25 febbraio 2007

le mie mejo cose

Di conseguenza andavo dicendo in giro che il jazz è una musica per segaioli, e il sassofono, il sassofono in particolare era il mio strumento spreferito. Sempre a gemere negli assoli rock, roco e muggente come un secondo prima dell’orgasmo, pornografico più che erotico – ingabbiato in quattro stilemi che sono stati ripetuti per circa 20 lunghissimi anni – sempre a rendere mimesi i riferimenti sessuali che nel rock ci sono sempre stati e sarebbe bene che sempre rimanessero perché se spariscono i riferimenti sessuali dal rock vuol dire che anche quella minima nicchia di divertimento caciarone e genuino che ci è rimasta è stata fatta preda dei preti, delle mamme antirock o delle armate emo.
Il sassofono, no no, proprio no. Uno strumento che può fare solo assoli, che diavolo me ne potrei mai fare nella vita?, ho sempre pensato. Come la voce, ma non parla, come un flauto – di cui non ho bisogno – come la tromba, e perfino più lascivo. Il sassofono non serve a nulla.
No no, il sassofono no, che mi fa Kenny G., che mi fa anni ‘80 che dai 50’s avevano preso solo il peggio (andiamo, il sassofono insieme alla BATTERIA ELETTRONICA? Ma scherziamo? Cos’è, un esperimento di resistenza per verificare quanta bruttezza il pubblico può sostenere?).
E poi il sax era uno dei simboli del jazz, appunto, LA musica masturbatoria (e ha pienamente ragione il cuoco quando dice che la chitarra col jazz non c’entra proprio niente, e poi insomma questo ragionamento mi calza a pennello ma non corriamo). Prendi una persona che sa suonare BENISSIMO (altrimenti non puoi suonare il jazz, a meno che non hai il culo di essere Motorhead Sherwood, ma anche questo è un caso limite) e falle fare ciò che vuole. Niente di più stucchevole, pensavo, niente di più perfettamente e sontuosamente inutile: inutile fino nei minimi dettagli, nella più leggera e sapiente sfumatura armonica.
Nella bildung di un Sedicente Musicista Consapevole, uno che impara l’arte e la mette da parte, il jazz passa dalla categoria Musica per cui nutrire un profondo rispetto alla categoria Perfettamente trascurabile, una volta scoperta la roccarolla, capiti i Beatles e i Sonics e comprati dei plettri più grandi e più duri.

Poi cresci, ti calmi, e scopri che anche quella è una deformazione storica. Anche perché negli anni 90 il jazz non era il jazz. Negli anni 90 il jazz ERA la masturbazione perché andiamo, la gente che sapeva suonare – che bene o male ha lo stesso orientamento degli appassionati di automobilismo: la performance, le cromature e la precisione della meccanica, come i ragazzotti provinciali che sanno tutto sui carburatori – impazziva per dei personaggi sinistri, che del jazz hanno fatto polpette, rispettando la costante (a percentuale statistica pressoché piena) per cui più è evidente la tua perizia sullo strumento, meno interessante è la musica che fai.
Negli anni 90, il jazz, no: la FUSION, quella roba tremenda che voleva mettere il jazz nella musica caraibica o sudamericana, nel rock, un po’ ovunque, le case discografiche tipo la GRP o malfattori tipo Mark Varney si ingrassavano con gente come Chick Corea, Frank Gambale, Dave Weckl (dio mio, Dave Weckl, la Sylvia Saint della batteria) e così via, un tripudio di ghost notes e camicie hawaiiane (già: perché i jazzisti a un certo punto non hanno più avuto buon gusto nel vestire? Come posso fidarmi musicalmente di un uomo in T-shirt gialla e pantaloni rosa, se quest’uomo non è Mick Jagger?), sambe in semibiscrome e suoni sterili, sempre attenamente SOTTO il livello di clip. Chiaro che un ragazzetto cresce in un ambiente del genere e sviluppa un rigetto, chiaro che ascolta Gardenia e va fuori di testa, chiaro che poi si mette a fare l’ardecore (che NON è quello che leggete sulle riviste, ma di questo promesso parliamo per bene prima o poi).

