Per evitare che pensiate che mi mobilito solo per eventi riguardanti Springsteen e affini torno sul blog per parlare d’altro.
Tra l'altro, il nuovo album di Springsteen s’appresta, il singolo non mi è piaciuto e prima di venire colto dall’ennesimo travaso di bile per lo svuotamento che ha subìto la sua scrittura nell’ultimo decennio ho preferito tornare a scrivere per moventi diversi.
Tra l'altro, il nuovo album di Springsteen s’appresta, il singolo non mi è piaciuto e prima di venire colto dall’ennesimo travaso di bile per lo svuotamento che ha subìto la sua scrittura nell’ultimo decennio ho preferito tornare a scrivere per moventi diversi.
In questi giorni - dopo più di un anno di garage - la mia collezione di dischi è finalmente rientrata a casa nella sua totalità.
Immaginate di aver dovuto passare un periodo consistente di tempo lontano dalla vostra collezione; immaginate di aver avuto solo il computer e un lettore mp3 come enti eroganti musica per circa un anno e mezzo/due. E, infine, immaginate di tornare finalmente alle vostre cose, ai vostri dischi e di trovare la situazione cambiata. La storia che quelle pile e pile di dischi raccontano di voi, il valore, il significato di ogni singolo pezzo sono diventati un’altra cosa.
Più di quanto incida sul vostro mutevole gusto il normale scorrere del tempo, la “vacanza” forzata appena conclusasi – portatrice anch’essa di nuovi stimoli e visioni – decide dello status quo del momento attuale. La “vacanza”, come distanza - distanza evidentemente emotiva oltre che fisica – ha modificato il vostro punto di osservazione e, con esso, la vostra visione. Rimirate i titoli uno dopo l’altro; magari vi scappa un sorriso per aver ritrovato un vecchio amico, cioè un disco cui siete legati o magari vi chiedete, vedendone un altro: “e tu che cazzo ci fai qui?”.
Ora, voi potete pure imputarmi di scoprire l’acqua calda ma vi giuro che costruire un’epica di se stessi è un lavoraccio e la musica può aiutare molto da questo punto di vista: insomma non è un’esperienza piana e di ordinaria leggibilità ritrovarsi a quasi 40 anni con dischi che oggi, suscitando dubbi su se stessi, suscitano, transitivamente, dubbi su VOI stessi.
Non è tutto.
Ravviso, da un po’ di tempo, una cortocircuitazione emotiva rispetto all’esperienza dell’ascolto e mi faccio domande: il fatto che non mi ingrifo più come un dì all’ascolto di un album è imputabile ad una vita in cui la lotta tra squali e dinosauri piuttosto che il destino di Capitan Uncino hanno preso il sopravvento sul godimento della scritttura di Holland & Dozier o degli arrangiamenti di Timber Timbre oppure è che stiamo storicamente attraversando un periodo di riflusso delle urgenze?
Consumando come è mio uso la stampa musicale, mi ritrovo orfano di quell’entusiasmo che trasuda dalle recensioni e che invece non trasuda più da ME. A fronte di segnalazioni di dischi di pregio la mia risposta emotiva è sovente disillusa; sempre più di rado leggo dietro il pregio delle forme quella SOSTANZA che muove le umane cose, le umane genti e sovrintende all’accoppiamento alla copula e ai grandi mutamenti della civiltà.
Scorrono allora dinanzi a me i titoli degli album in cui anche per una sola settimana mi sono riconosciuto: dischi che ho deciso di esibire sui miei scaffali perchè una collezione di dischi è anche questo, esibizione, pisellometria.
Scorrono quelli che ho deciso di serbare dentro un hard disk in attesa di acquisto o masterizzazione.
Scorrono un po’ troppo, scorrono in troppi.
I primi a causa del cortocircuito storico, del tempo che passa, dell’acqua passata che non macina più. I secondi a causa del cortocircuito del presente, dell’indifferenza dell’orecchio dell’ascoltatore. La vita che cambia e ti cambia? Il sovraccarico d’informazione? L’inizio dello spegnimento? Eccesso di consapevolezza della serie “beati i poveri di spirito”? Voglio credere di no. E non per credere ancora un po’ nella mia transitoria esistenza o nel suo significato ma per credere ancora nella musica e nel suo secolare contributo.
Richard Middleton nel suo Studiare la popular music fa riferimento ai meccanismi (industriali, mediatici, socio-politici) che sussumono il disagio giovanile per metterlo a sistema nonché a bilancio. Riletta così la storia dell rock’n’roll diventa una storia di venduti talmente strafatti da non accorgersi nemmeno di esserlo e di venduti talmente contenti da non preoccuparsene affatto. E dunque quello che ci è arrivato è solo quello che è stato permesso arrivasse alle nostre orecchie, cuori, anime, lombi.
