C’è questo tipo che conosco che ha una quarantina d’anni e a quanto ho capito non ha mai fatto altro che ascoltare musica, in vita sua. Fa una trasmissione alla radio, suona benissimo la batteria anche se non l’ho mai sentito suonare – ma mi fido – sa un sacco di cose e si informa. Insomma, lui è uno da stare ad ascoltare.
Una sera questo tipo che conosco parlava con un altro mio amico – uno che voi conoscete – e come spesso accade, si sono messi a parlare di musica, uno dei tre argomenti principe nelle conversazioni tra loro due come tra chiunque, diciamocelo, anche se non è di questo che voglio parlare.
Insomma lui è nato negli anni ’60. Ha avuto strascichi di Dylan, si è preso tutto Springsteen in faccia: era insomma in grado di intendere e di volere quando è uscito Nebraska, insomma: cose che ti segnano, o almeno ti investono. Lui ha delle carte grosse da calare, quando si parla della sua generazione, eppure c’è una cosa, che lui non ha avuto, e che noi – nostra generazione, intendiamo, gente nata anche già alla fine dei 70 – possiamo considerare propria, se lo vogliamo. Questa cosa è Ani DiFranco.
Loro non ce l’hanno, Ani DiFranco: loro possono avere Joni Mitchell, possono avere Carole King, possono avere Joan Baez, carrettate di altre cantautrici validissime e di spessore indiscutibile, ma una come Ani DiFranco no, non ce l’hanno.
Non ce l’hanno, insomma, una che cresce con il punk ma non si è mai vista con una chitarra elettrica in mano. Una che sorride quando canta, cazzo. Una che non ha mai – MAI – avuto bisogno di una casa discografica per diventare ciò che è (e diciamo ciò che è: un punto di riferimento) e non è mai diventata stantia sebbene stia in giro da quasi vent’anni. E anche se ce l’hanno è nostra, e non ce la possono portare via.
Me lo sono chiesto un sacco di volte, da dove cazzo è spuntata fuori, Ani DiFranco. Una gentile, che scrive canzoni intense, spesso parecchio tristi (ma non è emo, brutti stronzi), conosce profondamente le cose di cui parla, cioè la vita, e in definitiva è una delle poche sopravvissute a fare una musica che sa di vero, e che – va da sé – non è nata negli anni ’40.
Quando è uscito Reprieve io mi stavo ancora riprendendo dalla botta di Knuckle Down, che contiene una delle mie canzoni preferite – non solo sue, ma credo al mondo –, che è Studying Stones. Una chitarra – che da sempre è la sua voce almeno quanto la sua voce –, archi (uno strappo alla regola rispetto alla spartana scelta del contrabbasso da solo, che è poi il suo contraltare da almeno tre dischi, ma la tiro giù così: non ho pretese di fedeltà perché sto pensando ad altro, in questo momento) e la sua voce che racconta una storia di delusione, di quiete e desiderio di rinascita con una tessitura melodica da strapparvi il cuore dal petto.
Reprieve non mi ha preso subito: l’ho ascoltato in treno, quando di solito mi dedico a cose rumorose che possano fare da parete e isolarmi dalle cose stupide che dicono le persone quando vogliono fare conversazione anche se non sono in grado. Ero distratto, disattento, pensavo a un amore finito senza nemmeno essere sicuro fosse stato un amore. Pensavo se non era amore che diavolo era, e pensavo al perché non si riuscisse a venirne a capo. Lasciamo perdere. Insomma, diciamo che non ero esattamente ricettivo, in quel momento, che era fine di Dicembre, ed ecco spiegato perché ero in treno.
Oggi per lavare i piatti ho messo Reprieve nel radiolone sul frigo, e sgrassando sgrassando ho capito che Reprieve è un gran disco.
A questo punto, spezziamo una lancia per il lavare i piatti: è un’attività manuale e silenziosa, come cucinare o guidare da solo, che si presta magnificamente a un ascolto nuovo, o a un riascolto critico. Anche Brian Eno diceva che cucinare è un ottimo modo per sentire la radio e tenersi aggiornati. Lo diceva in un libro che poi erano i suoi diari. Un libro che ho prestato a un idiota borioso e che non mi è mai tornato indietro. Conteneva appunti interessanti, maledizione. Vabè.
Aveva ragione Joo, dunque – uno dei contagiati dalla mia monomania per Ani che mi ha influenzato per mesi, fino a portarla al secondo posto nella mia classifica generale su last.fm, dritto alle spalle dei Beatles. “Dagli tempo”, mi aveva detto Joo, e darglielo in senso stretto non è stato nemmeno ciò che ho avuto bisogno di fare, dato che se l’è preso da solo.
