un'uniforme te la dà comunque anche se la domenica fai il porta-a-porta per lotta comunista) e le vedove ricevono per il consorte scomparso il titolo di “Eroe”.

  • Non è stato affrontato neanche un lontano discorso su una politica energetica che ci scampi dal dover, in un futuro, allevare criceti da far correre per alimentare la dinamo di turno.

  • Il ministro Mastella non è stato ancora messo in condizione di non nuocere.

  • Non è stato ancora portato a compimento l'iter normativo riguardo le coppie di fatto.

  • Non è stato ancora rivista la legge bossi-fini (da notare la minuscola)

  • varie ed eventuali.

30 ottobre 2007

Quando ho iniziato a scrivere questo pezzo in realtà il quadro era più fosco, si credeva che nel giro di poco tempo tutti noi bloggers avremmo dovuto versare una gabella allo stato per esprimere il nostro libero pensiero e, perché no, magari versare addirittura un obolo alla S.I.A.E. come autori. È passato un po' di tempo e il trambusto sembra essersi placato.
In realtà, in questo paese, quando si sta per elevare una proposta impopolare al rango di legge, di solito, in modi grottescamente poco sofisticati si ripiega su una ritirata così, alla chetichella. Basta ricordarsi della famosa”stangata” alla casta dei tassinari oppure alla liberalizzazione sui distributori di benzina. Come è finita? Le suddette categorie si sono fatte girare i coglioni per due giorni e la “competitività del mercato” è andata a farsi benedire.
Ora, mi sembra lampante che non è stata l'ira funesta del popolo dei bloggers a far arretrare il legislatore dal proposito dichiarato.
Mi auguro che, nella migliore delle ipotesi, qualcuno abbia fatto notare che c'erano cose più urgenti ed importanti di cui occuparsi.
Il sospetto però è che si tratti di una ritirata strategica.

Nel nostro bel paese, nel nostro GRAAANDE paese, qui, in patria, è abitudine del legislatore occuparsi di fattispecie private, individuali a cui, normalmente, è più che sufficiente l'applicazione del buonsenso, delle proprie convinzioni personali, del proprio codice etico, delle proprie abitudini, per gestirle.
Nel nostro bel paese, si cerca di far leggi che gestiscano la musica che scarico io da internet mentre si lascia ancora la Salerno-Reggio ad una sola corsia per senso di marcia.
Nel nostro GRAANDE paese la massima preoccupazione delle autorità è se i pischelli si fanno le canne o leggano un giornaletto porno nel cesso della scuola mentre i nostri politici dispensano, attraverso il modello mafioso delle "amicizie” o, se preferite, delle conoscenze, posti al ministero o in televisione in cambio di bocchini.
Nel nostro vecchio paese la famiglia è l'unico consorzio che si fa finta di tutelare, se sei zitella/zitello cioè INDIVIDUO (il perno dello stato liberale, la pietra angolare delle economia capitalista... N.B.) non conti un fico secco e dunque DONNE! È ARRIVATO L'ARROTINO: SPOSATELO!!! Sennò sono cazzi...
(Lo stesso vale se sei maschietto.)
Nel nostro grande paese è vietata la timidezza, l'insicurezza, la fallibilità.
La legge gestisce questo genere di fattispecie attraverso il supremo istituto della SANZIONE.
Nel nostro paese la legge non si occupa della società ma della persona.
Nel nostro paese la legge non tutela ciò che è di tutti ma ciò che è strettamente tuo.
NON il lavoro.
NON l'efficenza dei servizi.
NON la trasparenza e la veridicità delle informazioni.
NON la tutela della libertà
Dicono di essere capitalisti ma non sono capitalisti.
Dicono di essere quasi-comunisti tendenti alla socialdemocrazia moderata con una discendenza cattolico-libertaria-semi-liberale di vocazione sadomasochista ma non sono nemmeno questo esperimento di cucina da seconda elementare con elementi di seria patologia. E comunque non sono capitalisti neanche loro...
Quale che sia il loro travestimento, questa allegra brigata di vegliardi semianalfabeti che si riempiono la bocca con paroloni come GLOBALIZZAZIONE o FLESSIBILITÀ o WELFARE tutto quello a cui mira è FARSI I CAZZI VOSTRI!!!
E dunque la normativa tende a impicciarsi:

  • dei vostri gusti personali

  • del dissenso

  • della libera circolazione delle idee (a meno che non sei nazista, in quel caso viene invocata a gran voce e difesa... cazzo che invidia...)

  • dei soldi che può fare con una categoria troppo “libera”.