Non solo: sembra che nel confezionare un suono che fosse “Spirito del tempo”, considerando la variabile “Tempo” come soggetta alle compressioni più efferate e dunque inducendo a repentini cambiamenti di indirizzo la massa ascoltante, possiamo ritenere possibile che a forza di confezionare ci si sia fatti prendere la mano proprio dalla confezione.
Lo dissero i Clash, dopotutto:” You think it’s funny turning rebellion into money?”. A onor del vero a loro successe esattamente questo ma, comunque... it ain’t funny.
Facciamo qualche esempio
Liz Green è una scoperta recente, il suo disco O’ devotion (2012) si presenta nelle dismesse vesti di un impianto pre-war, con la strumentazione ridotta ad una chitarra pizzicata sempre più o meno allo stesso modo e una sezione di ottoni che entra sempre più o meno allo stesso modo a commento o sostegno delle composizioni. La dinamica tra gli strumenti in gioco diventa nota al quarto pezzo e le sorprese finiscono. Il disco è ritenuto buono, le recensioni ne dicono bene e in effetti possiede tutti i clichè di un disco buono.
Chain & the Gang sono in giro penso da un po’ più di tempo, hanno adottato un’attitudine garage con sporcature black (potremmo definirla un formula detroit style degli anni zero), si pregiano di un cantato ubriaco alternato ad uno spoken abbastanza stonato e personale da non indugiare in tardi “Loureedismi” deprecabili per definizione. Formalmente si presentano al meglio per scelta dei suoni ed informalità superficiale. Roba da giacchetto di pelle nera con maglietta bianca sotto al concerto.
Pete Molinari lo diremmo uno che tramanda, uno che ha scelto le vie della tradizione. L’impianto della sua musica è diurno senza romperti necessariamente il cazzo col fatto che il sole splende in cielo. Può essere giorno fatto ok, ma il cielo può essere velato, il vento può darti noia, e la mamma può essere lontana. Chitarre pulite, “cristalline” direbbero quelli del Buscadero, scrittura lucida e di basso profilo, una versione meno timida ma anche meno complessa e affascinante di M. Ward. Buonino.
Ognuno dei prodotti summenzionati è fatto ad arte ma sembra pensato per giocarsi tutto al primo, secondo ascolto. Messi alla prova sulla lunga distanza sono solo intrattenimento ben confezionato ma sul mio scaffale forse non ce li metterò. E come loro tanti altri, di oggi e di ieri.
Questo scisma tra musica e autobiografia si nutre male per scarsità di sostanza ed io languisco. Utilizzare ad arte inflessioni stilistiche, citazioni eleganti, scenari rassicuranti in cui potersi accomodare senza il benchè minimo sussulto non mi restituirà l’anima che la musica anni fa mi ha rubato. Non è poi difficile parlare con la panza e nessuno ti rimprovera se non sei riuscito a scrivere Darkness on the edge of town, il punto è che CI DEVI ALMENO PROVARE!
Più di quanto incida sul vostro mutevole gusto il normale scorrere del tempo, la “vacanza” forzata appena conclusasi – portatrice anch’essa di nuovi stimoli e visioni – decide dello status quo del momento attuale. La “vacanza”, come distanza - distanza evidentemente emotiva oltre che fisica – ha modificato il vostro punto di osservazione e, con esso, la vostra visione. Rimirate i titoli uno dopo l’altro; magari vi scappa un sorriso per aver ritrovato un vecchio amico, cioè un disco cui siete legati o magari vi chiedete, vedendone un altro: “e tu che cazzo ci fai qui?”.
Ora, voi potete pure imputarmi di scoprire l’acqua calda ma vi giuro che costruire un’epica di se stessi è un lavoraccio e la musica può aiutare molto da questo punto di vista: insomma non è un’esperienza piana e di ordinaria leggibilità ritrovarsi a quasi 40 anni con dischi che oggi, suscitando dubbi su se stessi, suscitano, transitivamente, dubbi su VOI stessi.
Non è tutto.
Ravviso, da un po’ di tempo, una cortocircuitazione emotiva rispetto all’esperienza dell’ascolto e mi faccio domande: il fatto che non mi ingrifo più come un dì all’ascolto di un album è imputabile ad una vita in cui la lotta tra squali e dinosauri piuttosto che il destino di Capitan Uncino hanno preso il sopravvento sul godimento della scritttura di Holland & Dozier o degli arrangiamenti di Timber Timbre oppure è che stiamo storicamente attraversando un periodo di riflusso delle urgenze?