Ci sono dischi che all’inizio credi sepolti, che all’inizio credi siano destinati a prendere polvere e a un certo punto invece semplicemente spuntano fuori e reclamano attenzione: dischi di quel genere poi raramente si fanno da parte una seconda volta. Piuttosto, rimangono dentro, si attaccano da qualche parte e poi si saldano. Che ne so: War, Moondance, O’God The Aftermath, Dilate, e Reprieve, appunto.
E però è un po’ così un po’ per tutto ciò che riguarda Ani DiFranco. Lei a un certo punto esplode – dentro, e con calma – e ti accompagna. Probabilmente lei è la cantautrice di cui abbiamo bisogno in questo momento. Una che si fa domande che non sempre hanno risposta, una che scruta gentilmente nello specchio e descrive: non vuole spaccarlo (non siamo più negli anni 70) e non desidera farsi più bella per mascherare la propria debolezza (va da sé, non siamo nemmeno negli anni '80).
In questo senso, Ani è un animale della stessa specie di Cobain. È una che ha saputo ascoltarsi anche nei cedimenti più dolorosi, che ha capito quali sono state le delusioni e le rinunce e le ha chiamate col proprio nome. Fortunatamente, lei è ancora viva, almeno: non meno arrabbiata (non ci si arrabbia solo strillando), non meno profonda, e di certo ancora con tante domande in tasca.
E impegnata politicamente, pure, ma mai con il sussiego veterocomunista e palloso, cosa che la affranca da qualsiasi paragone da gente tipo la Baez – una tra le musiciste più noiose al mondo, diciamolo. Insomma, non le manca niente, a ’sta regazzetta.
Quindi, Reprieve è di nuovo un disco semplice fino all’osso – come Knuckle Down e Educated Guess prima –, fatto di vocalità sbilenche e tante piccole pennellate, marrone e ruvido come la copertina. C’è dentro il blues (quello vero, regà, quello vecchio e nero, non il McBlues di Eric Clapton), c’è dentro PJ Harvey (ma senza invidia del pene). C’è dentro quell’elettronica analogica che sta tornando linguaggio comune negli ultimi anni – e speriamo tutti si comporti bene –, filtrata per bene da una grande intelligenza nel dosaggio, e poi c’è il consueto contrabbasso.
Anzi, è proprio lui – credo che sia sempre e ancora quel capoccione di Todd Sickafoose – che apre il disco con l’intento preciso (preciso almeno secondo me, ma del resto sono io che sto scrivendo) di portare alla mente Kind Of Blue, un altro disco gentile, intenso, minimale, senza un secondo sprecato e piuttosto caruccio, devo dire (joke). Se è così, ha un senso: un tributo necessario al jazz con cui ha sempre flirtato, lei musicista anche colta – e preparata: si vede dall’impostazione classica della mano destra quando suona la chitarra.
Certo, fa un po’ strano il nuovo taglio di produzione che ha scelto Ani. I suoni sono densi, la voce è staccata dalla musica e dà la sensazione che vi stia cantando nella testa (lei e il suo pancione, che ha lasciato il mondo di stucco – o almeno il mondo che sa della sua esistenza e che quindi spero si salvi dall’imminente catastrofe planetaria), cosa nuova per lei che ci aveva abituato a una voce immersa nel suo ambiente, che arrivava nelle orecchie insieme alla stanza in cui cantava. Fa un po’ strano sentire Ani astratta, insomma, sopra la musica invece che dentro, anche se questa cosa non rispecchia un cambiamento o uno slittamento di contenuti, che rimangono sempre taglienti come quando ti dicono come stanno le cose, una volta per tutte.
E allora bisogna esserle grati, ad Ani. Perché lei è una che sa raccontare cose che possono afferrare tutti senza scendere al minimo comune denominatore, perché co’ ’sti chiari di luna, parlare di emozioni umane in termini non epici, non falsi e non piagnucolosi è un servizio sociale, perché lei va in culo allo show business e a MTV e alle radio, perché lei fa in definitiva della musica strepitosa che va bene a qualsiasi ora della giornata (miracoloso), e aoh, perché sì, e basta: anzi, quando la incontrate, datele un fiore da parte mia e ditele una cosa tipo Grazie.