In fondo il primo modo del potere per soggiogarti è quello di riassumerti nell'imponibile: diventi visibile. Portare il denaro in determinati contesti vuol dire poter comprare quei contesti, è semplice.
Per questo motivo il blog parla di contesti con le saccocce vuote.
Non è quella “voglia di umiltà” tipica della sinistra, quel senso di colpa per non essere abbastanza povero e oppresso da diventare il suo opposto per disperazione: oltraggiosamente ricco ed oppressore.
Non è neanche il virile sacrificio machista dell'estrema destra, che ha i coglioni di travertino ma l'uccello di cartapecora, immolata anch'essa al capitalismo più bieco, quello di cui, si dà il caso, sia stata sempre la più elegante tra i critici ma la più strenua tra i difensori.
A noi non ce ne frega un cazzo. Noi abbiamo le idee chiare. Sbagliate forse, ma chiare.
Noi prendiamo a modello l'insegnamento dei Clash che ritenevano si dovesse SEMPRE dire qualcosa.
Noi apriamo bocca per dargli fiato e ci va bene così. Ma 'sti cazzi di cambiare le cose. Ma 'sti cazzi DELLE COSE.
Un blog è il sintomo di una masturbazione prima che un pezzo d'informazione. È un gioco. Un gioco a cui si può giocare molto seriamente.
Le cose migliori della rete non hanno un volto (quelle peggiori sì: quello di Bill Gates) e il non avere un volto è pericoloso.
Lo scandalo non è un pezzo di critica che prenda per il culo Luciano Pavarotti, lo scandalo è che SI POSSA FARE un pezzo di critica.
Di fronte ad un potere così caricaturale il nostro errore più tipico è quello di sorridere con un vago senso di superiorità, con la certezza che a voi non potrebbe mai succedere di diventare così, che su di voi quel potere non ha effetti.
Beh, siete delle teste di cazzo.
Siete il prodotto della vostra cultura scadente.
Sottovalutate coloro che da anni ve lo stanno mettendo in quel posto dimostrando così la loro temibilità e il loro valore e mettendo a nudo la vostra pigrizia e la vostra scarsa auto-considerazione.
E il potere di turno si prende sempre li mejo posti.
Perché a voi basta sentirvi ribelli per placare il bisogno di esserlo. E gli altri, questo, lo sanno.
Allora invece di incazzarvi per queste proposte di legge e benedire ogni singola parola di questo post, fatemi un piacere: domandate a voi stessi se non sareste forsemagari in grado anche voi di concepire una cazzata simile.
Invece di urlare alla rivoluzione, chiedetevi se in un contesto che vedesse VOI essere il potere, non vi comportereste forse magari allo stesso modo. Mettetevi alla prova e, per favore, almeno per oggi, non mentitevi.
Lo stato in cui vivete vorrebbe tassare, iscrivere, censire un articolo su Son House piuttosto che un racconto breve sui cazzi propri.
La gente per cui votate non sa neanche accenderlo un computer, lo guarda con lo stesso acume usato dalle scimmie di fronte al monolito di 2001 odissea nello spazio.
Teme quello che circola in internet perché non ci va mai. Ci va una tettuta segretaria al posto loro.
Dunque, poiché questo stato di cose DURERÀ ANCORA MOLTO mettetevi d'impegno e diffidate sempre.
Diffidate, diffidate e ancora diffidate.
Mettetevi su un vinile delle Supremes, fatevi coraggio e tenetevi pronti ad un altro assalto: potrebbe essere peggiore del precedente.

Con preoccupazione.
il cuoco.

17 ottobre 2007

bruce, tu quoque.

È piuttosto difficile riportare tutto a casa” (come Dylan) quando quel che ti precede è una trattazione rigorosa, un manifesto programmatico, una chiamata alla lotta armata (sia pur armata diversamente). Tuttavia è prerogativa di un cuoco decente far seguire ad un momento di alta intensità verbale, un rilassante e rincuorante pasto, sì che le voci si plachino e subentri un più “morbido” intrattenimento: il pasto, appunto. Alla fin fine, dei due, il più pop non è (cane), perché sa troppe cose, il più pop, di noi due, è il sottoscritto. Rozzo quanto basta ma non abbastanza.
Per questo motivo dunque, invece di inserirmi nello specifico del precedente post, vengo con questa mia a cantarvi della mia ira funesta verso Bruce Springsteen, e di come quest’ira si sia placata ma ne siano rimaste le stimmate.

Io di Bruce Springsteen ci capisco, sul serio!
Non sono di quegli Springsteeniani da operetta che mettono camicioni di flanella, o peggio, BANDANE, né di quelli più compassati e impostati, amanti dell’American rock tout court per i quali il Boss è comunque un discorso a parte.
Ho sempre considerato Springsteen all’interno del suo contesto storico e artistico; l’ho sempre confrontato col patrimonio a cui liberamente (e giustamente) ha attinto, a come HA INCISO su questo patrimonio, alla traccia da lui lasciata ed è per questo che l’ho amato e lo amo così tanto.
L’umanità è forse il suo più grande pregio, dirò di più, la fallibilità.
Bruce Springsteen da molti anni sforna BUONI DISCHI, non capolavori. Dai gloriosi giorni di Ghost of Tom Joad il Boss non tira più fuori un intero disco da mandare a memoria. Chi dissente da questo, non ha bisogno di continuare a leggere (e forse porta una BANDANA!), per gli altri vi avviso che vi attende una sega senza fine su quest’individuo nato nel New Jersey quasi sessant’anni fa.

