31 gennaio 2007

Peace and love, Eighties!

Vi farò una confidenza. Saltuariamente faccio uso di stupefacenti leggeri, e questo potrà influenzare quanto dirò ma in fondo, chissenefrega, io non ho una faccia da perdere.
Sarà per questo che adesso mi sento abbastanza irriverente da dire che gli anni '80 e i loro rivalutatori sono delle cacate.
Mi rendo conto che il linguaggio può apparire scurrile ma all'attuale stato dell'arte non trovo aggettivi migliori per definire detta decade e il revisionismo storico che si sta già, in questo momento, facendo sulla sua validità. Mi viene da chiedermi se non sia una manovra precauzionale di certi protagonisti della storia recente coprire di pezze le schifezze che hanno fatto PROPRIO A PARTIRE DAGLI ANNI '80.
Per quelli come me, nati sotto il segno dei primi '70, gli anni '80 sono già ricordi, sensazioni definizioni del proprio vocabolario emotivo, memorie ricevute in piena facoltà d'intendere e volere (o quasi...). IO ME LI RICORDO GLI ANNI '80!!! C'ERO!!! Non erano questo splendore.
Erano la versione contemporanea della caduta dell'impero romano. Cosa recita qualunque manuale di storia classica delle scuole secondarie? “A causa del graduale corrompersi dei costumi e della società Romana, dalla classe politica all'esercito al popolo, l'impero perse gradualmente la sua solidità”. Punto. Et voilàààà!!! PALLIETTES! GIOCHI A PREMI! FICA AGGRATISE! CHIAPPE IN PRIMA SERATA! IMPRENDITORIAAAA! LIBERO MERCATOOOO... berlusconi. PUNTO!
Da ragazzino sentire la musica era una cosa che ti distingueva. E la musica che ascoltavi ti distingueva ulteriormente. NESSUNO e sottolineo, nessuno “...Ascoltava un po' di tutto...”.
Le persone, anche le meno appassionate, sapevano parlarti di quello che ascoltavano, anche se era orribile. Sennò, semplicemente, non ascoltavano un cazzo. Dopo QUELLA decade: tutti tuttologi. Ma non é lampante? Erano gli anni del craxismo (e si facevano molte craxate...) e la musica perdeva la sua battaglia col mercato. Non più lei a “fare” il mercato bensì il mercato a fare lei. E così quello che oggi definiamo “Suono anni '80” non è il meglio uscito da quegli anni ma, mai come prima nella storia, quello che il mercato decretò “Il meglio uscito in quegli anni”. Eravamo diventati tutti “Mercato della musica”: non solo chi cercava i dischi, anche chi non li cercava.
Eppure non era mica così facile, negli '80. Se la roba che girava ti faceva cacare, era dura. Qualche sporadico disco d'importazione (pagato col sangue), e i cataloghi ai quali si scriveva a mano (col sangue per inchiostro, a lume di lanterna... ehm...) perché c'era solo la poste e telegrafi e non internet. Ogni tanto un amico, un “cugino maggiore” ,una radio in stato di grazia temporanea, ti passava qualcosa che valeva la pena. È un doveroso atto d'onore a quei coraggiosi, arditi perfino (sacripante!), che in quegli anni, spesso lontani dal giro grosso, cominciorno a suonare con un fine diverso dal rimorchiare, comunicare la propria (obbligatoria all'“epeca”) ambiguità sessuale-esistenziale-fare futurismi-fare surrealismi-fare robottismi- indossare giacche con tre spalline per lato... raffreddare il sesso in mezzo alle gambe e farlo andare per (mi scuso con le lettrici femministe e trotzkiste) Cazzi Sua. Per cui GODSPEED YOU a gente come Billy Bragg, R.E.M. , THE X, Black F!
lag, The Mekons, The Pogues, Gun Club, Stan Ridgway, lo stesso Springsteen (ricordate Nebraska?), che suonava per davvero mentre i DURAN DURAN NO. Ve lo devo, “Slave to love” mi piace, e anche “The power of love” , stimo Smiths e Cure e voglio bene ai Talking Heads e ai Police ma questi erano comunque musicisti. Più mainstream, d'accordo, però buoni da sentire (e poi non è che la merda sta tutta nel mainstream e solo là). Ma gli altri...
Negli '80 c'era questa renaissance degli anni '50, questa voglia di essere anni '50... melodici, romantici... MA BRUTTI PORCONI IN QUARANT'ANNI NON AVEVATE PERSO NEANCHE UNA BRICIOLA D'INNOCENZA?!? Io me la spiego solo così la trista parata di lustrini, l'ostentazione travestita da musica, l'esibizionista (magari mesto in volto oppure innaturalmente gaio) travestito da musicista. Già tutti intenti a rimirare il passato, a revivalizzarlo sia pure con macchinoni elettronici, già bisognosi di un lifting e completamente affrancati dal senso di colpa che l'ultima guerra aveva creato. Così, gli anni '50, '60 e '70 che da quello traevano linfa, erano passati, la storia fatta, l'opera da rimirare. Beh, stasera, colto da tossica luce, vi dico: Bella cacata.
Questa notte, tornando a casa, suono una delle ultime cose scaricate. Si chiama, anzi, si chiamano BLANCHE. Stasera per me gli '80 sono passati, finalmente, e il risultato non è una bella cacata.
Nei BLANCHE si trovano, sparse in giro, tracce del folk malinconico e accorato dei Mekons, un cantato “Bragghiano” con Michael Stipe che mormora da sotto la cantina, una voce femminile che più tristanzuola non si può e strumenti, acustici per lo più, a tenere insieme tutto. E così mi sono ascoltato queste morriconate, leggere come Morricone non saprebbe mai fare. Non so una sega sui BLANCHE e non li voglio recensire. Quello che so é che partono dal folk americano e lo suonano, alle volte, dannatamente inglese. Sembrano molto più antichi, come usciti da un saloon dove, al contrario di quello che la maggioranza pensa, non c'era solo il solito pianista a cui non sparare, teso sui tasti di un macinino che chiamava pianoforte a suonare ragtime, ma anche piccole orchestre che allietavano gli astanti con la square dance e gighe di matrice europea (quindi inglese, francese, irlandese, balcanica e chi più ne ha più ne metta). Ed in quel momento che mi si accende una lampadina: che non sia stato negli anni '80 che é iniziato il vero recupero, informale, popolare e non da studenti di etnomusicologia del folk? Non lo so ancora. però é una proposta di riflessione.
Quello che mi preme di più è ringraziare i BLANCHE per avermi ridato indietro il mio “Suono degli anni '80” e il trauma che dovette soffrire la musica quando, per la prima volta in vita sua, si sentì dire dal sistema che, lei, era sua ormai e che ne aveva bisogno solo in un certo determinato modo, per tutto il resto, che venisse pure l'oblio. Non vi odio più, fottuti anni '80, non sarò più il Catone censore delle vostre piccolezze. Da ora in poi, ogni volta che verrò tentato dal montare di una reprimenda nei vostri confronti, metterò su i BLANCHE e navigherò sereno nei ricordi di quello che gli anni '80 vollero dire per me. E in culo a tutto il resto.