Consumando come è mio uso la stampa musicale, mi ritrovo orfano di quell’entusiasmo che trasuda dalle recensioni e che invece non trasuda più da ME. A fronte di segnalazioni di dischi di pregio la mia risposta emotiva è sovente disillusa; sempre più di rado leggo dietro il pregio delle forme quella SOSTANZA che muove le umane cose, le umane genti e sovrintende all’accoppiamento alla copula e ai grandi mutamenti della civiltà.
Scorrono allora dinanzi a me i titoli degli album in cui anche per una sola settimana mi sono riconosciuto: dischi che ho deciso di esibire sui miei scaffali perchè una collezione di dischi è anche questo, esibizione, pisellometria.
Scorrono quelli che ho deciso di serbare dentro un hard disk in attesa di acquisto o masterizzazione.
Scorrono un po’ troppo, scorrono in troppi.
I primi a causa del cortocircuito storico, del tempo che passa, dell’acqua passata che non macina più. I secondi a causa del cortocircuito del presente, dell’indifferenza dell’orecchio dell’ascoltatore. La vita che cambia e ti cambia? Il sovraccarico d’informazione? L’inizio dello spegnimento? Eccesso di consapevolezza della serie “beati i poveri di spirito”? Voglio credere di no. E non per credere ancora un po’ nella mia transitoria esistenza o nel suo significato ma per credere ancora nella musica e nel suo secolare contributo.
Richard Middleton nel suo Studiare la popular music fa riferimento ai meccanismi (industriali, mediatici, socio-politici) che sussumono il disagio giovanile per metterlo a sistema nonché a bilancio. Riletta così la storia dell rock’n’roll diventa una storia di venduti talmente strafatti da non accorgersi nemmeno di esserlo e di venduti talmente contenti da non preoccuparsene affatto. E dunque quello che ci è arrivato è solo quello che è stato permesso arrivasse alle nostre orecchie, cuori, anime, lombi.
Non solo: sembra che nel confezionare un suono che fosse “Spirito del tempo”, considerando la variabile “Tempo” come soggetta alle compressioni più efferate e dunque inducendo a repentini cambiamenti di indirizzo la massa ascoltante, possiamo ritenere possibile che a forza di confezionare ci si sia fatti prendere la mano proprio dalla confezione.
Lo dissero i Clash, dopotutto:” You think it’s funny turning rebellion into money?”. A onor del vero a loro successe esattamente questo ma, comunque... it ain’t funny.
Facciamo qualche esempio
Liz Green è una scoperta recente, il suo disco O’ devotion (2012) si presenta nelle dismesse vesti di un impianto pre-war, con la strumentazione ridotta ad una chitarra pizzicata sempre più o meno allo stesso modo e una sezione di ottoni che entra sempre più o meno allo stesso modo a commento o sostegno delle composizioni. La dinamica tra gli strumenti in gioco diventa nota al quarto pezzo e le sorprese finiscono. Il disco è ritenuto buono, le recensioni ne dicono bene e in effetti possiede tutti i clichè di un disco buono.
Chain & the Gang sono in giro penso da un po’ più di tempo, hanno adottato un’attitudine garage con sporcature black (potremmo definirla un formula detroit style degli anni zero), si pregiano di un cantato ubriaco alternato ad uno spoken abbastanza stonato e personale da non indugiare in tardi “Loureedismi” deprecabili per definizione. Formalmente si presentano al meglio per scelta dei suoni ed informalità superficiale. Roba da giacchetto di pelle nera con maglietta bianca sotto al concerto.
Pete Molinari lo diremmo uno che tramanda, uno che ha scelto le vie della tradizione. L’impianto della sua musica è diurno senza romperti necessariamente il cazzo col fatto che il sole splende in cielo. Può essere giorno fatto ok, ma il cielo può essere velato, il vento può darti noia, e la mamma può essere lontana. Chitarre pulite, “cristalline” direbbero quelli del Buscadero, scrittura lucida e di basso profilo, una versione meno timida ma anche meno complessa e affascinante di M. Ward. Buonino.
Ognuno dei prodotti summenzionati è fatto ad arte ma sembra pensato per giocarsi tutto al primo, secondo ascolto. Messi alla prova sulla lunga distanza sono solo intrattenimento ben confezionato ma sul mio scaffale forse non ce li metterò. E come loro tanti altri, di oggi e di ieri.