Pensate a The river, o a Darkness on the edge of town; fate mente locale, avete presente lo stesso Born in the U.S.A.? Produzione merdosa, anni ’80 che fioccano, ma canzoni coi controcazzi: non ce ne era una che non ti restasse in testa. Stiamo parlando di un musicista che quando ci vai in fissa ti riempie di robba. Ti da contenuti, orecchiabilità, epica, cortometraggi, ritratti, ti fa ballare, divertire e ti fa pensare. Ti racconta il mito, da qui la sua grandezza.
Ora invece pensate a The Rising, a Devils and Dust (contenitore sottovalutato di alcune perle) o al più recente, ultimo lavoro: MAGIC.
Già a sentire il titolo vi confesso che mi ero cacato sotto. “Che cazzo di titolo è MAGIC?”.
Sarà un disco dedicato all’omonimo playmaker dei Los Angeles Lakers di qualche decennio fa?
Sarà un omaggio ai Queen? “Che cazzo di titolo è MAGIC” pensavo tra me...
E infatti MAGIC è un titolo del cazzo!
Ora passiamo al disco. Il singolo mi ha fatto venire i geloni: per un momento ho persino pensato che Bruce Springsteen credesse di essersi trasformato in Bryan Adams. Ho fatto incubi per due giorni. Radio Nowhere, un altro titolo del cazzo, non era per nulla buona, era una canzone che poteva scrivere qualunque imitatore di Springsteen dei tardi ’80. Il primo incontro con l’album era stato annichilente. Sembrava, in più di un brano, che il Boss volesse suonare come “quelli che volevano suonare come il Boss”. Così incontravo rock’n’soul alla Graham Parker, acusticismi non particolarmente riusciti, leggi Dan Bern et similia, gente valida mai uscita dalla lunga ombra del “...bel brano Springsteeniano...”, come Southside Johnny. Il problema risiedeva nel fatto che tutta questa pur ottima marmaglia di rockettari NON ERANO LUI. Perché a lui gli anni ’50 mancavano sul serio, non come a Bryan Adams; perchè lui la bandana se l’era messa perché suda come un suino, non per tenere i capelli come Bon Jovi; perché il soul, la Stax, la Motown per Bruce Springsteen sono cose sacre da prima che scoprisse Dio e la famiglia; perché SENZA ESSERE DYLAN ha saputo fornire una versione plausibile del folk bianco classico di matrice sindacale, rurale e, udite udite, socialistoide - alla fine sarà pure macho ma avete fatto caso che il pubblico del Boss è prevalentemente di sinistra? (Bertinotti dovrebbe ringraziarlo visto che simpatizzo stalinismo perché ascolto Atlantic City...). E comunque Pete Seeger é stato iscritto al partito comunista americano fino alla prima metà degli anni ’50.

Insomma avevo il cuore spezzato. Il mio eroe si era rincoglionito, aveva fatto un disco piacevole e pensava di cavarsela così, solo perché quel disco sarebbe comunque piaciuto ad un sacco di gente.
E a noi? A noi poveri stronzi che l’avevamo difeso dai sinistroidi rompicazzo che gli davano addosso per Born in the U.S.A. perché non ne avevano letto il testo? A noi che prestavamo Wild, innocent e compagnia bella per far capire al critico superficiale che il Boss era uno serio e intelligente, non un rockettaro tutto muscoli, palle e niente cervello? Bruce Springsteen mica era i Kiss, non si truccava, non sparava laser sulle folle oceaniche accorse a vederlo con la E street band come facevano i Pink Floyd, dal vivo non faceva lo stronzo come Bob Dylan, e non frequentava i soliti giri di sessodrogaerockenrolle dei vecchi dinosauri del rock. Non faceva yoga come Sting o come Peter Gabriel, non si chiamava Claudio Baglioni. Noi lo sapevamo questo, e lo difendevamo.
Adesso non dobbiamo più difenderlo, dobbiamo capirlo, e in questo caso specifico, criticarlo.
Dobbiamo capirlo, perché non possiamo più sentirci eterni ragazzetti, se lui si sente più vecchio.
Dobbiamo capirlo perché il suo più grade pregio è l’umanità e, come ogni uomo, oggi sta facendo i conti con se stesso. Per questo fa i dischi a-là Springteen ma non fa i dischi DI Springsteen.
Per questo il suo senso critico verso se stesso vacilla e non vede con chiarezza quello che sta scrivendo. In lui alberga una pace, un appagamento, una soddisfazione negata a molti, anzi, ai più.
Non possiamo e forse neanche dobbiamo aspettarci quell’urgenza, quel desiderio di stare bene, di stare bene insieme che in qualche modo è riuscito a creare nella sua carriera. Non possiamo chiedergli di darci speranza anche dentro MAGIC. Ci serve speranza? Di corsa ad ascoltare Born to run, marsch!!!!
Bruce Springsteen sta diventando vecchio ma deve ancora diventare saggio. È con un braccio nel vestito da guitto sensuale ed inarrestabile del rock’n’roll e con un braccio nella spartana blusa di tranquillo lavoratore-cantastorie che torna alle sue radici.
Sarà con la chitarra acustica, registrato dentro la cucina di casa sua che sferrerà ancora i fendenti indimenticabili che sa sferrare, non alla corte di Brendan O’Brien dove riesce solo a riprodurre se stesso, a dissimulare la nostalgia con il manierismo, a far sentire la mancanza dei suoni e dei colori di Born to run o di Born in the U.S.A..
Sarà con un combo di chitarre elettriche vecchie come lui, registrato nel soggiorno della casa di campagna (che possiede...), che riuscirà ancora a fare rock’n’roll. Perché, signore e signori, Bruce Springsteen non vuole più suonare per gli stadi ma ancora non l’ha capito e dunque non ha capito che non ha più bisogno di scrivere canzoni per gli stadi ma, al massimo, per un club.
Riuscirà il nostro eroe ad aggirare la demenza senile con la saggezza? O verrà forse trascinato come un’immensa, solidissima quercia dal fiume del business, delle superproduzioni e dei ritorni dal passato (leggi reunion)?
Da Springsteeniano quale sono e fui, non posso, non voglio, rinunciare a fidarmi anche stavolta, nonostante MAGIC, di lui e del suo cuore ma oggi, mio caro Boss, come amano chiamarti più di quanto tu ami farti chiamare, ti becchi una BOCCIATURA.
Perché, sinceramente, le cover di Bruce Springsteen, piuttosto, le suono io, non te.
Cordialmente vostro devoto
il cuoco