30 gennaio 2007

genealogia della Pizza Quattro Stagioni - parte I

Ho rosicato. I Death Cab For Cutie non sono nella lista dei 25 dischi fondamentali dell’emo di Sonic – numero di ottobre/novembre 2006. Ho pensato Eh, pensa se possono mancare i Death Cab For Cutie... Ci sono gli Appleseed Cast (nel sottogenere Emo/postrock), ci sono i Karate, e poi i Finch, perfino gli Orchid, insomma non mi stupirei di trovarci anche Nick Drake o i Beatles. Insomma, basta che non sia metal, disco, funk, black o r’n’b, qualsiasi genere musicale o disco può essere considerato come emo. Anche se fanno heavy metal come i Funeral For A Friend, anche se fanno post rock come gli Appleseed Cast, appunto (ma a questo punto perché i Mogwai no, o addirittura i SIGUR ROS, perdio? Sono i più tristi di tutti!).
Ma del resto, qualsiasi genere musicale di cui si possa tracciare una mappa di ben VENTICINQUE DISCHI FONDAMENTALI (fa ridere, vero?) deve avere qualcosa che non va. Anche il più incallito e generoso degli appassionati di jazz (non cool jazz, non free, non be bop, non hardbop, JAZZ e basta) farà fatica a darvi VENTICINQUE DISCHI FONDAMENTALI. Clamoroso, roba che se ci mettiamo dentro quelli anche solo importanti e quelli belli e basta copriamo mezza discografia mondiale.

Ora, beninteso: non ce l’ho con Sonic, e con i ragazzi che ci scrivono. Dopotutto penso che ci volesse una rivista che trattasse esclusivamente di quella roba che ultimamente sta facendo il botto – anche se recensire Micah P. Hinson o Scott Walker nelle stesse pagine insieme a Alexisonfire e Walls Of Jericho mi sembra almeno disorientante, permettetemi. Però insomma, visto che Rocksound è quello che è, e Punkster pure, mi sembra buono che ci sia comunque gente che mette i Converge in copertina, anche se il taglio editoriale è più o meno lo stesso quello di Rolling Stone o XL. In altre parole: molti personaggi, e poca musica. Ma del resto, questo è sempre stato il trend della stampa musicale italiana, che segue la cultura del suo pubblico, una cultura di personaggi, e non di canzoni.
Però questa cosa è curiosa, cionondimeno, perché io posso capire che mi volete aiutare una volta per tutte a capire che cazzo è questo emo, una questione che ha ormai surclassato il dilemma sull’assassinio di Laura Palmer e diventa di diritto il quesito del nostro decennio. Allora grazie, Sonic, se dedichi al fenomeno più dibattuto degli ultimi anni ben 6 pagine di approfondimento. Grazie per lo sforzo, almeno, che per quanto riguarda il risultato mi sa che non ci siamo, perché se riesci a convincermi – da sobrio – che i Karate possano avere qualche punto di contatto con l’emo come ce l’hanno gli Orchid, ti rispondo Offrimi da bere, piuttosto. Tempo fa un mio amico mi diceva che L’emo è una musica... una musica... una musica TRISTE. Io gli ho risposto Ma che c’entra, ma allora anche i Radiohead sono emo. E lui, senza battere ciglio mi ha ribattuto Ma guarda che in fondo i Radiohead un po’ emo sono. Ora: io voglio bene davvero a questo mio amico, ma mi sa che comunque ci sta sfuggendo qualcosa.
Allora: o siamo di fronte a un discorso spazio/temporale, come è stato con il grunge, ma quella era Seattle a cavallo degli anni 90, e non il mondo intero – e non mi rispondete che adesso abbiamo internet perché lo sapete che è una CAZZATA, perché se fosse così vediamo quanti gruppi fighi escono dalla Moldavia, su. Oppure, siamo di fronte a un percorso prettamente legato al vestiario, e qui ci siamo. Ma ciò non toglie che tutto questo non ha niente a che vedere con la musica.
Oppure, cosa più evidente finora, è possibile che l’emo non esista, e sia un espediente di certe band per spacciarci un rock melenso e vocalmente stereotipato (una cosa vera che accomuna – che ne so – Hot Water Music, Alexisonfire e Further Seems Forever è il fatto che TUTTE le loro linee vocali sono praticamente LA STESSA, il che semplifica di molto l’accesso a questo tipo di approccio anche da parte delle teenage band) che non sanno come chiamare altrimenti perché la parola “rock” suona banale, visto che sono passati 50 anni da Elvis, 40 dai Beatles e dai Rolling Stones e 30 dal punk. Che era rock and roll ma più sciatto, e chiunque dice il contrario si merita la revoca della licenza elementare.
Allora, se è così, diciamo che si può perfino azzardare a parlare dell’emo come attitudine, come carattere più o meno come l’hardcore, che però ha un contenuto, una premessa, e un codice che parte da uno stile di vita, e poi diventa musica.
Ma almeno in quel caso la musica rimane riconoscibile, codificata, inquadrabile e valutabile come genere, e soprattutto i suoi critici – ammesso che ce ne siano mai stati – non si sono mai sognati di accaparrarsi il diritto di ricondurre sotto la propria ala tutto quello che gli pareva, come in questo caso.
In altre parole: proviamo a parlare di MUSICA, una volta tanto, e non di capelli o modi di muoversi sul palco, perché non ci sto davvero capendo più niente.
E francamente inizio anche un po' a rompermi i coglioni.

PS: va da sé che dei Death Cab For Cutie parliamo un’altra volta che mo’ me rode. Tiè, mo’ lo butto dentro e manco lo rileggo, vaffanculo.

25 gennaio 2007

un antidoto all'horror vacui

Quindi ho pensato Ma a che cazzo serve un dvd dei TRAIN?
Ricapitolando: i Train hanno avuto la seguente parabola. Hanno scritto quella canzone di merda che si chiamava Drops of Jupiter - molto pubblicità di birra peroni tutta amicizia e luppolo - col video tutto girato intorno al cantante belloccio che cantava in mezzo alla campagna (che ne so, magari per quanto mi riguarda poteva anche darsi che fosse proprio un campo di luppolo: un giusto investimento, un suggerimento per l'utilizzo della canzone) ma insomma, dopo aver piazzato 'sto singolo che a rds te la facevano anche uscire dal culo - come solo loro sanno fare - sono spariti, proprio non si sapeva che fine avessero fatto. Poi, dopo un annetto, sono ricicciati fuori con quest'altro disco che però non si è inculato nessuno e a questo punto - sorpresa sorpresa - scopro che hanno anche fatto 'sto dvd che insomma io mi dico Grazie al cazzo che da Revolver ce l'hanno incellophanato con su un cartellino verde in culo che dice Offerta 7.90.
Perché - onestamente - chi cazzo se lo COMPRA un dvd dei Train?
Ma pure, dico, per fare un regalo. A meno che non hai un gusto particolare per la cattiva sorte e camionate di soldi da spendere (ah, e amici con un collaudato senso dell'umorismo) o - che ne so - lo regali alla pischella tua se vuoi farti lasciare con la scusa del Non conosci i miei gusti non mi ascolti non mi dai importanza. A sto punto non serve a niente. Ma dai, che ne so: fatelo, stampatene 200 copie, datele agli amici del baretto che vi conoscono da ragazzini ma NON rompete i coglioni per tirare un'edizione europea e lanciarlo sul nostro mercato e togliere il lavoro ai dvd italiani.
Ci vorrebbe una commissione di saggi ho detto al cuoco e lui mentre guidava ha risposto Sette e io ho detto Che ne so, sette, tre, uno: basto io. Insomma uno viene da me e mi dice Io voglio fare un dvd e io dico Da paura, chi sei? lui mi dice Io sono i train e io gli dico A regà ma onestamente ma quanto tempo pensate di rimanere in giro? e loro dicono Mah, un paio d'anni se ci dice bene, a noi nessuno ci si incula né ci ama.
E allora - rispondo io - che cazzo lo fate a fare sto dvd che poi rimane sul groppone del mondo e non servirà ad altro che ad aggiungere una patina di mestizia alla vostra già modesta parabola?
Sentite a me: con quei soldi compratevi un bel tavolo da biliardo attorno al quale bere divertirvi e alla fine di tutto dimenticarvi di quanto cazzo possiate essere perdenti.
Così è deciso.


