È verosimile che parta tutto da Blindfolded. Voi direte Che cazzo c’entra Blindfolded e io vi risponderò State sereni, che adesso ve lo spiego.
È verosimile che parta tutto da Blindfolded perché quella canzone saltò fuori da un cd sampler di Rocksound come una rana salta fuori dalle scatole di riso dei cartoni animati giapponesi (quelli peggiori, quelli in cui c’è il bambino ciccione con l’ombelico da fuori con la X sopra, che dorme sotto un albero con una bolla che gli esce dal naso).
Io in quel periodo ero innamorato della vita come uno che non capisce un cazzo perché è innamorato della vita e non solo: compravo Rocksound tutti i mesi perché credevo profondamente in questi grattaculo che berciavano tra i denti di quando da ragazzini gli facevano ingoiare i gechi. In questa gente che avrebbe rinnovato il metal perché lo stava mischiando con l’hip hop, con il pop, e in definitiva se lo stava facendo produrre meglio. Credevo nei californiani con il cappello all’indietro e i pantaloni sotto ar culo (che poi non è che adesso io li porti diversamente, ma è una questione di atteggiamento generale: adesso non c’è bisogno di sembrare bambini scemi o di avere le treccine, ma insomma non è di questo che stiamo parlando). Credevo nelle accordature basse che non avevo sentito mai prima, credevo nei samples in mezzo ai ritornelli, credevo negli arrangiamenti da ejaculatio praecox, o Col freno a mano, come dice er Valerio.
Io credevo nei Korn, insomma, e nelle camice celesti a maniche corte: quando ero innamorato della vita come un coglione, intorno a cinque anni fa, e con le margheritine negli occhi non ero in grado di vedere che quegli incapaci non avevano un cazzo da dire ma lo diceva con dei suoni da paura. E per questo motivo compravo Rocksound tutti i mesi, e ridevo. Oh, sì, ridevo di gusto.
Ridevo perché la posta dei lettori non era altro che un lunghissimo litigio su coso, il tizio dei Linkin Park che sembra un malato terminale, o un ricchione sciccosissimo: decidete voi. E poi ridevo per la costante agiografia negli articoli, nelle interviste (non fate MAI intervistare musicisti da persone che non hanno mai preso una chitarra in mano, li faranno sentire dei pompieri santi dell’11 settembre e poi l’assuefazione porta a tutta una serie di inconvenienti di cui l’essere pesantemente sovrappeso è solo il più lieve – vero Jon?), nelle recensioni. E poi ridevo perché la cover story era sempre dedicata alla stessa gente, e perché in definitiva quelli non ci hanno mai preso un cazzo di niente, diciamocelo.
Insomma, ridevo di gusto all’idea di come fosse piuttosto povero e leccaculo il giornalismo musicale italiano, soprattutto quello di genere.
Tuttavia, visto che volevo tenermi costantemente aggiornato sulle novità, sulle ultime uscite, sui gruppi più fighi del momento, compravo Rocksound e ascoltavo la compilation Music with attitude che c’era dentro. Ecco, ai tempi internet non era proprio il mio territorio consueto (oggi invece ho il panico di sbagliare le uscite in tangenziale e mi rode il culo perfino di alzarmi per andare a pisciare), e non c’era nemmeno la compulsiva proliferazione di newscast e rss che sono in grado di informarmi in tempo reale di qualsiasi POCO INTERESSANTE evento sia stato organizzato al mondo al solo scopo di tenermi attaccato a un terminale (sono sicuro che prima di MTV una cosa del genere non sarebbe mai potuta accadere, ma anche di questo ne parliamo un’altra volta). Dunque quella compila mi tornava buona, perché mentre passavo le nottate nella stanza del mio coinquilino frocio sperando che non tornasse – e che PER CARITA’ non tornasse in compagnia, soprattutto – scrivendo articolate e sorprendenti lettere d’amore per qualcuno che oggi non meriterebbe nemmeno la pasta scotta, non avevo molti altri modi per scoprire cose che poi invece mi sarebbero tornate buone, utili e belle – tipo The Bronx, Pedro The Lion o Burnt By The Sun – e per scoprire al contrario come tenermi dall’inizio alla larga da gente come Taking Back Sunday o Girl Against Boys.
