10 febbraio 2007

mai sbagliare il soffritto

Quindi non sono il solo a pensare che ci sia qualcosa che non va, nel disco di The Good, The Bad And The Queen. Leggevo, su un numero dell’Internazionale di qualche settimana fa, la stroncatura ad opera di un giornalista di Billboard (badate, testata inglese, probabilmente sta cambiando un po’ l’aria, oltremanica) dell’esordio (o episodio unico?) di questo supergruppo inglese.
Ricapitoliamo al volo: è una cosa superfiga che ha voluto mettere in piedi Mr. Mani d’Oro Damon Albarn convocando Paul Simonon (lui lui, il bassista dei Clash, quello che a ventott’anni di distanza fa ancora venire le erezioni a guardarlo sulla copertina di London Calling), il chitarrista dei Verve (Simon Tong, se interessa a qualcuno) e Tony Allen, che è il batterista di Fela Kuti.
In più, Mr. Mani d’Oro ha voluto coronare questo immenso sogno postmoderno chiamando nientemeno che DJ Mani d’Oro per la produzione del disco, sarebbe a dire Danger Mouse, l’uomo da cui tutti vogliono farsi produrre, da un po’ di tempo a questa parte.

Ora, se fossi il cuoco sarei in grado di argomentare per bene i mille e mille motivi per cui anche avendo gli ingredienti perfette nelle dosi esatte, ciò che stai cucinando può venir fuori che non sa di un cazzo. Può essere un discorso di cottura, può essere un problema di tempi nei dosaggi, può essere – attenzione che NON è una cazzata – un discorso di passione (o di amore, proprio, come direbbe lui).
Allora, abbiamo capito negli anni che Albarn non è mai stato esattamente un passionale, abbiamo anche capito che l’anima pop dei Blur era Coxon (e l’abbiamo capito bene nei suoi dischi solisti a cui COMUNQUE manca qualcosa), abbiamo capito pure che Albarn è uno “peso”, e pure come si deve, soprattutto dopo essersene uscito con Mali Music, che insomma: non era esattamente un greatest hits di Madonna.
In particolare, non mi ha del tutto convinto del non voler essere una specie di media aritmetica tra Thom Yorke e Jonny Greenwood (da soli, non con i Radiohead) che insomma, diciamocela tutta: sono il punto di riferimento del rock inglese almeno da una decina d’anni a questa parte.
E allora anche se Thom Yorke se n’è uscito con The Eraser, che è un disco che a sentirne parlare semba una palla e – magia – NON LO E’ (pensate, un disco glitch pop nudo, prodotto in maniera minimalista e con Yorke che ci mette dentro TUTTE le nevrosi che ha nei diari da quando ha almeno sedici anni, eppure un disco che non spacca le palle come 13, nonostante invece lì dentro ci fosse del vero pop, regolarmente dichiarato e denunciato alla questura), e anche se Greenwood ha scritto la colonna sonora intellettuale per questo film inglese intellettuale (o era un documentario? Ma del resto, a chi importa? Nessuno ha mai avuto intenzione di vederlo davvero...), sono riusciti a fare dei lavori freschi, saporiti, con dentro un po’ di vita.
Quello che invece fa Albarn da un po’, è MORTO. E insomma: io capisco che tu sei un inglese post-Thatcheriano, con le crisi della sinistra laburista e una società in cerca di sé come substrato culturale alla tua musica; capisco che hai sempre cantato il grigiore dei suburbs britannici e insomma, sei stato la colonna sonora degli anni ‘90 che certo una passeggiata non sono stati, ma allo stesso modo non c’è nessun tipo di germoglio, da tutto questo concime.
Allora, capisco i Gorillaz, che sono l’esperimento di necrofagia tra i più riusciti degli ultimi anni. Un pop totale, con dentro perfino l’elettronica e l’hip hop. Ne capisco la perversione ai limiti del cannibalismo e alla masticazione e digestione della carcassa del rock and roll morto da anni (anche se non sono morti i parassiti che vi hanno attecchito, ma questo è un altro discorso), ma visto da qui è innegabile che il risultato non è stato all’altezza delle premese. I Gorillaz volevano essere un gruppo fantasma, un gruppo che non c’è, e invece MTV è impazzita per loro (e insieme a MTV anche il suo popolo, altra schiatta di cannibali mica da ridere), e il loro secondo disco era ancora più ruffiano e sfacciato (anche qui grazie alla complicità di Danger Mouse), e quindi ancora più stridente è stato il contrasto tra la provocazione lanciata e il modo in cui è stata COMPLETAMENTE IGNORATA dal pubblico.
Pazienza, direte, ma sembra che Albarn si stia un po’ cacciando in un ruolo da incompleto (più che incompreso) che questo The Good, The Bad And The Queen ha un po’ confermato.

E allora parliamone: il disco non decolla mai – esattamente come dice questo giornalista di Billboard, usando a paragone un deludente blockbuster hollywoodiano – e quando finisce ci si ricorda poco o nulla, se non una produzione densissima, una continua strizzatina d’occhio al dub (ma con una sezione come quella c’è poco da meravigliarsi) e che in definitiva il disco sembra un quaderno di bozze ancora poco sistemate per poter avere una struttura o una logica. Forse era proprio questa, però, la scommessa di Albarn e di questo gruppo (che potrebbe pure essere una situazione one-shot, per come si mettono questo tipo di cose, di solito): non dimentichiamoci infatti che le ricerce etnomusicologiche di Mr. Girls and Boys si sono orientate verso l’Africa, un continente in cui la musica ha uno sviluppo orizzontale, e non ingabbiato nel 4/4 come siamo normalmente abituati a pensare nella tradizione eurocentrica (mi seguite?). In altre parole, è possibile che la scrittura sia orientata in questo modo proprio per la ricerca fatta, il che è cosa plausibile anche se non particolarmente popolare – diciamo così.
In pratica pure questo disco suona morto. Morto perché appunto non contiene un’idea pop che sia una (e per favore non toglietemi il pop, che anche noi oltranzisti abbiamo bisogno di qualcosa da cantare sotto la doccia), morto perché non si è mai perfettamente sicuri che possa crescere e diventare qualcosa. Morto, anche, perché a un certo punto vale la pena di chiederci quanto in realtà questo disco possa essere il risultato di un esperimento musicale condotto a prescindere, giusto per mettere in funzione un sistema di persone che fanno la musica, e poi la musica viene messa sul disco, come a testimonianza, come una pubblicazione dell’ISTAT. Morto, appunto, una cosa che semplicemente è ciò che è, e non può diventare nient’altro.
Insomma è perfettamente possibile che – ripagando tributo all’immensa saggezza del cuoco – The Good, The Bad And The Queen sia un disco uscito sciapo nonostante gli ingredienti perfetti nelle dosi esatte. Cosa che dopotutto è verosimile perché non è che mo’ te chiami Damon Albarn o Danger Mouse e non puoi fare un disco di merda, eh?



PLAYLIST
Radiohead: Hail to the thief

1 commento:

Anonimo ha detto...

..."le ricerce etnomusicologiche di Mr. Girls and Boys si sono orientate verso l’Africa, un continente in cui la musica ha uno sviluppo orizzontale, e non ingabbiato nel 4/4 come siamo normalmente abituati a pensare nella tradizione eurocentrica (mi seguite?)."

no. quindi come minimo ora SPIEGHI. la la cosa della musica verticale orizzontale e africana. sappi che ci sono anche dei profani che leggono questo blog, e che meritano rispetto. oh.