PLAYLIST
stevie wonder: do yourself a favor

sia: don't bring me down

24 gennaio 2007

Lettera aperta agli Heartless Bastards

Cari Erika, Mike e Kevin, cari Heartless Bastards
vengo con questa mia a dirvi che vi voglio bene e che ci ho provato, davvero, ci ho provato tanto e a lungo ma alla fine non ce l'ho fatta.
Quando due anni fa in un negozietto di dischi uno zelante commesso, conoscendo i miei gusti mi fece sentire “Stairs and Elevators”, il vostro primo album, preso da scrupolo monetario (non avevo quattrini e giravo di negozio di dischi in negozio di dischi accumulando frustrazione per il solo gusto di accumularla) decisi di non acquistarlo. Non ero rimasto particolarmente impressionato dal vostro suono ma il mio cuore (che spesso funziona meglio della mia testa) pensò comunque di appuntarsi quella band con un nome così bello: i bastardi senza cuore.
Terminati i mala tempora reincontrai il digipack rosso fuoco di Stairs and elevators e a quel punto, non più vessato da un portafogli in cui spiravano zefiri ben poco sereni, lo comprai e il mio cuore mi disse di non fare altro per quel giorno: solo tornare a casa e suonare quel cazzo di disco.
CHE CAZZO DI DISCO miei tesori, miei cari, sconosciuti amici!!!!
Stairs and Elevators si fece strada nelle mie giornate con la grazia di una divisione d'assalto dell'Armata Rossa; mise a ferro e fuoco tutte quelle pastoie elegantone che ogni tanto un mangia-dischi come il sottoscritto ascolta quando é in attesa delle “botte vere” e si sedette sul trono di “disco per il quale ero andato in fissa”.
L'immediatezza, la freschezza e la potenza che suonava nella vostra opera prima erano prodigiose.
In un colpo solo mi avevate restituito gli anni '50 dei quali sono cronicamente orfano (anche perché nato nel '74); gli anni '60 dei quali sono altrettanto cronicamente orfano (per la stessa ragione) e, soprattutto, mi avevate restituito una visione contemporanea e giovane del rock'n'roll.
Perchè, cari Heartless Bastards, il vostro era un disco di rock'n'roll che suonava straordinariamente convincente e giovane. Fu miracoloso! Era come se fosse stato inventato il mese prima. E così, dopo molto tempo, quando prestavo in giro Stairs and Elevators per diffondere il vostro verbo, alla domanda “che robb'è?” potevo rispondere serenamente ed esattamente “Rockarolla!!!” . In un attimo mi avevate liberato dalla necessità tipicamente tardo-novecentesca di utilizzare non meno di una ventina di sottodefinizioni tra cui almeno un “Post”, un “Punk” e un “Wave” per parlare di un determinato disco. Ok, ok, nelle vostre vene, sicuramente, cose come il punk o la new wave scorreranno mischiate ad altre migliaia ma alla fine della fiera, una volta tanto, la coerenza e l'intelligenza compositiva avevano prodotto una cosa talmente rockarolla da non aver bisogno di sottogeneri per chiarire di cosa si trattasse.
Stairs and Elevators aveva una grazia, una leggerezza ma anche una potenza talmente gioiose ed inequivocabili da non fare prigionieri. Mai.
Canzoni brevi, nemmeno un assolo, non un momento autoreferenziale, non un calo di tensione, il tutto talmente divertente e limpido da poter finire in qualunque giornata e in qualunque stato d'animo.
Per queste ragioni potete immaginare con quale spavalderia attendevo il secondo capitolo della vostra storia...
All This Time arrivò in un momento imprecisato dell'anno appena finito, credo fosse primavera su per giù, e quando mi giunse tra le mani, premurosamente scaricato da (cane) che come me vi aveva scoperto ed amato, quasi sdegnato presi in mano un mp3 che alla prima occasione ero sicuro sarebbe stato sostituito dalla copia originale. Giammai io scaricherò musica di un gruppo che voglio sostenere e seguire con scrupolo.
"Into the open" (traccia 1 di All This Time) iniziò col suo pianoforte riverberato lasciandomi perplesso ma speranzoso.
Presi nota del fatto manifesto di voler crescere e di volersi esprimere in modo più articolato; notai la maggior varietà di atmosfere che il disco cercava di esprimere; appuntai con zelo come i brani avessero perso immediatezza alla ricerca di spessore.
Ho ascoltato All This Time per molto tempo, con il piglio dello studioso prima e poi del fidanzato di comodo. Vi è mai capitato di stare insieme ad una persona solo perchè quella è l'unica persona che vi è capitata in quel momento? State con lei passivamente, senza aver scelto, senza aver deciso nulla fuorchè di dire “Sì” perchè dire il contrario voleva dire stare soli. E stare soli a volte atterrisce. Beh, miei cari All This Time è diventato questo. Mi doveva piacere. Per forza. Ma più mi sforzavo di amarlo, più mi rendevo conto che non contava niente. Non riusciva neanche ad essere una compagnia poco impegnativa con cui intrattenere una blanda relazione.
Cari Erika, Mike e Kevin,
se il vostro obiettivo era di migliorare il suono di Stairs and elevators, ve lo dico con franchezza: avete fallito.
Se invece volevate fare qualcosa di completamente diverso (come insegnano i Monty Phyton) vi do atto di esserci riusciti, però voglio affidavi una domanda a cui rispondere con calma: ne è valsa la pena?
Per carità: la critica ha salutato con gioia la vostra seconda uscita. Al sottoscritto invece avete causato una crisi di dubbio. Chi siete voi? Una pazza rock'n'roll band buona per ballare e per fare lo sbarco in Normandia con un sorriso cazzone dipinto sul volto o un melange modernista pseudo-qualcosa con del “Post” , del “Punk” e del “Wave” a fare da sottogeneri di riferimento?
Il rock'n'roll insegna la mancanza di pietà: se alla quarta traccia di un album non hai ancora sentito la scossa, quel disco non ti darà scosse. Ho resistito fino alla fine di All This Time sperando di trovare almeno una volta quello che cercavo ma non l'ho trovato e - non prendetemi per uno di quei fondamentalisti del cazzo, io ascolto un sacco di roba diversa - non ho trovato neanche altro che potesse essere minimamente interessante. Diciamocelo: è un'opera non riuscita.
Anche volendovi riconoscere il sacrosanto diritto di cambiare e fare un po' come cazzo vi pare, All This Time non colpisce da nessun punto di vista. Più che articolare diversamente il vostro linguaggio sembrate balbuzienti e privi di contenuti, ed è un dispiacere perchè io so che non é così.
Cari Heartless Bastards, resistete.
Gli scivoloni possono capitare a tutti (Neil Young ha fatto T.R.A.N.S., tanto per fare un esempio). Non poggiate comodamente il culo sulle critiche lusinghiere della stampa musicale che si bagna le mutande al sol pensiero di poter inserire i lemmi “Post-punk-wave-rock-psych...” nella stessa recensione dando l'impressione (errata) al recensore di possedere lo scibile musicale disponibile; non allungate ulteriormente le canzoni, altrimenti la prossima volta dovrete fare un doppio per ficcarci dentro sei brani; non tergiversate intorno all'argomento perchè la Fat possum (la vostra label) preme per farvi fare il tris. Se non avete un cazzo da dire state zitti.
Capite chi siete o, come diceva un autoavvelenatore, conoscete voi stessi e poi, e solo poi, decidetescrivetesuonate e, possibilmente, spaccateci il culo!!!
In attesa di buone nuove vi auguro il più radioso dei futuri, con la speranza che alla fine della fiera la strada da voi intrapresa possa dipingere un sorriso cazzone sui nostri volti mentre, coperti da un fazzoletto di colore primario e sovversivo, prendiamo d'assalto il Palazzo d'Inverno.
Devotamente,
un vostro sconosciuto amico.