Poi un giorno, dentro un cd col faccione di Billy Corgan, che conteneva una outtake PERFETTAMENTE perdibile di qualche sessione scartata di Machina II o qualcosa del genere, ciccia fuori Blindfolded.
Che è un pezzo gentile, articolato, scritto con una maestria da altri tempi, tenero e intenso, che mi piaceva cantare insieme alla voce di questo stronzo norvegese che ha la voce uguale a quella di Peter Gabriel (se mi distraggo un attimo). Insomma, tutte le fortune per loro. E tutto sommato, anche per me, che ho iniziato a sentire quel pezzo a manetta per una quantità di tempo invereconda – nonostante i miei sodali e compagni mi dicessero che quella roba faceva CAGARE, ma si sa che io e loro abbiamo sempre condiviso molto, ma non tutto. In più, avevo del materiale PRODIGIOSO per scrivere delle lettere d’amore veramente efficaci e sorridentissime (i cazzi veri avrebbero iniziato a piovere solo di lì a poco).
La cosa strana è che nei negozi di dischi mi ero sempre fermato a guardare la copertina di un disco dei Motorpsycho che si chiamava Roadwork, vol. 1 (ci si chiama tuttora, e io adesso ce l’ho anche), che li ritraeva in tre riquadri, uno per ogni elemento della band, in foto prese dal vivo e solarizzate, o contrastatissime, aggressive. Vai a capire insomma per quale cazzo di motivo mi ero CONVINTO che i Motorpsycho fossero un gruppo metal. Sarà che le mie letture da pischello pantoclasta mi avevano viziato all’idea che QUALSIASI cosa venisse dalla Norvegia non potesse fare a meno di avere a che fare con il metal. Sarà che effettivamente, come abbiamo detto all’inizio di questo pezzo (che prometto, fino alla fine da qualche parte andrà a parare), ero giovane e provinciale, a apparte due-tre cose, io non capivo un cazzo (e il fatto che fossi innamorato della vita e non solo dimostra il perché, e se volete ci mettiamo anche dentro il fatto che non mi ero MAI nemmeno preso una sbronza in vita mia, il che non è detto che sia negativo, ma dai, cazzo).
Insomma qualche tempo dopo – e manco a Roma, ma al paesello, per cui pensa che smacco – fu Gigasex a parlarmi dei Motorpsycho: a casa sua, dove ci aveva accolto questo cane che invece di Woof o Arf o – cazzo – Bau faceva Heeeeemmmm, ma nonostante facesse ridere, dicevano fosse piuttosto incazzaoso. Forse apposta. O forse perché doveva far da guardia alla casa. Una bella casa da gente che vive in campagna al paesello. La ghiaia nel cortile. Mah.
Lui c’è da dirlo: ai tempi stava già abbastanza avanti. Fu lui che mi parlò di Howe Gelb come del suo modello di padre o di zio o qualcosa del genere. E insomma fu lui a passarmi qualcosa dei Motorpsycho, che poi erano due pezze niente male: Timothy’s monster e Trust us, due dischi doppi – già: immaginate di essere voi norvegesi, e a gennaio fa TALMENTE freddo che non potete fare altro che stare in uno studio di registrazione riscaldato a dovere grazie ai potenti mezzi dello stato sociale norvegese e sfornare dischi con la stessa frequenza con cui in tutti gli altri paesi del mondo i contemporanei e coetanei stappano birre.
Ben due dischi doppi, dunque: in cambio della trilogia di Shut up ‘n play yer guitar e di Ahead of their time. Già, perché ai tempi ero uno zappiano convinto e esegeta: erano i tempi in cui mi esercitavo cinque ore al giorno e stavo in questo gruppo STRUMENTALE con tre chitarre SOLISTE: cristo, dovevo essere veramente uno a cui tirare i petardi addosso per la strada.
Oggi sono arrivato alle prove con due ore e mezza di anticipo perché nonostante ascolti e suoni una musica di gran lunga migliore a quella a cui potessi mai aspirare allora (avevo una Dean e facevo gli ASSOLI, ne vogliamo parlare?), non significa che io sia un tipo più intelligente, nella vita.