Una sera questo tipo che conosco parlava con un altro mio amico – uno che voi conoscete – e come spesso accade, si sono messi a parlare di musica, uno dei tre argomenti principe nelle conversazioni tra loro due come tra chiunque, diciamocelo, anche se non è di questo che voglio parlare.
Insomma lui è nato negli anni ’60. Ha avuto strascichi di Dylan, si è preso tutto Springsteen in faccia: era insomma in grado di intendere e di volere quando è uscito Nebraska, insomma: cose che ti segnano, o almeno ti investono. Lui ha delle carte grosse da calare, quando si parla della sua generazione, eppure c’è una cosa, che lui non ha avuto, e che noi – nostra generazione, intendiamo, gente nata anche già alla fine dei 70 – possiamo considerare propria, se lo vogliamo. Questa cosa è Ani DiFranco.
Loro non ce l’hanno, Ani DiFranco: loro possono avere Joni Mitchell, possono avere Carole King, possono avere Joan Baez, carrettate di altre cantautrici validissime e di spessore indiscutibile, ma una come Ani DiFranco no, non ce l’hanno.
Non ce l’hanno, insomma, una che cresce con il punk ma non si è mai vista con una chitarra elettrica in mano. Una che sorride quando canta, cazzo. Una che non ha mai – MAI – avuto bisogno di una casa discografica per diventare ciò che è (e diciamo ciò che è: un punto di riferimento) e non è mai diventata stantia sebbene stia in giro da quasi vent’anni. E anche se ce l’hanno è nostra, e non ce la possono portare via.
Me lo sono chiesto un sacco di volte, da dove cazzo è spuntata fuori, Ani DiFranco. Una gentile, che scrive canzoni intense, spesso parecchio tristi (ma non è emo, brutti stronzi), conosce profondamente le cose di cui parla, cioè la vita, e in definitiva è una delle poche sopravvissute a fare una musica che sa di vero, e che – va da sé – non è nata negli anni ’40.
Quando è uscito Reprieve io mi stavo ancora riprendendo dalla botta di Knuckle Down, che contiene una delle mie canzoni preferite – non solo sue, ma credo al mondo –, che è Studying Stones. Una chitarra – che da sempre è la sua voce almeno quanto la sua voce –, archi (uno strappo alla regola rispetto alla spartana scelta del contrabbasso da solo, che è poi il suo contraltare da almeno tre dischi, ma la tiro giù così: non ho pretese di fedeltà perché sto pensando ad altro, in questo momento) e la sua voce che racconta una storia di delusione, di quiete e desiderio di rinascita con una tessitura melodica da strapparvi il cuore dal petto.
Reprieve non mi ha preso subito: l’ho ascoltato in treno, quando di solito mi dedico a cose rumorose che possano fare da parete e isolarmi dalle cose stupide che dicono le persone quando vogliono fare conversazione anche se non sono in grado. Ero distratto, disattento, pensavo a un amore finito senza nemmeno essere sicuro fosse stato un amore. Pensavo se non era amore che diavolo era, e pensavo al perché non si riuscisse a venirne a capo. Lasciamo perdere. Insomma, diciamo che non ero esattamente ricettivo, in quel momento, che era fine di Dicembre, ed ecco spiegato perché ero in treno.
Oggi per lavare i piatti ho messo Reprieve nel radiolone sul frigo, e sgrassando sgrassando ho capito che Reprieve è un gran disco.
A questo punto, spezziamo una lancia per il lavare i piatti: è un’attività manuale e silenziosa, come cucinare o guidare da solo, che si presta magnificamente a un ascolto nuovo, o a un riascolto critico. Anche Brian Eno diceva che cucinare è un ottimo modo per sentire la radio e tenersi aggiornati. Lo diceva in un libro che poi erano i suoi diari. Un libro che ho prestato a un idiota borioso e che non mi è mai tornato indietro. Conteneva appunti interessanti, maledizione. Vabè.
Aveva ragione Joo, dunque – uno dei contagiati dalla mia monomania per Ani che mi ha influenzato per mesi, fino a portarla al secondo posto nella mia classifica generale su last.fm, dritto alle spalle dei Beatles. “Dagli tempo”, mi aveva detto Joo, e darglielo in senso stretto non è stato nemmeno ciò che ho avuto bisogno di fare, dato che se l’è preso da solo.
Ci sono dischi che all’inizio credi sepolti, che all’inizio credi siano destinati a prendere polvere e a un certo punto invece semplicemente spuntano fuori e reclamano attenzione: dischi di quel genere poi raramente si fanno da parte una seconda volta. Piuttosto, rimangono dentro, si attaccano da qualche parte e poi si saldano. Che ne so: War, Moondance, O’God The Aftermath, Dilate, e Reprieve, appunto.