20 gennaio 2007

complimenti dott. Rossi

Capito? Insomma VascoRossi ha detto che è stanco di fare i dischi, e che da oggi farà solo dei pezzi singoli da mettere su internet, VascoRossi. Capito? E' stanco, VascoRossi.
Dice, VascoRossi, che poi saranno i suoi ascoltatori a creare la playlist, e che non ci sarà più bisogno del disco. Questo ha detto, VascoRossi.
Magari ha anche fatto la sua brava sparata, VascoRossi, sulle nuove comunicazioni e sul modo in cui internet può permettere un contatto più stretto e più genuino tra l'artista e il suo pubblico. Magari ha anche detto che internet è il futuro e che non deve avere limiti se non quello del buon senso, VascoRossi. Che VascoRossi ci capisce, no? Che VascoRossi c'ha una laurea honoris causa in Scienze delle Comunicazioni. Da quasi due anni. Gliel'ha data lo Iulm di Milano, che insomma, lo Iulm di Milano una laurea ce l'ha - ne ha diverse in magazzino, mi dicono - e quindi SA che cosa significa attestate pubblicamente e SENZA l'impiccio del corso di studi, tasse, esami, sballottamenti da un dipartimento all'altro e smadonnamenti per riuscire a parlare con qualche docente. Insomma, devi essere un personaggio straordinario, per ricevere una laurea Honoris causa, tipo che ne so, il Presidente della Repubblica, o - boh - Valentino Rossi, insomma, uno che ci pija forte e che la gente ne vanno proprio che orgojosi.
Eh no, perché, se non ha fatto la sparata, VascoRossi, vuol dire che non apprezza l'onoreficenza che gli è stata assegnata, o al massimo non riesce a inquadrarla nella sua reale portata politica e sociale, VascoRossi; che sottovaluta i mille e mille vantaggi che il detenerla può avere - tipo passarla liscia se scrivi "sò" nei tuoi testi, e farla passar liscia anche al genio che stampa e impagina i libretti dei tuoi cd.
Perché, se non l'ha fatta, la sparata, VascoRossi, allora ha perso un'occasione per dirci la sua e infonderci della saggezza e dell'equilibrio che tutti i caciottari giornalisti musicali italiani da sempre gli riconoscono come fosse una specie di Sai Baba de noantri. Se non l'ha fatta, la sparata, male.
Se non l'ha fatta, la sparata, poco ci credo.
E me l'immagino, sta sparata, in cui VascoRossi dice che ormai le nuove tecnologie stanno cambiando il modo si ascolta la musica (sto iperbolizzando, non so se l'Ambasciatore di Zocca nel mondo si sia mai posto il problema), e dunque è compito di un artista ascoltare e assecondare le tendenze sociali del proprio pubblico, abbattendo qualsiasi forma di mediazione artistica e commerciale tra chi produce arte e chi ne gode.
Mediazione artistica e commerciale. Mediazione artistica e commerciale, VascoRo'.
Chiunque abbia seguito una qualsiasi pubblicazione musicale (o per la miseria: una qualsiasi pubblicazione, un quotidiano, un vicino di casa, chiunque) sa quanto la crisi dell'industria discografica stia incidendo sulle decisioni degli artisti: la gente non compra i cd e se li scarica da internet perché i dischi costano troppo, perché non si fida delle radio, non si fida delle riviste musicali, non si fida della televisione e di MTV, e in definitiva non ne vuole sapere di scucire 25 carte per un disco di merda - e su questo non ci piove.
Visto che le case discografiche (le major, però: le major, che le casette indipendenti da 10 euro a disco continuano a fare la fame esattamente COME prima della rivoluzione mp3, perché la gente vuol bene loro, ma di questo parliamo un'altra volta) stanno stringendo la cinghia - continuando ad alzare i prezzi, e di conseguenza premendo sui distributori, sui promoter, e talvolta anche sugli stessi musicisti - non è una cattiva idea iniziare a ripensare lo smercio del materiale musicale attraverso l'abbattimento del costo principale, e cioè il cd.
Stampare un cd costa: costa il supporto, costa la stampa, costa l'impianto, costa la realizzazione e la stampa del libretto, costa il suo assemblaggio e la sua verifica, costa il suo imballaggio e la sua spedizione, costa la sua distribuzione e infine anche la sua vendita, visto che tutta questa gente che l'ha maneggiato finché non ci entra in casa rivuole indietro la sua fetta. Paradossalmente, costa anche promuoverlo per rientrare nei costi, cosa che succede sempre più di rado perché più un cd è sparato come grande produzione, meno c'è bisogno di comprarlo: insomma, su, non c'è veramente NESSUN bisogno di spendere dei soldi per Christina Aguilera o per Paris Hilton, dato che non stiamo parlando di NIENTE che abbia la MINIMA qualità intrinseca o musicale in sé. Sarebbe come comprare il giornale del giorno prima, ancora puzzolente del barbone che ci ha dormito dentro. Tanto vale allora tirare tutto giù da internet - per copia personale, eh? altrimenti siete dei ladri e NON STO SCHERZANDO - e dare a questi pupazzi miliardari ciò che spetta loro, cioè UN CAZZO.
Risparmiando sul prezzo di realizzazione del cd (complessivo) e sulla redistribuzione degli introiti di vendita, sono bei soldini in più per la casa discografica, e di conseguenza per il musicista/produttore. Tutto questo ovviamente senza contare i diritti di riproduzione radiofonica e televisiva - e le suonerie dei telefonini, anche, perché no? - soldi netti e facili, soprattutto quando grazie al proprio nome si sarebbe in grado di vendere anche cani morti.
...Anche perché beninteso, signori miei: col cazzo che il pezzo sarà downloadabile gratuitamente, se è vero che oggi è il 20 gennaio del 2007.
Dunque niente mi toglie dalla testa che il dott. Rossi non abbia pensato a un incremento dell'utile netto annuale - magari per finanziare la sua scuderia di corse, che sappiamo bene che croce può essere da portare e quanta costanza e pazienza richieda: chiedetelo a quel poverino di Flavio Briatore - quando ha partorito questa idea da pagina 4 del Manuale del Piccolo Socialdemocratico.
Ma chiaramente, anche se con gli anni VascoRossi si è guadagnato la fama di Mr. Onestà del secolo, non credo proprio che sia abbastanza trasparente da menzionare motivazioni monetarie dietro questa opzione. Piuttosto, meglio lodare la Rete come terra dell'opportunità, meglio che il suo ufficio stampa esegua un perfetto "spin" e ci presenti il fatto compiuto come una nobile e ispirata scelta artistica e insieme ben disposta nei confronti dei suoi fan.
Allora mi sa che mi ero sbagliato: mi sa che il dott. Rossi non l'ha affatto sottovalutato, il suo titolo di studio piovuto dal cielo.