Visto che stavo preso abbastanza a male, avevo bisogno di portare con me per la macchina qualcosa di confortante, qualcosa a cui prestare attenzione. NON, dunque, qualche scimmia urlatrice che mi avrebbe fatto arrivare già spompato, NON qualche cd che conosco a memoria e lasciandolo in sottofondo al mio cervello avrebbe fatto in modo che io potessi continuare a pensare a quanto è grama la mia vita e quanto mai una gioia il destino abbia in serbo per me. Vabè.
Ci voleva qualcosa di semisconosciuto, qualcosa che non avevo ancora penetrato a fondo, ma che contenesse qualcosa di solido a cui appigliarmi, per cui ricordandomi del fatto che For Free è uno dei miei pezzi preferiti in questi ultimi giorni, ho agguantato Phanerothyme – insieme a Some boots dei Karate, per cui pensate come je stavo – e l’ho infilato in borsa.
Per strada ho ricevuto l’illuminazione. I Motorpsycho sanno TUTTA la musica e – ecco la loro divinità – SANNO COSA FARSENE! Se pensate a tutti i tromboni musicofili che hanno usato la loro cultura come base per sciorinare la loro erudizione, questo è un miracolo bello e buono. Phanerothyme è il tributo dei Motorpsycho alla musica degli ultimi quarant’anni (quella buona, non ci sbagliamo), miscelata e ricomposta al servizio esclusivo del fatto – altra prova di divinità – che SANNO scrivere le canzoni. Come CSN&Y, come gli America, come i Beatles (e badate che non li tiro mai fuori a cazzo, altrimenti faccio gli incubi), come il miglior folk americano (e ve lo ricordo: sono norvegesi), come il miglior rock psichedelico, con i suoni giusti, le atmosfere giuste e la giusta posa.
Insomma, se fossero giapponesi, per capirci, sarebbe plausibilissima la stessa cosa, ma lo farebbero con quella foga da vene gonfie sulla fronte che li contraddistingue. Invece, cosa rende fantastici i Motorpsycho? Il fatto che sono intensi, e non zelanti; il fatto che SANNO essere delicati e leggeri, che è cosa che oggi pare si possano ricordare solo i posapiano vestiti col dolcevita color crema, quelli che in copertina sono ritratti mezzi sfocati in mezzo ai boschi (tipo Nicolai Dunger, anche se lui è un figo).
Per cui anche se ci sono ammiccamenti ai Pink Floyd (la chitarra solista di Painting the night unreal puzza da lontano, ma il suo fetore è alleviato dall’arrangiamento dei fiati, che sanno di Nutella o newyorkese stanchissimo); anche se – unico loro difetto? – a volte attaccano a suonare e non è detto che smettano prima che mediamente hai sospirato almeno cinque volte, anche se gli piace giocare a fare gli hippie (vogliamo parlare di Go to California? Di questa immensa dichiarazione d’amore al flower power o a Jerry Garcia? No, non ne parliamo che mi incazzo e riscopro reazionario, e a st’ora è una pezza) i Motorpsycho lo sanno fare perché c’hanno le idee, le idee non stanno nei dischi, ma nelle canzoni, che è più di quanto mediamente sono abituato ad ascoltare ultimamente.
E poi Blindfolded, uno dei pochissimi come-again che mi permetto: un pezzo che potrebbe essere stato scartato da Ray Davies perché era troppo poco snob, una specie di spremuta di giornata di presa a bene, anche se parla di cose un po’ tristi. Solo quello – e Bedroom eyes – valgono il disco. Ma questo se proprio vogliamo tendere al ribasso, eh...
PLAYLIST:
Motorpsycho: Bedroom eyes
Motorpsycho: For free
Motorpsycho: Blindfolded
The Beatles: You won’t see me
The Turtles: Happy together
Otis Redding: Try a little tenderness
The Books: Excess straussess
Angelo Badalamenti: Rita walks/Sunset boulevard/Aunt Ruth
George Harrison: I’d have you anytime
Frank Zappa: Blessed relief
Simon & Garfunkel: Mrs. Robinson
The Twilight Singers: Martin Eden
Calexico: Crumble
Ani DiFranco: Joyful girl
Tom Waits: Cemetery polka
È verosimile che parta tutto da Blindfolded perché quella canzone saltò fuori da un cd sampler di Rocksound come una rana salta fuori dalle scatole di riso dei cartoni animati giapponesi (quelli peggiori, quelli in cui c’è il bambino ciccione con l’ombelico da fuori con la X sopra, che dorme sotto un albero con una bolla che gli esce dal naso).