E però è un po’ così un po’ per tutto ciò che riguarda Ani DiFranco. Lei a un certo punto esplode – dentro, e con calma – e ti accompagna. Probabilmente lei è la cantautrice di cui abbiamo bisogno in questo momento. Una che si fa domande che non sempre hanno risposta, una che scruta gentilmente nello specchio e descrive: non vuole spaccarlo (non siamo più negli anni 70) e non desidera farsi più bella per mascherare la propria debolezza (va da sé, non siamo nemmeno negli anni '80).
In questo senso, Ani è un animale della stessa specie di Cobain. È una che ha saputo ascoltarsi anche nei cedimenti più dolorosi, che ha capito quali sono state le delusioni e le rinunce e le ha chiamate col proprio nome. Fortunatamente, lei è ancora viva, almeno: non meno arrabbiata (non ci si arrabbia solo strillando), non meno profonda, e di certo ancora con tante domande in tasca.
E impegnata politicamente, pure, ma mai con il sussiego veterocomunista e palloso, cosa che la affranca da qualsiasi paragone da gente tipo la Baez – una tra le musiciste più noiose al mondo, diciamolo. Insomma, non le manca niente, a ’sta regazzetta.
Quindi, Reprieve è di nuovo un disco semplice fino all’osso – come Knuckle Down e Educated Guess prima –, fatto di vocalità sbilenche e tante piccole pennellate, marrone e ruvido come la copertina. C’è dentro il blues (quello vero, regà, quello vecchio e nero, non il McBlues di Eric Clapton), c’è dentro PJ Harvey (ma senza invidia del pene). C’è dentro quell’elettronica analogica che sta tornando linguaggio comune negli ultimi anni – e speriamo tutti si comporti bene –, filtrata per bene da una grande intelligenza nel dosaggio, e poi c’è il consueto contrabbasso.
Anzi, è proprio lui – credo che sia sempre e ancora quel capoccione di Todd Sickafoose – che apre il disco con l’intento preciso (preciso almeno secondo me, ma del resto sono io che sto scrivendo) di portare alla mente Kind Of Blue, un altro disco gentile, intenso, minimale, senza un secondo sprecato e piuttosto caruccio, devo dire (joke). Se è così, ha un senso: un tributo necessario al jazz con cui ha sempre flirtato, lei musicista anche colta – e preparata: si vede dall’impostazione classica della mano destra quando suona la chitarra.
Certo, fa un po’ strano il nuovo taglio di produzione che ha scelto Ani. I suoni sono densi, la voce è staccata dalla musica e dà la sensazione che vi stia cantando nella testa (lei e il suo pancione, che ha lasciato il mondo di stucco – o almeno il mondo che sa della sua esistenza e che quindi spero si salvi dall’imminente catastrofe planetaria), cosa nuova per lei che ci aveva abituato a una voce immersa nel suo ambiente, che arrivava nelle orecchie insieme alla stanza in cui cantava. Fa un po’ strano sentire Ani astratta, insomma, sopra la musica invece che dentro, anche se questa cosa non rispecchia un cambiamento o uno slittamento di contenuti, che rimangono sempre taglienti come quando ti dicono come stanno le cose, una volta per tutte.
E allora bisogna esserle grati, ad Ani. Perché lei è una che sa raccontare cose che possono afferrare tutti senza scendere al minimo comune denominatore, perché co’ ’sti chiari di luna, parlare di emozioni umane in termini non epici, non falsi e non piagnucolosi è un servizio sociale, perché lei va in culo allo show business e a MTV e alle radio, perché lei fa in definitiva della musica strepitosa che va bene a qualsiasi ora della giornata (miracoloso), e aoh, perché sì, e basta: anzi, quando la incontrate, datele un fiore da parte mia e ditele una cosa tipo Grazie.
1 commento:
i dischi che ti crescono dentro sono i più belli di tutti. e "Reprieve" è un disco eccezionale. anche se mi ha conquistato dal primo ascolto. forse perché in quel momento (settembre 2006 a nyc) ero particolarmente ricettivo.
grazie (cane) per avermi presentato Ani DiFranco e grazie Ani di aver scritto un disco come "Reprieve". E anche come "Knuckle Down" (dio... ho i brividi soltanto a scriverne il titolo... pensa ad ascoltarlo), "Dilate" o "Educated Guess".
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