Insomma una mattina ero in macchina con Foschiani (vatti a ricordare dove stavamo andando, ricordo solo che stavamo nella zona nord del raccordo) e Foschiani caccia su una roba che io non capisco cos’è perché è blues ma pieno di colore e di fumo e viaggia modale e liscio come una pomiciata e gli chiedo A Foschia’, ma che è sta roba? E lui, indignato mi fa Ma come cos’è, è MILES DAVIS. Cazzo, penso io, mi sa che l’ho ferito nell’orgoglio, visto che da un po’ è entrato in fissa con la tromba e si è pure comprato l’autobiografia. Mentre lo guardo vuoto che guida la Saxò azzurra con i sedili rotti penso Miles Davis, Miles Davis, mi sa che qualcosa girava per casa quando ero pischelletto, e mi ricordo che tutti dicevano Miles Davis era un grande, un grandissimo, uno dei personaggi che, senza, il Novecento sarebbe stato proprio diverso, ma mica poco. Miles Davis, Miles Davis, oddìo ecco: mia madre aveva una cassetta di Miles Davis passatale da qualche cugina con dentro una versione pessima di Human Nature di Michael Jackson. Per carità, una tromba efficacissima, silenziosa e dritta, ma maledizione: un accompagnamento sterile come un trapano da dentista (ed erano indovinate chi? proprio loro, i jazzisti fusion che implorano per la vasectomia). Mi ricordai che quand’ero pischelletto pensavo Mah, ma a me ‘sto Miles Davis un grande proprio non mi sembra. E questo un po’ perché avevo pochi anni, un po’ perché ero traviato da quell’ascolto, un po’ perché quando ero pischelletto Foschiani non mi aveva ancora fatto ascoltare All Blues sul raccordo (e io non avevo ancora rilanciato facendogli ascoltare Mildred Pierce, provocandogli uno smarrito silenzio).

Voi direte Cosa c’entra questo con il sassofono? Io dirò Buoni che ci arriviamo: oggi è domenica ed è plausibile che io ci metta fino a stasera per tirarla fuori tutta. Qualsiasi cosa, per dimenticarmi che è domenica.

Vagavo senza scopo per casa, qualche settimana fa, e mi accorsi che l’unica cosa che mi avrebbe fatto bene sarebbe stato Kind Of Blue. Il perché non ve lo dirò che questo è un blog musicale, e non una sceneggiatura di Woody Allen.
Insomma: rimesto sugli scaffali per trovarlo (già, non ho ancora ripristinato il mio sacerrimo ordine per casa discografica/anno/artista) e lo metto su, mentre rimetto in ordine la stanza (quelle cose da pulizia mentale che i ragazzetti aspiranti scrittori come me fanno per poter poi raccontare cose come questa).
Sapete bene (e se non lo sapete andate a camminare bendati in tangenziale) che Kind Of Blue parte con So What, una meditazione su cui è stato scritto talmente tanto e talmente bene che non farei mai la figura di merda di parlarne. Del resto io non capisco nulla di jazz, non so perché queste persone erano in grado di PENSARE quella musica, di immergersi in un ambiente armonico di quel tipo e uscirne vivi.
Era una questione di formazione? Di cibo, di ambiente sociale, di sostanze disciolte nell’aria pre-Kyoto che rendeva le persone Davis o Bogart o Audrey Hepburn o Francis Scott Fitzgerald? Non lo so, non lo posso sapere: siamo quasi un secolo dopo, se semo magnati tutto e siamo talmente smaliziati che non riconosceremmo una rivoluzione nemmeno se ci mordesse sul culo (grazie, FZ).
Dunque: non parlerò di So What, ma del fatto che a un certo punto entra in ballo uno grosso, uno che (non mi odiate) è più grosso di Davis – almeno per il mio personalissimo gusto – entra in ballo il peso massimo di John Coltrane.
Quando ha registrato So What John Coltrane aveva 33 anni: era un uomo d’esperienza (ché 33 anni alla fine dei ‘50s non erano i 33 anni di adesso, col precariato e MTV a tenerci ragazzini per sempre), era uno che aveva sentito e pensato ed eseguito già musica, uno che contemporaneamente aveva in testa Giant Steps, proprio mentre prendeva ordini da Davis, uno che si era già buttato in corpo di tutto, e aveva già i mesi contati – ma questo non avrebbe potuto saperlo.
Finora è successo l’inverosimile. Il tema che è la scarnificazione del linguaggio jazz, il primo intervento di Davis, svogliato come al solito, come uno che deve parlare di ermeneutica del soggetto dopo una sbronza, e poi Coltrane.
Coltrane che stacca in maniera evidentissima perché è nervoso, ansioso, che più che cercare pazientemente (come Davis) fruga, febbrilmente, tra le note e i fraseggi e i microtemi che sviluppa, allarga e dilata per poi appresso. Coltrane che suona come se stesse parlando a se stesso di qualcosa che non ha ancora ben capito. Si mette lì più o meno tranquillo e si fa brainstorming da solo finché non arriva a una soluzione – una soluzione che io posso anche non capire, ci mancherebbe altro, ma del resto non sono stato io a scrivere Syeeda’s Song Flute, quindi se i parametri sono questi io alzo le mani e prendo atto, e così dovreste fare anche voi.
Con la testa sempre una battuta avanti, con un senso della sintassi spaventoso, e con un sacco di gentilezza, perché comunque ancora devono venire i tempi in cui Coltrane s’incazza e decide di prendere a rasoiate ciò che ha fatto e contribuito a fare fino a quel momento.