prevenire è meglio che curare

Vedi, Valerio, perché è giusto che tu inizi le interviste, perché è giusto che Lamette continui a fare il suo lavoro per sempre, perché è giusto che eventualmente io ti proponga una trasmissione in radio? Perché bisogna informare.
Noi, che siamo gente per bene, sappiamo che l'informazione è utile quando è condivisa. E questo non soltanto per una questione politica, non solo per onorare una visione à la The more the merrier. È una questione di opportunità. Mo' ti spiego cosa intendo.
Il vantaggio che noi abbiamo, è avere una visione dall'interno di un determinato avvenimento, contesto, scenario: quello che noi possiamo e dobbiamo fare (il secondo verbo è un mio imperativo morale, come sai) è condividere questo tipo di visione in maniera orizzontale.
La stampa musicale italiana non ha la minima idea di come si faccia la musica. In Italia, in Europa, al mondo. I giornalisti sono nella migliore delle ipotesi musicisti falliti, nella non-tanto-migliore fan fedeli che vengono ammessi nei sancta sanctorum della produzione, nella peggiore dei semplici passacarte di elezione lottizzata che vengono messi (e mettono radici) dietro una scrivania da un faccendiere di turno. È inutile che facciamo finta di niente: li leggiamo tutti gli articoli sui giornali e sulle riviste. Non abbiamo una tradizione, di questo ne abbiamo già parlato e (te) ne ho già scritto. Noi uno come Bill Flanagan in Italia non ce l'abbiamo. Noi abbiamo altra gente che intervista i cantautori superficiali per fare domande superficiali (Nasce prima la musica o nascono prima le parole?). Niente sappiamo sulla storia, sulla genealogia estetica, sulle motivazioni musicali, storiche o (ci risiamo) politiche che stanno dietro alla scelta di uno stile, di una composizione, di uno strumento - perfino.
Ecco perché noi, che sappiamo parlare bene la lingua delle persone che suonano, e sappiamo in che ambiente vivono e non mitizziamo e non prendiamo distanza: non ci comportiamo, insomma, né come i "giornalisti" di Sonic che è l'equivalente dei giorni nostri della fanzine dei Duran Duran 20 anni fa; né come i "critici" di Blow Up che fanno del loro accredito stampa una torre d'avorio dalla quale gettare di sotto gente a piacimento - salvo poi riabilitarla in vecchiaia.
Noi che possiamo, dobbiamo informare la gente di un tipo di situazione genuina (svincolata dalle logiche del mercato global-e/-izzato a cui ormai anche molte "indie labels" si sono piegate), autopropellente (perché la grinta giustifica tutto) e formare una coscienza critica, seppur minima, seppur leggera. L'informazione, noi lo sappiamo perché abbiamo dei LIBRI in casa, è il primo strumento per saper riconoscere il bene dal male, il vero dal falso, la merda dalla cioccolata, e magari chissà: smontare un po' dei falsi idoli che buona parte della gente con cui abbiamo normalmente a che fare venera in mancanza di punti di riferimento migliori.
D'altronde, qual è il motivo autentico per questa proliferazione di estimatori dello zozzo musicale? Da dove sono spuntati (in altre parole) fuori tutti questi -coreheads che girano per Roma, per l'Italia, sulla rete? C'è DAVVERO una coscienza nei confronti delle tematiche, degli stili di vita? Non credo. E allora da dove? Dal fatto che l'hardcore è il nuovo metallo e raggiunge fasce di pubblico non normalmente sensibilizzate che cercano solo una musica aggressiva? Ci sono arrivati dalla porta di servizio, cioè attraverso la moda e gli splendidi accessori abbinati? È semplicemente una cooptazione per carisma, gente che frequenta e imita altra gente e di conseguenza adotta il loro genere musicale? È semplicemente la "moda del momento"?
Ci arrivano da tutte queste cose insieme, ci arrivano da una travisazione, ecco da dove.
Come sempre accade - del resto - quando uno stile, un'impostazione musicale, raggiunge le masse il suo valore aggiunto si abbassa al minimo comune denominatore. Le scelte (a livello stilistico) diventano maniera, e tutto va a fare in culo. Non so se ha mai funzionato, ma non credo. Altrimenti non ha un granché senso continuare a celebrare i Bei vecchi tempi, quando il pane sapeva di pane e il panc sapeva di panc. Non ha senso tenere in considerazione i maestri quando oggi abbiamo un'offerta discografica che tra semi-indipendenti e etichette underground sfornerà decine di migliaia di titoli all'anno. Quello che bisogna fare (dio mio se sembro Veltroni) è tornare a parlare di contenuti.
Vedi, Valerio, il fatto che Robertò stia organizzando una mostra sull'HC originario in concomitanza con il benefit di sabato è veramente cosa buona & giusta. Certo, il suo difetto si potrebbe individuare facilmente il suo scarso appeal nei confronti dei famosi neofiti casaccius di cui parliamo da un po', se vogliamo: il fatto che è un evento poco glamour, ci sono poche stelline (sto parlando ovviamente delle stelline del quartiere, ovvio) E QUINDI poche pischelle E QUINDI poca gente; in altre parole: si rivolge a un pubblico che sa già in partenza chi è questo povero cristo, che cosa gli hanno fatto e perché BISOGNA accorrere a dargli una mano (divertendosi anche un botto, tra l'altro). Ma è un difetto che fa parte di una logica che già fa a cazzotti in principio col perché si organizza un concerto benefit per John Stabb e perché - visto che ci siamo - si fa un ripasso generale di storia. Quello che manca è una diretta associazione di proposta musicale (una recensione, un passaggio radio) e un'inquadratura del contesto storico. Tu ce l'hai, ed anche molto più chiara della mia perché hai un occhio aperto su tutto un panorama italiano che non ho perfettamente chiaro. E allora ti dico io: che ci vogliamo fare, Valerio? Ce lo vogliamo tenere per noi? O vogliamo iniziare a spargere così un po' di gente si sente fuori posto e inizia a lasciarci in pace mentre facciamo le nostre cose?
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vociare, perché sono al lavoro.