Questo scisma tra musica e autobiografia si nutre male per scarsità di sostanza ed io languisco. Utilizzare ad arte inflessioni stilistiche, citazioni eleganti, scenari rassicuranti in cui potersi accomodare senza il benchè minimo sussulto non mi restituirà l’anima che la musica anni fa mi ha rubato. Non è poi difficile parlare con la panza e nessuno ti rimprovera se non sei riuscito a scrivere Darkness on the edge of town, il punto è che CI DEVI ALMENO PROVARE!
Perché tutto sembra rinviare ad un melange di epoche passate nella musica che incontro oggi ma niente mi aiuta a vivere in questa. E allora eccolo, l’intrattenimento. Intrattenuti in attesa del prossimo momento storico. Giungeremo sguarniti per carenza di sostanza del momento storico precedente?
No, voglio ripropormi il bisogno di ritrovare urgenze autentiche, voglio esigere da chi fa musica che si giochi qualcosina in più delle lezioncine sui propri ascolti e su come li ha assorbiti bene.
Voglio che ci provi, che ci stia dentro. Ed io voglio rituffarmi in quel magnifico gioco che è “Pizzicare l’impostore” incontrando le mille difficoltà di chi ha di fronte un’impostura ben pensata e giubilando di fronte a qualcosa di VERO.
E voglio riconquistare il mio diritto ad illudermi perchè ultimamente la musica mi sembra venga fatta solo per farmi viaggiare comodamente sbracato su un divano davanti a due casse.
Mi passa per le mani Dog in the sand di Frank Black & the catholics, quel disco l’ho adorato e ora non mi fa più niente; Gentleman Blues dei Cracker con cui ho elaborato una separazione: ne vedo tutti i difetti; Elvis Costello, Delivery man, cui ho nobilitato la masterizzazione contraffacendone copertina e custodia e facendolo sembrare un disco originale è finito in una bustina trasparente di plastica recando con sé la copertina scannerizzata a memoria imperitura di quando bastava AVERLI i dischi per essere felici, anche se non erano originali.
Ripercorro la mia storia e mi sorprendo commosso stringendo tra le mani Smoking in the fields dei Del Fuegos (per fortuna su vinile) e tornando a quante salvate mi ha fornito questo bolso album di rock FM da strada con una bar-band prodotta come se dovesse suonare a San Siro.
Sono anch’essi, senza dubbio, contributi a quello scenario dipinto ad arte dall’industria dell’intrattenimento: oggi languiscono nelle loro carenze ma a suo tempo sono serviti a qualcosa.
Sono la mia storia, le mie glorie e vittorie, i miei sbagli.In attesa di collezionarne di ulteriori, rimiro questi qua.
La prossima volta parleremo invece di chi aggira tutte le mie pastoie esistenziali facendo le cose e basta e facendole come si deve.
Ma questa è un’altra storia.
No, voglio ripropormi il bisogno di ritrovare urgenze autentiche, voglio esigere da chi fa musica che si giochi qualcosina in più delle lezioncine sui propri ascolti e su come li ha assorbiti bene.
Voglio che ci provi, che ci stia dentro. Ed io voglio rituffarmi in quel magnifico gioco che è “Pizzicare l’impostore” incontrando le mille difficoltà di chi ha di fronte un’impostura ben pensata e giubilando di fronte a qualcosa di VERO.
E voglio riconquistare il mio diritto ad illudermi perchè ultimamente la musica mi sembra venga fatta solo per farmi viaggiare comodamente sbracato su un divano davanti a due casse.
Mi passa per le mani Dog in the sand di Frank Black & the catholics, quel disco l’ho adorato e ora non mi fa più niente; Gentleman Blues dei Cracker con cui ho elaborato una separazione: ne vedo tutti i difetti; Elvis Costello, Delivery man, cui ho nobilitato la masterizzazione contraffacendone copertina e custodia e facendolo sembrare un disco originale è finito in una bustina trasparente di plastica recando con sé la copertina scannerizzata a memoria imperitura di quando bastava AVERLI i dischi per essere felici, anche se non erano originali.
Ripercorro la mia storia e mi sorprendo commosso stringendo tra le mani Smoking in the fields dei Del Fuegos (per fortuna su vinile) e tornando a quante salvate mi ha fornito questo bolso album di rock FM da strada con una bar-band prodotta come se dovesse suonare a San Siro.
Sono anch’essi, senza dubbio, contributi a quello scenario dipinto ad arte dall’industria dell’intrattenimento: oggi languiscono nelle loro carenze ma a suo tempo sono serviti a qualcosa.
Sono la mia storia, le mie glorie e vittorie, i miei sbagli.In attesa di collezionarne di ulteriori, rimiro questi qua.
La prossima volta parleremo invece di chi aggira tutte le mie pastoie esistenziali facendo le cose e basta e facendole come si deve.
Ma questa è un’altra storia.
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