Io in quel periodo ero innamorato della vita come uno che non capisce un cazzo perché è innamorato della vita e non solo: compravo Rocksound tutti i mesi perché credevo profondamente in questi grattaculo che berciavano tra i denti di quando da ragazzini gli facevano ingoiare i gechi. In questa gente che avrebbe rinnovato il metal perché lo stava mischiando con l’hip hop, con il pop, e in definitiva se lo stava facendo produrre meglio. Credevo nei californiani con il cappello all’indietro e i pantaloni sotto ar culo (che poi non è che adesso io li porti diversamente, ma è una questione di atteggiamento generale: adesso non c’è bisogno di sembrare bambini scemi o di avere le treccine, ma insomma non è di questo che stiamo parlando). Credevo nelle accordature basse che non avevo sentito mai prima, credevo nei samples in mezzo ai ritornelli, credevo negli arrangiamenti da ejaculatio praecox, o Col freno a mano, come dice er Valerio.
Io credevo nei Korn, insomma, e nelle camice celesti a maniche corte: quando ero innamorato della vita come un coglione, intorno a cinque anni fa, e con le margheritine negli occhi non ero in grado di vedere che quegli incapaci non avevano un cazzo da dire ma lo diceva con dei suoni da paura. E per questo motivo compravo Rocksound tutti i mesi, e ridevo. Oh, sì, ridevo di gusto.
Ridevo perché la posta dei lettori non era altro che un lunghissimo litigio su coso, il tizio dei Linkin Park che sembra un malato terminale, o un ricchione sciccosissimo: decidete voi. E poi ridevo per la costante agiografia negli articoli, nelle interviste (non fate MAI intervistare musicisti da persone che non hanno mai preso una chitarra in mano, li faranno sentire dei pompieri santi dell’11 settembre e poi l’assuefazione porta a tutta una serie di inconvenienti di cui l’essere pesantemente sovrappeso è solo il più lieve – vero Jon?), nelle recensioni. E poi ridevo perché la cover story era sempre dedicata alla stessa gente, e perché in definitiva quelli non ci hanno mai preso un cazzo di niente, diciamocelo.
Insomma, ridevo di gusto all’idea di come fosse piuttosto povero e leccaculo il giornalismo musicale italiano, soprattutto quello di genere.
Tuttavia, visto che volevo tenermi costantemente aggiornato sulle novità, sulle ultime uscite, sui gruppi più fighi del momento, compravo Rocksound e ascoltavo la compilation Music with attitude che c’era dentro. Ecco, ai tempi internet non era proprio il mio territorio consueto (oggi invece ho il panico di sbagliare le uscite in tangenziale e mi rode il culo perfino di alzarmi per andare a pisciare), e non c’era nemmeno la compulsiva proliferazione di newscast e rss che sono in grado di informarmi in tempo reale di qualsiasi POCO INTERESSANTE evento sia stato organizzato al mondo al solo scopo di tenermi attaccato a un terminale (sono sicuro che prima di MTV una cosa del genere non sarebbe mai potuta accadere, ma anche di questo ne parliamo un’altra volta). Dunque quella compila mi tornava buona, perché mentre passavo le nottate nella stanza del mio coinquilino frocio sperando che non tornasse – e che PER CARITA’ non tornasse in compagnia, soprattutto – scrivendo articolate e sorprendenti lettere d’amore per qualcuno che oggi non meriterebbe nemmeno la pasta scotta, non avevo molti altri modi per scoprire cose che poi invece mi sarebbero tornate buone, utili e belle – tipo The Bronx, Pedro The Lion o Burnt By The Sun – e per scoprire al contrario come tenermi dall’inizio alla larga da gente come Taking Back Sunday o Girl Against Boys.