14 ottobre 2007

dai, su, c'è vita su Marte.

Alla fine l'hardcore è come Dio, o come il comunismo o come le donne: sono degli ideali dal contorno fumoso che non si sanno definire bene, non hanno sempre delle spiegazioni coerenti e soprattutto ognuno ha la sua personale, non per forza compatibile con quella degli altri.
Io di hardcore finora non ho parlato mai perché sono stato un po' a guardare e un po' ad ascoltare, e alla fine mi sono reso conto che sì, qui a Roma tutto sommato le cose non vanno poi così a cazzo di cane come si penserebbe. La gente si lamenta in continuazione del fatto che non c'è unity, del fatto che non c'è abbastanza supporto blah blah. Magari è vero, ma è vero pure che non è che abbiamo proprio l'idea perfetta di come stavano le cose 20, 25 anni fa. Non abbiamo nemmeno idea di come stessero le cose in America, a Washington, a New York o a Los Angeles. Nel senso che a lamentarsi sono buoni un po' tutti. E poi queste cose sono sempre delicatissime. È come chiedere a qualcuno com'è la propria facoltà: Ah no, lascia perdere, non funziona un cazzo. Nessuno è mai contento. Magari glielo vai a chiedere a Vinnie Stigma, a Ian McKaye, a Pete Koller, o a quel povero cristo di John Brannon, che a Detroit stava da solo: ti diranno tutti La scena dalle mie parti era un po' una merda, non funzionava un cazzo, eppure alla fine sono riusciti a farcela. Certo, ai concerti c'era sempre un boato di gente, ma tutto sommato, grazie al cazzo: in America C'È più gente, e poi hanno delle radio locali che a volte funzionano molto molto meglio delle nostre (perfino delle radio cosiddette “antagoniste” che però l'hardcore l'hanno sempre snobbato perché è sempre stato associato in maniera frettolosa a certi ambienti di destra che con l'HC hanno in comune solo l'abitudine a portare le teste rasate – o forse perché come musica di protesta hanno sempre preferito il piagnucolare rustico e dimesso dei cantautori italiani degli anni '70 che in quanto a presa di coscienza hanno ancora molto da insegnare, ma in quanto ad agitprop se permettete anche no), e insomma è lo stesso motivo per cui in America hanno gli atleti migliori: sono in tanti, il livello medio dev'essere per forza più alto. Che poi se vogliamo è anche il motivo per cui a Roma la media qualitativa delle band non è affatto male. Se cresci ascoltando i Growing Concern hai già un bel punto di riferimento con cui partire, per cui è abbastanza ovvio che se hai un minimo di intelligenza critica sai misurarti come si deve con i modelli. Ed è anche il motivo per cui non è proprio una stronzata parlare di scena, qui a Roma. Certo, c'è un'ovvia tendenza alla dispersione, all'entropia, al fare insomma ognuno per i cazzi suoi, ma ieri sera davanti a Hellnation c'era una bella popolazione di gente che si conosce, si apprezza reciprocamente e ha dei punti di riferimento e dei percorsi condivisi. Molti di loro hanno suonato insieme e se non l'hanno ancora fatto lo faranno, o alla fine non fa differenza perché si seguono a vicenda e da vicino. Non ci sono grosse rivalità, forse non ci sono nemmeno piccole rivalità: è chiaro che c'è gente in gamba, gente meno in gamba, teste di cazzo, faccendieri, leccaculo, attivisti, gente che si monta la testa, ma queste categorie sono categorie umane che in proiezione si possono trovare in qualsiasi agglomerato sociale: da un gruppo di persone che hanno qualcosa in comune a 200 cristiani che si trovano per caso sullo stesso vagone della Metro.
È chiaro che potrebbe essere meglio, che ci potrebbe essere più coesione, più partecipazione e cooperazione, più coerenza soprattutto, e un po' meno esibizionismo, ma dopotutto l'hardcore invece di (e prima che) essere una religione è una scheggia impazzita del rock and roll, e sono cinquant'anni che i rockandrollers trattano la propria chitarra come se fosse un'estensione del proprio pisello a beneficio della prima fila di belle figliole. Ce ne lamentiamo da mezzo secolo eppure non riusciamo a sottrarci alle stesse abitudini. Dev'essere genetico, famoce pace.