Playlist:
Isobel Campbell & Mark Lanegan: Ballad of the broken seas
Soul Coughing: Circles
Ani DiFranco: Heartbreak even
Entombed: Eyemaster
Orchid: Impersonating Martin Rev
Elvis Presley: All shook up
Descendents: I wanna be a bear
Junip: Black refuge
Hatebreed: Proven

18 gennaio 2007

ascoltatevi questo (e fate la rivoluzione)

strano oggetto il folk. finisci per trovartelo tra le mani non appena ti rendi conto di desiderarlo.lo vuoi ed è già li, pronto, per te. un amante fedele e discreto. una di quelle amicizie poco coltivate a causa della vita, le distanze, i cazzi, le cose ma sempre vigile e presente.se poi decidi che la frequentazione va intensificata il folk non si tira mai indietro.è vario, diversificato, duttile ed estremamente disponibile.un passato (ed un presente) da bluesofilo e da springsteeniano critico (passatemi la categoria perché spesso gli springsteeniani sono devoti e un po' de coccio – e comunque guardate che se non vi piace bruce non è che di musica ci capite di più... capito???) hanno portato il folk nel mio quotidiano come ascolto e, talvolta, come giocattolo con cui scrivere qualcosa di suonante.il folk è un testimone impassibile ed implacabile del contemporaneo.scordatevi le riproposizioni, i riarragiamenti; dimenticatelo come linguaggio del passato.il folk è musica acustica più di altre musiche e meno di altre ancora (sono stato chiaro?)tutto qua. è musica anche del presente. parla al presente con le sue andature in tre quarti e con stralunati tempi in quattro, in sei e in come-gli-veniva-meglio-quando-erano-ubriachi-tristi-e-incazzati in quel momento.bene. ora che avete superato i vostri pregiudizi culturali intellettual-stronzi sul folk noterete quanto segue.col folk non si fan più rivoluzioni.e questo non è in discussione.woody guthrie è storia della musica; pete seeger (anche se ringiovanito dalle "session" di springsteen) pure; phil ochs ha tirato le cuoia secoli fa; joan baez aveva già rotto i coglioni secoli fa... chi altri...dylan pare lo abbia tradito con highway 61 revisited (o era bringing it all back home?); guccini s'è fatto vecchio e poi...; piero brega non lo conosce nessuno; billy bragg forse è stato l'ultimo dei folksinger rivoluzionari.a parte ani di franco col folk non si fan più rivoluzioni.l'uso rivoluzionario, atto a coinvolgere e mobilitare le masse attraverso il folk termina e continua nella sua elettrificazione: il rock'n'roll.se volete essere rivoluzionari dai '50 in poi la vostra arma, il vostro megafono sarà la chitarra elettrica!!!perchè voi, pecoroni panzapiena mezzeseghe, fate sempre più casino con le cose rumorose che usate.le vostre automobili – le metropolitane – gli stereo al semaforo rosso nell'auto accanto che suonano la musica sbagliata con un impianto più potente del vostro e vi fanno vibrare anche l'osso sacro – i frullatori e tutte le comodità che il progresso ci ha dato insomma: cosa cazzo deve fare un folksinger per farsi sentire, eh?!?ma non cantate vittoria troppo facilmente perché il folksinger oggi ha la chitarra elettrica e le valvole e gli fa un culo così agli elettrodomestici della minchia che vi portate dietro e... mi sono esaltato: deformazione semiprofessionale.vabbé, torniamo al punto dei punti. in fondo è semplice.chitarre elettriche a parte, una società che produce meno ribellione (sì, cari miei, la ribellione si produce nella società e spesso a suo vantaggio...) perde il bisogno del folk per trasmettere il proprio tam-tam eversivo.appagata dalla potenza dell'elettrico; convinta della maggiore "portanza" di un suono rock demanda al folk differenti tematiche.e così il folk, orfano della sua carica popolare e stradaiola, si chiude in se stesso e vi parla dell'interiorità.sono più di dieci anni che una nuova leva folk si nutre e ci nutre di immaginifico, favolistico, introspettivo e, in radi casi, di neo-realismo (che però fa tanto retrò: leggi tom russel, steve earle etc. etc.)ed è roba buona! davvero! bonnie prince billy (aka will oldham) – bill callahan – jason molina, anche se, per timidezza credo, insicurezza forse, si nascondono dietro ad elettroniche dimesse e sgarrupate o a strumentazioni di quart'ordine ridotte all'osso, usano il linguaggio del folk in modo affascinante e dolcissimo.lo stesso devendra banhart (checché ne dica cane) non è affatto male.la stampa li adora.la gente li adorano (e ricordiamo semprecomunque che la gente mica sono scemi e che la gente si sono rotti i coglioni di questi governucoli da due lire che... ho avuto una ricaduta).e loro sfoderano belle cose davvero.una domanda però la devo fare: perchè tutte 'ste lamentazioni?!?per carità son tempi bui – roba da farsi frati o da farsi e basta – ma perché tutte 'ste lamentazioni?!?sarà per questo che pochi conoscono nicolai dunger?!?questo giovinotto nord-europeo (svezia) – ricchione per il van morrison degli inizi, con una scrittura spontanea ma intelligente, debitore a vecchi e nuovi di tanta musica (non solo folk) – è un ascolto rinfrancante.vivacristo finalmente uno che c'avrà i cazzi suoi pure lui ma non fa suonare le sue cose come dentro una fabbrica abbandonata (aaah il postfordismo!) o come nel deserto del mojave.aaaaaah!!! sospiro di sollievo.nicolai sceglie gli strumenti con cura (tanti) e li fa suonare (tutti!).non è pop come sufjan stevens, né spettrale come a volte riesce ad essere molina, è veramente... colorato !!!nicolai dunger ha scelto la grana della pellicola ed ha scelto il colore.niente foto d'epoca, ritratti seppiati, nebbia o polveri.c'è del fumo (si pensa ne faccia uso, il nostro), c'è da mangiare, da amare, da prendersi e lasciarsi.nel 2001 fa un disco (soul rush) che riesce a suonare come moondance e astral weeks messi insieme e che, sopra ogni cosa, non stucca!non si sa se è un miracolo od un miracolato.non vuole rivoltare le masse contro il padrone però suona maledettamente primaverile.è stradale. balsamico per una mattina di sole in cui andate a fare il vostro lavoro di merda – ottimo per farvi coraggio prima di un appuntamento galante – splendido per farvi un ballo (romantico o più movimentato) con la vostra bella – eccellente sotto la doccia.e si sa: quando un disco passa il test della doccia...e suona maledettamente primaverile. in fondo, quand'è che vanno fatte le rivoluzioni?dunque fottetevene se il vostro menestrello, mentre la celere vi bastona ed il governucolo vi vessa, canta d'amor o altre amenità.in quel momento, mentre il manganello si abbatte sulla vostra crapa, magari vi starà dicendo che la vita è una merda, non lo so.quello che so è che se mi dicono che la vita è una merda con dei fiati che suonano più stax di quelli di moondance anche un manganello è meno doloroso. quindi, giovani ribelli in cerca di un nuovo trovatore, visto che altri predicatori in chitarra acustica e sandali non se ne vedono all'orizzonte, prendetevi questo che almeno non si dispera ad ogni skippata di traccia. vi aiuterà quando saranno i lacrimogeni e quando saranno ferite da curare e quando, al calar della notte, attenderete (spero per voi in compagnia) il domani.