E allora è da Coltrane che bisogna ripartire, dagli anni 40, da quando c’era Bogart e la vita era più semplice (buoni, buoni, non sto dicendo sul serio). Chissà, probabilmente i jazzisti fusionisti onanisti Coltrane lo conoscevano e se l’erano lasciati alle spalle, anche se io ho i miei dubbi perché se c’è una cosa che Coltrane ti insegna è che te per andare da qui a lì puoi anche fare un milione di giri, e arrivarci ballando il tip tap invece di camminarci spedito. Ma cazzo, prima o poi ci devi arrivare.
E allora è Coltrane che salva il jazz e il sassofono, e che mi dà speranza quando sono costretto ad ascoltare gli assoli di sassofono di Clarence Clemons (non accetto commenti alle mie idiosincrasie), è Coltrane il parametro in base al quale a molti studenti – e insegnanti – dell’UM andrebbe revocata la licenza elementare, è Coltrane il meccanismo che fa cambiare idea a despoti del gusto come me, ed è di Coltrane uno dei dischi (per la cronaca: My favorite things) senza il quale da qualche mese NON SI ESCE PIU’ DI CASA.
Perché va bene l’ardecore a palla (di nuovo, come un mantra: che NON è quello che leggete sulle riviste, ma di questo promesso parliamo per bene prima o poi) che fa da firewall ed impedisce alla bruttezza umana di entrarmi in testa passando dalle orecchie, ma un po’ di bellezza nella vita, dopotutto, ci vuole.



playlist >
james brown: tighten up (live)
ben folds: give judy my notice
the rolling stones: all down the line
ani difranco: gratitude (live)
the sonics: good golly miss molly
paul weller: roll along summer
tom waits: altar boy
paul weller: the start of forever
explosions in the sky: day six
sarah blasko: all coming back
physique du role: concreto
motorpsycho: walking on the water (you lied)
mark lanegan: field song
josé gonzàlez: slow moves
seidenmatt: inseln

1 commento:

Anonimo ha detto...

Ecco, siccome puoi parlare di fusion solo con ascoltatori di fusion, e gli ascoltatori di fusion sono 99/100 jazzisti fusionisti onanisti che fanno (o così vorrebbero) fusion, non puoi dirgli in faccia che sono quello che sono (= musicisti onanisti). Sarebbe come dire in faccia al tuo ragazzo che ce l'ha piccolo, non so se rendo l'idea. Per te non è un problema, ma la verità è la verità. E allora evviva questo post perché posso dire (alleluja) che la fusion è noiosa (= poco stimolante) e inutile (= ridondante)!!

Il jazz, come hai detto tu, è un'altra cosa.