Non so di preciso dove volevo arrivare con questa considerazione, forse alla fine volevo fissare una sensazione che ho provato per un minuto ieri sera, appunto, e insieme uscire dal coro di gente che sostiene che a Roma la situazione sia pessima. No, non lo è. Comprate il settepollici degli Anti You e ve ne renderete conto. C'è ancora voglia di combattere, di incazzarsi e di farlo in canzoni da 20 secondi (come ai vecchi tempi) con le accordature standard (come ai vecchi tempi) e senza la parte mosh che a una certa pare che deve partire per prescrizione medica (anche questo come ai vecchi tempi, sì). E c'è ancora la voglia di farlo facendo riferimento alle forme di 25 anni fa, quelle grezze che vengono direttamente dalla Washington del 1981, uscendo dalla dimora confortante del new school di ispirazione Hatebreed-Terror, o dall'iconografia vegan straight edge di cui ho il massimo rispetto, ma anche un po' piene le scatole, soprattutto quando ostentato da neofiti casaccius e sventolato come salvacondotto anche da gruppi che onestamente (lo dico?) fanno notevolmente cacare (l'ho detto), come a ddì Aoh, io so' Veganstreitegg, sti cazzi che suono robba uguale a TUTTI GLI ALTRI. Come esse preti.
E soprattutto, c'è ancora voglia di farlo attraverso il mezzo punk hardcore per eccellenza: il vinile. Non si può masterizzare, è un oggetto che gira per casa e non in una cartella sull'hard disk dati, e soprattutto è un riferimento diretto e inequivocabile dell'apprezzamento e del seguito di una band – a differenza delle magliette, indice di gradimento principale (seppur non ortodosso) dei gruppi che giustamente non sanno come portare a casa altrimenti almeno due lire dopo essersi fatti il culo a portare avanti e indietro centinaia di chili di testata-e-cassa – e qui sì, sono costretto e contento a rientrare nel coro di chi sostiene che è una ZOZZERIA scaricare dischi di gruppi dell'ambiente underground, a meno che non sia lo stesso gruppo a volerne la diffusione gratuita “per motivi personali”.
C'è ancora voglia (è una follia, me ne rendo conto) di scommettere su un cavallo zoppo, dato che a fare i settepollici lo sa anche la nonna che non ci si rientra nei costi. Ma del resto, se si vuole rientrare nei costi non si fa il punk hardcore. Si fa la Saint-Louis e si lecca il culo ai Maestri Massoni della musica italiana (col rischio però di finire a fare il turnista per Michele Zarrillo. Vabè).
Ecco allora perchè tocca dare i nostri soldi agli Anti You:
- perché il disco è bello
- perché anche se non vi piace, arreda (ma se non vi piace avete dei problemi)
- perché così poi ne fanno un altro e io potrò parlarne di nuovo bene
- perché è un gesto, e i gesti significano qualcosa e a una certa anche basta lamentarsi
- (per i neofiti casaccius) perché un settepollici vi farà sembrare più hardcore delle Draven dei Misfits. Ve lo dico io che ormai ho un'età.

Insomma, ha ragione nervousbreakdown che ha scritto su Lamette che Pig City Life è letteralmente imperdibile, ha ragione perché è vero. Certo, è ironico che per trovare (o proporre) una novità tocchi scavare intorno alle radici, ma del resto la storia ha processi ciclici. Chiedetelo a Vico, anche se è morto. Come il punk, dicevano.

(E visto che ci siete, venite a dare anche i vostri soldi a John Stabb il 20 ottobre, è un ottimo pateravegloria che vi emenderà dal peccato di aver scaricato i cd dei Nabat da Soulseek. ...Come ho fatto io)



Playlist>
discharge: the final blood bath
aphex twin: yellow calx
sick of it all: the bland within
overhead: uprising
payback: the cause
minutemen: maybe partying will help
negative approach: nothing
sufjan stevens: chicago
spandau ballet: true
social distortion: born to lose
ray charles: you be my baby
crass: bata motel
feist: so sorry

16 agosto 2007

Giusto perchè non avevo niente da fare...

Miei cari commensali, visto il gran caldo è probabile che le mie elucubrazioni assumano i contorni dell'assurdo ma, in finale, chissenefrega.
Le ferie si avvicinano (sempre che il signor padrone ve le accorderà) e così, volevo lasciarvi un paio di riflessioni da fare sbracati sulla battigia o, magari, chiusi nella falsa solitudine urbana che i TG nazionali, con lacrimosa inclinazione, celebrano ogni qualvolta ci si trova alle porte di Agosto.

E dunque 'st'estate è stata la stagione dei grandi ritorni, dei recuperi in extremis del tempo perduto (non quello di Proustiana memoria), dell'andiamoli a vedere ora altrimenti li avremo persi per sempre...
E dunque tra Giugno e Luglio, nel bel paese, si sono avvicendate kermesse rockettare piene di nostalgia e di speranze. The Who, The Rolling Stones, Greg Allman, The Police, e, udite udite, i Genesis, hanno allietato platee esorbitanti di vecchi e giovini, tutti intervenuti per assistere (nel senso geriatrico del termine) allo spettacolo delle reunions e dei ritorni dall'esilio decennale, ventennale, trentennale e così via, di intramontabili eroi e di leggende più o meno viventi.