due ore e mezza d'anticipo

È verosimile che parta tutto da Blindfolded. Voi direte Che cazzo c’entra Blindfolded e io vi risponderò State sereni, che adesso ve lo spiego.
È verosimile che parta tutto da Blindfolded perché quella canzone saltò fuori da un cd sampler di Rocksound come una rana salta fuori dalle scatole di riso dei cartoni animati giapponesi (quelli peggiori, quelli in cui c’è il bambino ciccione con l’ombelico da fuori con la X sopra, che dorme sotto un albero con una bolla che gli esce dal naso).
Io in quel periodo ero innamorato della vita come uno che non capisce un cazzo perché è innamorato della vita e non solo: compravo Rocksound tutti i mesi perché credevo profondamente in questi grattaculo che berciavano tra i denti di quando da ragazzini gli facevano ingoiare i gechi. In questa gente che avrebbe rinnovato il metal perché lo stava mischiando con l’hip hop, con il pop, e in definitiva se lo stava facendo produrre meglio. Credevo nei californiani con il cappello all’indietro e i pantaloni sotto ar culo (che poi non è che adesso io li porti diversamente, ma è una questione di atteggiamento generale: adesso non c’è bisogno di sembrare bambini scemi o di avere le treccine, ma insomma non è di questo che stiamo parlando). Credevo nelle accordature basse che non avevo sentito mai prima, credevo nei samples in mezzo ai ritornelli, credevo negli arrangiamenti da ejaculatio praecox, o Col freno a mano, come dice er Valerio.
Io credevo nei Korn, insomma, e nelle camice celesti a maniche corte: quando ero innamorato della vita come un coglione, intorno a cinque anni fa, e con le margheritine negli occhi non ero in grado di vedere che quegli incapaci non avevano un cazzo da dire ma lo diceva con dei suoni da paura. E per questo motivo compravo Rocksound tutti i mesi, e ridevo. Oh, sì, ridevo di gusto.
Ridevo perché la posta dei lettori non era altro che un lunghissimo litigio su coso, il tizio dei Linkin Park che sembra un malato terminale, o un ricchione sciccosissimo: decidete voi. E poi ridevo per la costante agiografia negli articoli, nelle interviste (non fate MAI intervistare musicisti da persone che non hanno mai preso una chitarra in mano, li faranno sentire dei pompieri santi dell’11 settembre e poi l’assuefazione porta a tutta una serie di inconvenienti di cui l’essere pesantemente sovrappeso è solo il più lieve – vero Jon?), nelle recensioni. E poi ridevo perché la cover story era sempre dedicata alla stessa gente, e perché in definitiva quelli non ci hanno mai preso un cazzo di niente, diciamocelo.
Insomma, ridevo di gusto all’idea di come fosse piuttosto povero e leccaculo il giornalismo musicale italiano, soprattutto quello di genere.
Tuttavia, visto che volevo tenermi costantemente aggiornato sulle novità, sulle ultime uscite, sui gruppi più fighi del momento, compravo Rocksound e ascoltavo la compilation Music with attitude che c’era dentro. Ecco, ai tempi internet non era proprio il mio territorio consueto (oggi invece ho il panico di sbagliare le uscite in tangenziale e mi rode il culo perfino di alzarmi per andare a pisciare), e non c’era nemmeno la compulsiva proliferazione di newscast e rss che sono in grado di informarmi in tempo reale di qualsiasi POCO INTERESSANTE evento sia stato organizzato al mondo al solo scopo di tenermi attaccato a un terminale (sono sicuro che prima di MTV una cosa del genere non sarebbe mai potuta accadere, ma anche di questo ne parliamo un’altra volta). Dunque quella compila mi tornava buona, perché mentre passavo le nottate nella stanza del mio coinquilino frocio sperando che non tornasse – e che PER CARITA’ non tornasse in compagnia, soprattutto – scrivendo articolate e sorprendenti lettere d’amore per qualcuno che oggi non meriterebbe nemmeno la pasta scotta, non avevo molti altri modi per scoprire cose che poi invece mi sarebbero tornate buone, utili e belle – tipo The Bronx, Pedro The Lion o Burnt By The Sun – e per scoprire al contrario come tenermi dall’inizio alla larga da gente come Taking Back Sunday o Girl Against Boys.
Poi un giorno, dentro un cd col faccione di Billy Corgan, che conteneva una outtake PERFETTAMENTE perdibile di qualche sessione scartata di Machina II o qualcosa del genere, ciccia fuori Blindfolded.
Che è un pezzo gentile, articolato, scritto con una maestria da altri tempi, tenero e intenso, che mi piaceva cantare insieme alla voce di questo stronzo norvegese che ha la voce uguale a quella di Peter Gabriel (se mi distraggo un attimo). Insomma, tutte le fortune per loro. E tutto sommato, anche per me, che ho iniziato a sentire quel pezzo a manetta per una quantità di tempo invereconda – nonostante i miei sodali e compagni mi dicessero che quella roba faceva CAGARE, ma si sa che io e loro abbiamo sempre condiviso molto, ma non tutto. In più, avevo del materiale PRODIGIOSO per scrivere delle lettere d’amore veramente efficaci e sorridentissime (i cazzi veri avrebbero iniziato a piovere solo di lì a poco).
La cosa strana è che nei negozi di dischi mi ero sempre fermato a guardare la copertina di un disco dei Motorpsycho che si chiamava Roadwork, vol. 1 (ci si chiama tuttora, e io adesso ce l’ho anche), che li ritraeva in tre riquadri, uno per ogni elemento della band, in foto prese dal vivo e solarizzate, o contrastatissime, aggressive. Vai a capire insomma per quale cazzo di motivo mi ero CONVINTO che i Motorpsycho fossero un gruppo metal. Sarà che le mie letture da pischello pantoclasta mi avevano viziato all’idea che QUALSIASI cosa venisse dalla Norvegia non potesse fare a meno di avere a che fare con il metal. Sarà che effettivamente, come abbiamo detto all’inizio di questo pezzo (che prometto, fino alla fine da qualche parte andrà a parare), ero giovane e provinciale, a apparte due-tre cose, io non capivo un cazzo (e il fatto che fossi innamorato della vita e non solo dimostra il perché, e se volete ci mettiamo anche dentro il fatto che non mi ero MAI nemmeno preso una sbronza in vita mia, il che non è detto che sia negativo, ma dai, cazzo).
Insomma qualche tempo dopo – e manco a Roma, ma al paesello, per cui pensa che smacco – fu Gigasex a parlarmi dei Motorpsycho: a casa sua, dove ci aveva accolto questo cane che invece di Woof o Arf o – cazzo – Bau faceva Heeeeemmmm, ma nonostante facesse ridere, dicevano fosse piuttosto incazzaoso. Forse apposta. O forse perché doveva far da guardia alla casa. Una bella casa da gente che vive in campagna al paesello. La ghiaia nel cortile. Mah.
Lui c’è da dirlo: ai tempi stava già abbastanza avanti. Fu lui che mi parlò di Howe Gelb come del suo modello di padre o di zio o qualcosa del genere. E insomma fu lui a passarmi qualcosa dei Motorpsycho, che poi erano due pezze niente male: Timothy’s monster e Trust us, due dischi doppi – già: immaginate di essere voi norvegesi, e a gennaio fa TALMENTE freddo che non potete fare altro che stare in uno studio di registrazione riscaldato a dovere grazie ai potenti mezzi dello stato sociale norvegese e sfornare dischi con la stessa frequenza con cui in tutti gli altri paesi del mondo i contemporanei e coetanei stappano birre.
Ben due dischi doppi, dunque: in cambio della trilogia di Shut up ‘n play yer guitar e di Ahead of their time. Già, perché ai tempi ero uno zappiano convinto e esegeta: erano i tempi in cui mi esercitavo cinque ore al giorno e stavo in questo gruppo STRUMENTALE con tre chitarre SOLISTE: cristo, dovevo essere veramente uno a cui tirare i petardi addosso per la strada.
Oggi sono arrivato alle prove con due ore e mezza di anticipo perché nonostante ascolti e suoni una musica di gran lunga migliore a quella a cui potessi mai aspirare allora (avevo una Dean e facevo gli ASSOLI, ne vogliamo parlare?), non significa che io sia un tipo più intelligente, nella vita.
Visto che stavo preso abbastanza a male, avevo bisogno di portare con me per la macchina qualcosa di confortante, qualcosa a cui prestare attenzione. NON, dunque, qualche scimmia urlatrice che mi avrebbe fatto arrivare già spompato, NON qualche cd che conosco a memoria e lasciandolo in sottofondo al mio cervello avrebbe fatto in modo che io potessi continuare a pensare a quanto è grama la mia vita e quanto mai una gioia il destino abbia in serbo per me. Vabè.
Ci voleva qualcosa di semisconosciuto, qualcosa che non avevo ancora penetrato a fondo, ma che contenesse qualcosa di solido a cui appigliarmi, per cui ricordandomi del fatto che For Free è uno dei miei pezzi preferiti in questi ultimi giorni, ho agguantato Phanerothyme – insieme a Some boots dei Karate, per cui pensate come je stavo – e l’ho infilato in borsa.
Per strada ho ricevuto l’illuminazione. I Motorpsycho sanno TUTTA la musica e – ecco la loro divinità – SANNO COSA FARSENE! Se pensate a tutti i tromboni musicofili che hanno usato la loro cultura come base per sciorinare la loro erudizione, questo è un miracolo bello e buono. Phanerothyme è il tributo dei Motorpsycho alla musica degli ultimi quarant’anni (quella buona, non ci sbagliamo), miscelata e ricomposta al servizio esclusivo del fatto – altra prova di divinità – che SANNO scrivere le canzoni. Come CSN&Y, come gli America, come i Beatles (e badate che non li tiro mai fuori a cazzo, altrimenti faccio gli incubi), come il miglior folk americano (e ve lo ricordo: sono norvegesi), come il miglior rock psichedelico, con i suoni giusti, le atmosfere giuste e la giusta posa.
Insomma, se fossero giapponesi, per capirci, sarebbe plausibilissima la stessa cosa, ma lo farebbero con quella foga da vene gonfie sulla fronte che li contraddistingue. Invece, cosa rende fantastici i Motorpsycho? Il fatto che sono intensi, e non zelanti; il fatto che SANNO essere delicati e leggeri, che è cosa che oggi pare si possano ricordare solo i posapiano vestiti col dolcevita color crema, quelli che in copertina sono ritratti mezzi sfocati in mezzo ai boschi (tipo Nicolai Dunger, anche se lui è un figo).
Per cui anche se ci sono ammiccamenti ai Pink Floyd (la chitarra solista di Painting the night unreal puzza da lontano, ma il suo fetore è alleviato dall’arrangiamento dei fiati, che sanno di Nutella o newyorkese stanchissimo); anche se – unico loro difetto? – a volte attaccano a suonare e non è detto che smettano prima che mediamente hai sospirato almeno cinque volte, anche se gli piace giocare a fare gli hippie (vogliamo parlare di Go to California? Di questa immensa dichiarazione d’amore al flower power o a Jerry Garcia? No, non ne parliamo che mi incazzo e riscopro reazionario, e a st’ora è una pezza) i Motorpsycho lo sanno fare perché c’hanno le idee, le idee non stanno nei dischi, ma nelle canzoni, che è più di quanto mediamente sono abituato ad ascoltare ultimamente.
E poi Blindfolded, uno dei pochissimi come-again che mi permetto: un pezzo che potrebbe essere stato scartato da Ray Davies perché era troppo poco snob, una specie di spremuta di giornata di presa a bene, anche se parla di cose un po’ tristi. Solo quello – e Bedroom eyes – valgono il disco. Ma questo se proprio vogliamo tendere al ribasso, eh...