Poi un giorno, dentro un cd col faccione di Billy Corgan, che conteneva una outtake PERFETTAMENTE perdibile di qualche sessione scartata di Machina II o qualcosa del genere, ciccia fuori Blindfolded.
Che è un pezzo gentile, articolato, scritto con una maestria da altri tempi, tenero e intenso, che mi piaceva cantare insieme alla voce di questo stronzo norvegese che ha la voce uguale a quella di Peter Gabriel (se mi distraggo un attimo). Insomma, tutte le fortune per loro. E tutto sommato, anche per me, che ho iniziato a sentire quel pezzo a manetta per una quantità di tempo invereconda – nonostante i miei sodali e compagni mi dicessero che quella roba faceva CAGARE, ma si sa che io e loro abbiamo sempre condiviso molto, ma non tutto. In più, avevo del materiale PRODIGIOSO per scrivere delle lettere d’amore veramente efficaci e sorridentissime (i cazzi veri avrebbero iniziato a piovere solo di lì a poco).
La cosa strana è che nei negozi di dischi mi ero sempre fermato a guardare la copertina di un disco dei Motorpsycho che si chiamava Roadwork, vol. 1 (ci si chiama tuttora, e io adesso ce l’ho anche), che li ritraeva in tre riquadri, uno per ogni elemento della band, in foto prese dal vivo e solarizzate, o contrastatissime, aggressive. Vai a capire insomma per quale cazzo di motivo mi ero CONVINTO che i Motorpsycho fossero un gruppo metal. Sarà che le mie letture da pischello pantoclasta mi avevano viziato all’idea che QUALSIASI cosa venisse dalla Norvegia non potesse fare a meno di avere a che fare con il metal. Sarà che effettivamente, come abbiamo detto all’inizio di questo pezzo (che prometto, fino alla fine da qualche parte andrà a parare), ero giovane e provinciale, a apparte due-tre cose, io non capivo un cazzo (e il fatto che fossi innamorato della vita e non solo dimostra il perché, e se volete ci mettiamo anche dentro il fatto che non mi ero MAI nemmeno preso una sbronza in vita mia, il che non è detto che sia negativo, ma dai, cazzo).
Insomma qualche tempo dopo – e manco a Roma, ma al paesello, per cui pensa che smacco – fu Gigasex a parlarmi dei Motorpsycho: a casa sua, dove ci aveva accolto questo cane che invece di Woof o Arf o – cazzo – Bau faceva Heeeeemmmm, ma nonostante facesse ridere, dicevano fosse piuttosto incazzaoso. Forse apposta. O forse perché doveva far da guardia alla casa. Una bella casa da gente che vive in campagna al paesello. La ghiaia nel cortile. Mah.
Lui c’è da dirlo: ai tempi stava già abbastanza avanti. Fu lui che mi parlò di Howe Gelb come del suo modello di padre o di zio o qualcosa del genere. E insomma fu lui a passarmi qualcosa dei Motorpsycho, che poi erano due pezze niente male: Timothy’s monster e Trust us, due dischi doppi – già: immaginate di essere voi norvegesi, e a gennaio fa TALMENTE freddo che non potete fare altro che stare in uno studio di registrazione riscaldato a dovere grazie ai potenti mezzi dello stato sociale norvegese e sfornare dischi con la stessa frequenza con cui in tutti gli altri paesi del mondo i contemporanei e coetanei stappano birre.
Ben due dischi doppi, dunque: in cambio della trilogia di Shut up ‘n play yer guitar e di Ahead of their time. Già, perché ai tempi ero uno zappiano convinto e esegeta: erano i tempi in cui mi esercitavo cinque ore al giorno e stavo in questo gruppo STRUMENTALE con tre chitarre SOLISTE: cristo, dovevo essere veramente uno a cui tirare i petardi addosso per la strada.
Oggi sono arrivato alle prove con due ore e mezza di anticipo perché nonostante ascolti e suoni una musica di gran lunga migliore a quella a cui potessi mai aspirare allora (avevo una Dean e facevo gli ASSOLI, ne vogliamo parlare?), non significa che io sia un tipo più intelligente, nella vita.