Ora, la querelle sulla bontà della reunion con annesso immancabile tour è argomento unto e bisunto.
Le reunions hanno una cospicua porzione di nostalgici che, desiderosi di vedere dal vivo gli ”originali”, salutano l'operazione con giubilo e infradiciamento mutandale. Questo da una parte della medaglia. Dall'altra invece, trama, risentita, la pletora di detrattori impietosi e gerontoclasti che si dannano l'anima quando spunta la notizia che una qualche gloria del passato si è rimessa sulla strada.
Da che parte sto io?
Non perché abbia la necessità di distinguermi ad ogni costo ma in realtà ho sempre vissuto questo dibattito come preso tra due fuochi. Ora, perciò, è molto più importante lasciare che siano i fatti a confortare le idee e non farsi tentare né dall'amarcord, né da teorie sulla presunta “Morte del rock'n'roll” che quello stronzetto di Lenny Kravitz aveva fatto sue in un momento particolarmente felice della sua carriera (ed era in malafede, ovviamente).
Diciamo le cose come sono andate: al concerto degli Who a Verona, Roger Daltrey si è preso un accidente di mal di gola, ha cantato per quattro pezzi e poi ha tirato onorevolmente le cuoia sul palco, lasciando alla super-band il compito di tenere in piedi lo show. Per quanto la cosa, dati i suonatori convocati, sia riuscita piuttosto bene, il concerto degli Who è stato un po' una sòla (n.d.r.: una fregatura).
I Rolling Stones hanno varcato le porte di Roma animati da ottime intenzioni; si sono portati dietro un entourage che potevano ripopolarci qualche comune depresso della Basilicata; hanno venduto biglietti milionari che pareva di comprarli al bagarino anche se in quel momento eri in un punto vendita della TicketOne; hanno fatto il concerto.
Cronache di locali intervenuti all'evento narrano di un'acustica scadente, di un (ahimé) Keith Richards in pessime condizioni, scarsamente lucido, artritico e perennemente in scazzo con Ronnie Wood (pare invece in gran forma) a causa del recente allontanamento di quest'ultimo dallo spirito santo della “Trinità alternativa” sesso, droga (lo spirito santo, appunto) e rockarolla.
Sempre i locali, riportano lodi entusiaste di Mick Jagger, fresco di pulizia del sangue e sculettante come non mai, e di palchi semoventi che portavano la più importante e longeva r'n'r band della storia in mezzo allo stadio. Ma, alla fine della fiera, l'evento non ha cambiato la vita a nessuno, manco a chi non li aveva mai visti. Insomma, un po' una sòla.
Sui i Police nessuna nuova particolare. Sono più giovani e dotatissimi ma su MTV, ai Grammy awards, avevano fatto solennemente cacare e, non so perché ma temo che anche la loro esibizione, alla fin fine, sia stata una mezza sòla.
Greg Allman dopo aver tentato per anni di mandare in guardina il grande (e un po' alcolista) Dickey Betts ed essere riuscito soltanto ad allontanarlo dal gruppo, si faceva bello con qualche vecchio successo degli Allman Brothers Band e con roba presa dalla sua abbastanza deprecabile carriera solista: mezzo concerto, FORSE, da salvare. Cioè: una sòla.
I Genesis hanno fatto montare un palco grosso come un'astronave dentro il bistrattato circo massimo che, tra i “Bongoloidi” del fine settimana, i Live 8, i concerti di quell'impostore di Antonello Venditti che suona solo quando la Magica vince un scudetto (e dunque, forse, a 'sto giro, se lo semo levato dai cojoni...) e i raduni di ipocriti sindacalisti e politicanti BLA BLA BLA, secondo me sta meditando di sprofondare ulteriormente per preservarsi di suo, visto che i Beni Culturali sanno solo metterci intorno reti più nuove. Chi c'era non ha goduto esageratamente.
Volete che vi dica ancora la mia opinione?