PLAYLIST:
Motorpsycho: Bedroom eyes
Motorpsycho: For free
Motorpsycho: Blindfolded
The Beatles: You won’t see me
The Turtles: Happy together
Otis Redding: Try a little tenderness
The Books: Excess straussess
Angelo Badalamenti: Rita walks/Sunset boulevard/Aunt Ruth
George Harrison: I’d have you anytime
Frank Zappa: Blessed relief
Simon & Garfunkel: Mrs. Robinson
The Twilight Singers: Martin Eden
Calexico: Crumble
Ani DiFranco: Joyful girl
Tom Waits: Cemetery polka

le botte vere

Insomma questo è quello che dovete immaginare: siete una pischelletta carina, minuta e potente, sulla ventina d'anni, che finisce per diventare il sex symbol di un ambiente – quello hardcore – che è noto per essere non solo maschilista ma machista (più maschilista di quello metallaro che è maschilista solo perché le donne non ci VOGLIONO entrare perché i metallari hanno gli ormoni impazziti come le mucche nell'Essex, 1994 - a meno che non siano GIA' grasse e repellenti). Siete Candace Comecazzosichiama, siete la cantante dei Walls Of Jericho che è il gruppo metalcore – o moshcore, quello che vi pare – più figo del bigonzo in questo momento, soprattutto dopo che i Terror sono affogati nel loro stesso cattivo gusto e gli Hatebreed hanno sfornato il disco più noioso degli ultimi cinque anni. Siete sul palco e state facendo il vostro cazzo di show per cui siete vivi e siete pagati; la gente vi guarda come bistecche già ficcate nel termosifone, in mezzo allo stagediving che VOI STESSI avete armato, e quando sale sul palco non ha nemmeno bisogno di un pretesto per mettervi le mani addosso e in definitiva prendersi passaggi (come si dice dalle mie parti) e rompere i coglioni. In più, uno dei vostri chitarristi è un ciccione, e ha anche una ESP.

È chiaro che non potete fare altro che diventare una delle voci più violente dell'hardcore degli ultimi anni, e sfornare un disco che ha lo stesso effetto (e credetemi: è vero) di una ginocchiata in mezzo alle gambe.

Se avete immaginato di essere Candace comecazzosichiama, capirete anche che c'è un motivo per cui With Devils Amongst Us All sia uno dei dischi più autentici che si siano sentiti da un po' (nonostante in Europa sia stata Roadrunner a scodellarcelo fin dentro casa, cosa che farebbe rodere il culo anche a chi ha soltanto sentito PARLARE di etica). Questo perché sentir parlare di rifiuto e di emarginazione da una a cui cercano per tutto il concerto di toccare le sise (sono sicuro che Jamie Jasta non deve mai essersi trovato davanti a una situazione del genere) e che dev'essersi sentita per anni – ci scommetto il culo – causa principale e insieme usurpatrice della notorietà della band (che però ha dimostrato da almeno un paio di dischi che potrebbe spaccare il culo anche se avessero per cantante un golden retriever, perdio) suona genuino, convincente, e – cazzo – vero.