Visto che stavo preso abbastanza a male, avevo bisogno di portare con me per la macchina qualcosa di confortante, qualcosa a cui prestare attenzione. NON, dunque, qualche scimmia urlatrice che mi avrebbe fatto arrivare già spompato, NON qualche cd che conosco a memoria e lasciandolo in sottofondo al mio cervello avrebbe fatto in modo che io potessi continuare a pensare a quanto è grama la mia vita e quanto mai una gioia il destino abbia in serbo per me. Vabè.
Ci voleva qualcosa di semisconosciuto, qualcosa che non avevo ancora penetrato a fondo, ma che contenesse qualcosa di solido a cui appigliarmi, per cui ricordandomi del fatto che For Free è uno dei miei pezzi preferiti in questi ultimi giorni, ho agguantato Phanerothyme – insieme a Some boots dei Karate, per cui pensate come je stavo – e l’ho infilato in borsa.
Per strada ho ricevuto l’illuminazione. I Motorpsycho sanno TUTTA la musica e – ecco la loro divinità – SANNO COSA FARSENE! Se pensate a tutti i tromboni musicofili che hanno usato la loro cultura come base per sciorinare la loro erudizione, questo è un miracolo bello e buono. Phanerothyme è il tributo dei Motorpsycho alla musica degli ultimi quarant’anni (quella buona, non ci sbagliamo), miscelata e ricomposta al servizio esclusivo del fatto – altra prova di divinità – che SANNO scrivere le canzoni. Come CSN&Y, come gli America, come i Beatles (e badate che non li tiro mai fuori a cazzo, altrimenti faccio gli incubi), come il miglior folk americano (e ve lo ricordo: sono norvegesi), come il miglior rock psichedelico, con i suoni giusti, le atmosfere giuste e la giusta posa.
Insomma, se fossero giapponesi, per capirci, sarebbe plausibilissima la stessa cosa, ma lo farebbero con quella foga da vene gonfie sulla fronte che li contraddistingue. Invece, cosa rende fantastici i Motorpsycho? Il fatto che sono intensi, e non zelanti; il fatto che SANNO essere delicati e leggeri, che è cosa che oggi pare si possano ricordare solo i posapiano vestiti col dolcevita color crema, quelli che in copertina sono ritratti mezzi sfocati in mezzo ai boschi (tipo Nicolai Dunger, anche se lui è un figo).
Per cui anche se ci sono ammiccamenti ai Pink Floyd (la chitarra solista di Painting the night unreal puzza da lontano, ma il suo fetore è alleviato dall’arrangiamento dei fiati, che sanno di Nutella o newyorkese stanchissimo); anche se – unico loro difetto? – a volte attaccano a suonare e non è detto che smettano prima che mediamente hai sospirato almeno cinque volte, anche se gli piace giocare a fare gli hippie (vogliamo parlare di Go to California? Di questa immensa dichiarazione d’amore al flower power o a Jerry Garcia? No, non ne parliamo che mi incazzo e riscopro reazionario, e a st’ora è una pezza) i Motorpsycho lo sanno fare perché c’hanno le idee, le idee non stanno nei dischi, ma nelle canzoni, che è più di quanto mediamente sono abituato ad ascoltare ultimamente.
E poi Blindfolded, uno dei pochissimi come-again che mi permetto: un pezzo che potrebbe essere stato scartato da Ray Davies perché era troppo poco snob, una specie di spremuta di giornata di presa a bene, anche se parla di cose un po’ tristi. Solo quello – e Bedroom eyes – valgono il disco. Ma questo se proprio vogliamo tendere al ribasso, eh...
PLAYLIST:
Motorpsycho: Bedroom eyes
Motorpsycho: For free
Motorpsycho: Blindfolded
The Beatles: You won’t see me
The Turtles: Happy together
Otis Redding: Try a little tenderness
The Books: Excess straussess
Angelo Badalamenti: Rita walks/Sunset boulevard/Aunt Ruth
George Harrison: I’d have you anytime
Frank Zappa: Blessed relief
Simon & Garfunkel: Mrs. Robinson
The Twilight Singers: Martin Eden
Calexico: Crumble
Ani DiFranco: Joyful girl
Tom Waits: Cemetery polka
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