Sarà che è un'estate Veltroniana; sarà che fa caldo; sarà quel che sarà ma alla fine sparo la mia salva: A ME QUESTI EVENTI FANNO ANDARE DI CORPO MALAMENTE.
A ME IL RITORNO DALL'OBLIO DI TANTI GRANDISSIMILEGGENDARIMITICI SUONATORI DELL'ETA' DELL'ORO MI FA INCAZZARE.
Non voglio parlare della politica dei prezzi di questi concerti (che anche quando sono gratuiti comunque sucano il soldo del contribuente).
Non voglio prendere per il culo questi tremendi nonnetti, che, felici del fatto che ancora gli tira si tuffano, con adolescenziale incoscienza e un'équipe medica svizzera, nell'ennesimo tour.
Non voglio neanche stare a citare tre secondi quel bastardo di Keith Jarrett che ha intascato centomila dollari da Umbria Jazz per fare un teatrino da artistoide psicolabile che non ama i flash delle macchine fotografiche.
Non voglio farlo.
Voglio chiedervi semplicemente questo: VI PIACE?
È QUESTO CHE VOLETE?
Allora siamo alla frutta.
Se paghiamo fior di quattrini per poter dire: ”io c'ero” e poi, dopo esserci stati, tiriamo le somme e il risultato è un po' una sòla, allora siamo messi male.
Le vecchie glorie della rockarolla battono la fiacca. E vorrei anche vedere voi a quasi settant'anni a fare gli scemi con la stratocaster. Gli unici che riescono in questo sono i musicisti di colore ma loro vengono da un altro pianeta.
Per noi culi pallidi lo stato del benessere ha inventato uno splendido dispositivo sociale, purtroppo per la mia generazione e quelle seguenti in via di estinzione: la PENSIONE.
Perché starsene in giro per anni a zompettare sui palchi di tutto il mondo; scopare ogni sera con le meglio fiche del bigonzo; calarsi qualunque schifezza per tenersi in piedi, signore e signori E' STANCANTE DA MORI'.
Allora mi dico: ”ma perché non lasciano perdere?”. Poi, però, ripenso a tutta quella gente che con la pensione cade in depressione, si annoia, si rompe le palle e capisco che qualche miliardo in più non fa tutta 'sta differenza.
Quello che non capisco è altro. Quello che non mi torna è il motivo per cui BISOGNA partecipare a questi eventi. Non sarà mica che si va a questi concerti per tirare su il morale a 'ste salme vero?
Ora, le scene esistono. Roma ne ha diverse, attive e gagliarde e così pure molte altre città d'Europa.
Tra l'altro non so se state notando come la musica di qualità cominci ad arrivarci anche da posti diversi dagli U.S.A. o dalla perfida Albione.
Le cose cambiano e sarebbe il caso di accorgersene. Sarebbe il caso che le case discografiche, invece di inseguire chi scarica musica in internet a qualunque costo (e perdono le cause, a proposito, ANNATEVENAFFANCULO!), magari, così tanto per cambiare, investissero in gente talmente vogliosa di suonare da esibirsi davanti a una platea di paguri nel porto di Taranto (scusa (cane)...). E bada, stiamo parlando di gente valida, che ha voglia di lavorare e magari non chiede quintali di rose rosse nel camerino, eserciti di baldracche o pacchi di coca per fare un semplice CONCERTO DEL CAZZO.
Ciò che mi disturba è l'assenza dell'imprenditoria là dove dovrebbe invece spendere. Ciò che mi secca è la totale mancanza di attenzione per altro che non sia l'EVENTO.
Ora, è ovvio che gli Who fanno più gente dei, che ne so, dei Payback di Roma (perché so esserci degli altri Payback da qualche parte nel mondo) ma quello che mi turba e non capire perché le istituzioni e anche, perché no, le masse, che nel comune fine settimana magari vanno pure a vedersi il concerto del gruppo locale nel club underground, non prestino la minima fiducia alle scene locali.
Voglio dire, fai un concerto “Evento” in un posto bello (tipo il circo massimo!); della durata di due\tre giorni; adunando tutta la creme delle scene locali di quella città e di altre; spendi meno soldi, chiami attorno alla manifestazione un certo numero di curiosi e, udite udite, FAI UNA COSA NUOVA.
No.
Non si puote.
Non si vole.
Non si face.
Il perché è tuttora ignoto. C' è convenienza ed intelligenza in una situazione come quella immaginata poco sopra. C'è qualcosa di identitario senza i soliti paternalismi, patriottismi, laudi e retorica che sono alla base di ogni discorso di natura identitaria contemporaneo nel nostro paese (e che, guarda caso, è il terreno ideologico dei fascisti...).C'è qualcosa di innovativo ma spontaneo. Non si parla di rifare Woodstock, si parla di dare un palco e una platea a gente come i Payback, i Taxi, i Dissuaders, i Fonderia (se esistono ancora), le Not Right (di Arezzo, mi pare) e così via.
Li conoscete questi gruppi? Sapete chi sono? No? Beh, DA PAURA.
Il comune vi organizza una cosa grossa a spese sue per salvare le orecchie della gente dalle coverband che imperversano purtroppo, in estate nelle situazioni di basso profilo. In questo modo, il comune, fa persino Cultura.
Dai lavoro alle persone in questo modo. Dai lavoro a un sacco di gente. Tutto fatto in casa.
Invece no.
Il “fatto in casa”, qui da noi vuol dire Tammorra, vuol dire Taranta oppure vuol dire Elettronica, oppure vuol dire sanremo (notare la minuscola).
Alla fine, magari, tutta 'sta curiosità dal pubblico non c'è. Alla fine, magari, se circola una massa più rilevante di quattrini per sole due mani invece che per duecento forse il capitalismo ne giova (io non ho fatto economia politica... boh !?!?).
Fatto sta che forse va bene così. Da una parte, pochi maledetti e subito, dentro locali a volte maleodoranti a sbattere la faccia contro altre facce.
Dall'altra l'aristocrazia, la nobiltà, la casta di eletti, che intasca verdoni a tutto spiano.
Ricchi e poveri. Molto facile. Molto comune. Molto rassicurante.
Forse 'sta robba della “forza eversiva del Rock'n'roll” è una calla, una bufala, una cazzata.
Forse si tratta solo di impegnarsi a fare intrattenimento meglio possibile e là, va da sé, gli Who, sono meglio dei Temporal Sluts, perché hanno la contraerea, le astronavi, il circo.
Le super band, girano con gli elefanti, non col furgone con dentro le casse da 4x10.
Magari stiamo tutti bene così.

Quello che mi chiedo è perché ci sono dischi fatti da sconosciuti mezze-seghe che mi hanno cambiato la vita (e per sconosciuto mezza-sega intendo un calibro come Robert Johnson o Muddy Waters o Johnny Cash... pensa i Black Flag che sfiga).
Magari chi brucia sotto la cenere, chi muove le cose da sottoterra ha piacere di starci.
Magari non esiste accesso tra i due mondi e la mia è solo una trista speme internazionalista (maledetto sia il mio retaggio politico).
Magari diceva bene (cane) che: “...chi suona nell'underground non ha alcun interesse a mettere la testa fuori da lì”.
Magari non capisco un cazzo in totale.
Nel dubbio però, giovini poco aitanti ma molto sonanti, disprezzatori di accordatori, rompitori di amplificatori, spingitori di cavalie... ehm... UNITEVI!!!
Voi che non avete domani UNITEVI!!!
Il vostro giorno verrà (ma sarà stato ieri...).
Per ora buone ferie. Buona attesa. E, diffidate gente, diffidate.