Certo, visto che comunque stiamo parlando di gente che ha sentito troppo metallo in vita sua – e sono sicuro che il chitarrista ciccione ne è in buona parte responsabile – è INEVITABILE rovinare tutto il discorso con la ballata che piace alle metallare (che nel frattempo hanno comunque trovato il modo di sdoganarsi e non solo: EMANCIPARSI addirittura, o tempora o mores) o ai metallari dal cuore tenero; ballata che non è affatto brutta di per sé, anche se fa incazzare Andrea perché lui è un hardcore di quelli hardcore, non certo l'ultimo degli stronzi, e perché comunque ricorda i peggiori Metallica almeno nell'umore (e badate che quando leggete Metallica vi si deve stringere il buchetto come se leggeste "fine del mondo", altrimenti siete automaticamente degli stronzi). Il problema della ballata, e al contempo tutta la sua metallarezza, sta nel fatto che porcaputtana COME CAZZO SI FA A PRODURRE DEI SUONI DI CHITARRA IN QUEL MODO CON IL CHORUS SUL CANALE DEL PULITO COME NON FANNO PIU' DAL 1985? SIAMO FORSE IN SALA OPERATORIA?

Però che fare, uno scivolone a disco glielo puoi pure perdonare, a un gruppo, e come si può evitare di farlo con i Walls Of Jericho (di cui ho pure una maglietta portatami in tempi NON SOSPETTI da Siddies che era andata a vederseli chissà dove cazzo in Europa) che comunque tutto sommato hanno messo insieme uno dei dischi più divertenti, sfascioni, violenti e dolorosi che si siano sentiti da tempo? Non si può, no: per cui tanto vale avvalersi delle possibilità del supporto digitale che permettono di saltare una traccia (la 9, gente: la 9) a pié pari e far finta che sia solo un ERRORE nella scheda di allmusic.com, e abbozzare, da bravi italiani abituati al malgoverno, e continuare a pensare – come del resto è PERFETTAMENTE plausibile – che With Devils Amongst Us All sia uno dei migliori dischi non solo della produzione di questo gruppo, ma della "scena" (le virgolette sono d'obbligo, ma non ho intenzione di dirvi il perché, in questo momento) hardcore del momento.

E visto che ci siete, mettete I've seen Hollywood and you ain't it nel manuale dei pezzi HC del decennio 2001/2010, anche se è ancora presto, ma nemmeno tanto.

PS: non vi preoccupate, però, per la povera Candace Comecazzosichiama: sa come difendersi e detèrrere (è italiano, sì) i toccatori di sise.

17 gennaio 2007

Abuse of the blues

Quando la parola “blues” veniva associata naturalmente a Muddy Waters o a Robert Johnson, il concetto di Blues come genere musicale (cioè forma) e come mood (cioè un ristretto tipo di emozioni) era pacificamente usato per discriminare alcune opere da altre. Col passare del tempo l’accezione della parola incriminata si è allargata a dismisura e diluita nella sua forza significante. Così assistiamo da tempo immemore da un lato, quello del gretto mainstream cicoriaro, alle affermazioni urticanti di Mollica che trova il blues in Giorgia, Zucchero e Irene Grandi (ma non è solo il Mollica a straparlarne); dall’altra, quella della stampa di settore, per intenditori, musicofili e casi umani di ogni risma, all’evocazione del blues in alcune ricorrenti fattispecie:
1. come un’ombra che pervade un’opera senza caratterizzarsi direttamente in tal senso
2. come eco (“echi di blues”)
3. come oggetto detenuto dalla totalità della popolazione, buono da brutalizzare, maltrattare e persino decostruire.
Bene. Tutto ciò spesso corrisponde a cazzata. Perché viene confusa la frequentazione del blues come genere da parte di un certo artista col suo fare blues nella sua musica. Perché si attribuisce ad una... goticità vagamente roots l’appartenenza al nonno/nonna della musica del ‘900.
perché si confonde il Blues con lo strazio. Il Blues non è lo strazio (e men che meno uno strazio).
Chi lo suonava era gente spesso senza troppi prospettive che prendeva ciò che la vita gli dava e di quello parlava. Non di ciò che non aveva.
L’unica assenza provata è quella di un amore cessato, non quella di una vita piacevole. Il Blues (musica dello schiavo per la visione dominante dell’afroamericano odierno) è un linguaggio realista, individualista, intriso di sessualità consumata o pubblicizzata (I’m your backdoor man), un po’ poetico un po’ coatto e soprattutto, per un lungo periodo storico, sociologicamente nero. Quando il bianco viene a contatto con il blues e lo fa suo è ovvio che la musica del diavolo si rimodella sulla cultura bianca. Quando il bianco viene a contatto col blues è storicamente provato che sperimenta, forse per la prima volta nella storia della musica, un’improvvisa urgenza di esprimere un sentimento a lui misconociuto. E qui il bianco sviluppa frustrazione. Mai suonare qualcosa è stato così frustrante per un bianco. Lui studia, pratica, impara, brutalizza, decostruisce, ma alla fine il risultato è altro. Bello, magari, ma altro.
È forse per questo che dicono che la musica di Carla Bozulich è blues?
Non lo so. L’ultimo album è un requiem. Una messa per i defunti e, non che faccia cacare ma proprio non ci riesco. C’è solo strazio. C’è il dolore per una semplice irreversibile verità: la dannazione.
E qui sta il punto.
Cypress groove blues (Skip James), spesso considerato un prototipo di brano gotico ante-litteram, ha il suono che avevano i dischi all’epoca: fruscia. È più il fruscio che la musica e fruscia pure Carla Bozulich ma a Skip, se è dannato o meno, non gliene cale affatto.
Siamo noi a dolerci del dolore. Un nero della prima metà del ‘900 faceva dolore di secondo nome. Dunque non è detto che l’espressione del dolore interiore, esistenziale renda la nostra musica blues.
Io lo so. Io vi conosco, recensori appassionati, intellettuali del pentagramma immaginario del pop. Io capisco perfettamente cosa intendete dire con: “C’è blues nella musica di Carla Bozulich”, ma cosa vuol dire?
Capisco pure Berlusconi quando dice che i cinesi bollivano i bambini. E i cinesi non bollivano i bambini. E non c’è blues nella musica di Carla Bozulich. È fuorviante per il consumatore assennato che cerca emozioni nuove all’interno di un certo linguaggio, compra il disco e sente un altro linguaggio. Lo è per il neofita che si trova un polpettone scuro, nebbioso e deprimente, che forse non voleva, per le mani. È deleterio per Carla Bozulich (sarebbe pure il caso che qualcuno le dicesse che non è Bessie Smith). È limitante per il blues che viene tirato fuori come sintesi semplificante del magma di emozioni di un artista.
E dunque per concludere:
1. Il disco di Carla Bozulich non è blues.
2. Se lo è, MTV Unplugged in New York dei Nirvana lo è sicuramente di più.
3. A me non ha fatto una grande impressione.
A volte dallo showbiz più stolido viene un raggio di luce. In “Talkin’ ‘bout the blues” della Jon Spencer Blues Explosion (l'album è ACME), Jon Spencer dice chiaramente “I don’t play the blues people, I play rock’n’roll, the blues is no. 1”.
The blues is no. 1, capito? Bisogna esserne degni. Curioso ricevere lezioni di umiltà da un simile fanfarone, anche se simpatico.