17 gennaio 2007

Abuse of the blues

Quando la parola “blues” veniva associata naturalmente a Muddy Waters o a Robert Johnson, il concetto di Blues come genere musicale (cioè forma) e come mood (cioè un ristretto tipo di emozioni) era pacificamente usato per discriminare alcune opere da altre. Col passare del tempo l’accezione della parola incriminata si è allargata a dismisura e diluita nella sua forza significante. Così assistiamo da tempo immemore da un lato, quello del gretto mainstream cicoriaro, alle affermazioni urticanti di Mollica che trova il blues in Giorgia, Zucchero e Irene Grandi (ma non è solo il Mollica a straparlarne); dall’altra, quella della stampa di settore, per intenditori, musicofili e casi umani di ogni risma, all’evocazione del blues in alcune ricorrenti fattispecie:
1. come un’ombra che pervade un’opera senza caratterizzarsi direttamente in tal senso
2. come eco (“echi di blues”)
3. come oggetto detenuto dalla totalità della popolazione, buono da brutalizzare, maltrattare e persino decostruire.
Bene. Tutto ciò spesso corrisponde a cazzata. Perché viene confusa la frequentazione del blues come genere da parte di un certo artista col suo fare blues nella sua musica. Perché si attribuisce ad una... goticità vagamente roots l’appartenenza al nonno/nonna della musica del ‘900.
perché si confonde il Blues con lo strazio. Il Blues non è lo strazio (e men che meno uno strazio).
Chi lo suonava era gente spesso senza troppi prospettive che prendeva ciò che la vita gli dava e di quello parlava. Non di ciò che non aveva.
L’unica assenza provata è quella di un amore cessato, non quella di una vita piacevole. Il Blues (musica dello schiavo per la visione dominante dell’afroamericano odierno) è un linguaggio realista, individualista, intriso di sessualità consumata o pubblicizzata (I’m your backdoor man), un po’ poetico un po’ coatto e soprattutto, per un lungo periodo storico, sociologicamente nero. Quando il bianco viene a contatto con il blues e lo fa suo è ovvio che la musica del diavolo si rimodella sulla cultura bianca. Quando il bianco viene a contatto col blues è storicamente provato che sperimenta, forse per la prima volta nella storia della musica, un’improvvisa urgenza di esprimere un sentimento a lui misconociuto. E qui il bianco sviluppa frustrazione. Mai suonare qualcosa è stato così frustrante per un bianco. Lui studia, pratica, impara, brutalizza, decostruisce, ma alla fine il risultato è altro. Bello, magari, ma altro.
È forse per questo che dicono che la musica di Carla Bozulich è blues?
Non lo so. L’ultimo album è un requiem. Una messa per i defunti e, non che faccia cacare ma proprio non ci riesco. C’è solo strazio. C’è il dolore per una semplice irreversibile verità: la dannazione.
E qui sta il punto.
Cypress groove blues (Skip James), spesso considerato un prototipo di brano gotico ante-litteram, ha il suono che avevano i dischi all’epoca: fruscia. È più il fruscio che la musica e fruscia pure Carla Bozulich ma a Skip, se è dannato o meno, non gliene cale affatto.
Siamo noi a dolerci del dolore. Un nero della prima metà del ‘900 faceva dolore di secondo nome. Dunque non è detto che l’espressione del dolore interiore, esistenziale renda la nostra musica blues.
Io lo so. Io vi conosco, recensori appassionati, intellettuali del pentagramma immaginario del pop. Io capisco perfettamente cosa intendete dire con: “C’è blues nella musica di Carla Bozulich”, ma cosa vuol dire?
Capisco pure Berlusconi quando dice che i cinesi bollivano i bambini. E i cinesi non bollivano i bambini. E non c’è blues nella musica di Carla Bozulich. È fuorviante per il consumatore assennato che cerca emozioni nuove all’interno di un certo linguaggio, compra il disco e sente un altro linguaggio. Lo è per il neofita che si trova un polpettone scuro, nebbioso e deprimente, che forse non voleva, per le mani. È deleterio per Carla Bozulich (sarebbe pure il caso che qualcuno le dicesse che non è Bessie Smith). È limitante per il blues che viene tirato fuori come sintesi semplificante del magma di emozioni di un artista.
E dunque per concludere:
1. Il disco di Carla Bozulich non è blues.
2. Se lo è, MTV Unplugged in New York dei Nirvana lo è sicuramente di più.
3. A me non ha fatto una grande impressione.
A volte dallo showbiz più stolido viene un raggio di luce. In “Talkin’ ‘bout the blues” della Jon Spencer Blues Explosion (l'album è ACME), Jon Spencer dice chiaramente “I don’t play the blues people, I play rock’n’roll, the blues is no. 1”.
The blues is no. 1, capito? Bisogna esserne degni. Curioso ricevere lezioni di umiltà da un simile fanfarone, anche se simpatico.

Nessun commento: