17 ottobre 2007

bruce, tu quoque.

È piuttosto difficile riportare tutto a casa” (come Dylan) quando quel che ti precede è una trattazione rigorosa, un manifesto programmatico, una chiamata alla lotta armata (sia pur armata diversamente). Tuttavia è prerogativa di un cuoco decente far seguire ad un momento di alta intensità verbale, un rilassante e rincuorante pasto, sì che le voci si plachino e subentri un più “morbido” intrattenimento: il pasto, appunto. Alla fin fine, dei due, il più pop non è (cane), perché sa troppe cose, il più pop, di noi due, è il sottoscritto. Rozzo quanto basta ma non abbastanza.
Per questo motivo dunque, invece di inserirmi nello specifico del precedente post, vengo con questa mia a cantarvi della mia ira funesta verso Bruce Springsteen, e di come quest’ira si sia placata ma ne siano rimaste le stimmate.

Io di Bruce Springsteen ci capisco, sul serio!
Non sono di quegli Springsteeniani da operetta che mettono camicioni di flanella, o peggio, BANDANE, né di quelli più compassati e impostati, amanti dell’American rock tout court per i quali il Boss è comunque un discorso a parte.
Ho sempre considerato Springsteen all’interno del suo contesto storico e artistico; l’ho sempre confrontato col patrimonio a cui liberamente (e giustamente) ha attinto, a come HA INCISO su questo patrimonio, alla traccia da lui lasciata ed è per questo che l’ho amato e lo amo così tanto.
L’umanità è forse il suo più grande pregio, dirò di più, la fallibilità.
Bruce Springsteen da molti anni sforna BUONI DISCHI, non capolavori. Dai gloriosi giorni di Ghost of Tom Joad il Boss non tira più fuori un intero disco da mandare a memoria. Chi dissente da questo, non ha bisogno di continuare a leggere (e forse porta una BANDANA!), per gli altri vi avviso che vi attende una sega senza fine su quest’individuo nato nel New Jersey quasi sessant’anni fa.

Pensate a The river, o a Darkness on the edge of town; fate mente locale, avete presente lo stesso Born in the U.S.A.? Produzione merdosa, anni ’80 che fioccano, ma canzoni coi controcazzi: non ce ne era una che non ti restasse in testa. Stiamo parlando di un musicista che quando ci vai in fissa ti riempie di robba. Ti da contenuti, orecchiabilità, epica, cortometraggi, ritratti, ti fa ballare, divertire e ti fa pensare. Ti racconta il mito, da qui la sua grandezza.
Ora invece pensate a The Rising, a Devils and Dust (contenitore sottovalutato di alcune perle) o al più recente, ultimo lavoro: MAGIC.
Già a sentire il titolo vi confesso che mi ero cacato sotto. “Che cazzo di titolo è MAGIC?”.
Sarà un disco dedicato all’omonimo playmaker dei Los Angeles Lakers di qualche decennio fa?
Sarà un omaggio ai Queen? “Che cazzo di titolo è MAGIC” pensavo tra me...
E infatti MAGIC è un titolo del cazzo!
Ora passiamo al disco. Il singolo mi ha fatto venire i geloni: per un momento ho persino pensato che Bruce Springsteen credesse di essersi trasformato in Bryan Adams. Ho fatto incubi per due giorni. Radio Nowhere, un altro titolo del cazzo, non era per nulla buona, era una canzone che poteva scrivere qualunque imitatore di Springsteen dei tardi ’80. Il primo incontro con l’album era stato annichilente. Sembrava, in più di un brano, che il Boss volesse suonare come “quelli che volevano suonare come il Boss”. Così incontravo rock’n’soul alla Graham Parker, acusticismi non particolarmente riusciti, leggi Dan Bern et similia, gente valida mai uscita dalla lunga ombra del “...bel brano Springsteeniano...”, come Southside Johnny. Il problema risiedeva nel fatto che tutta questa pur ottima marmaglia di rockettari NON ERANO LUI. Perché a lui gli anni ’50 mancavano sul serio, non come a Bryan Adams; perchè lui la bandana se l’era messa perché suda come un suino, non per tenere i capelli come Bon Jovi; perché il soul, la Stax, la Motown per Bruce Springsteen sono cose sacre da prima che scoprisse Dio e la famiglia; perché SENZA ESSERE DYLAN ha saputo fornire una versione plausibile del folk bianco classico di matrice sindacale, rurale e, udite udite, socialistoide - alla fine sarà pure macho ma avete fatto caso che il pubblico del Boss è prevalentemente di sinistra? (Bertinotti dovrebbe ringraziarlo visto che simpatizzo stalinismo perché ascolto Atlantic City...). E comunque Pete Seeger é stato iscritto al partito comunista americano fino alla prima metà degli anni ’50.

Insomma avevo il cuore spezzato. Il mio eroe si era rincoglionito, aveva fatto un disco piacevole e pensava di cavarsela così, solo perché quel disco sarebbe comunque piaciuto ad un sacco di gente.
E a noi? A noi poveri stronzi che l’avevamo difeso dai sinistroidi rompicazzo che gli davano addosso per Born in the U.S.A. perché non ne avevano letto il testo? A noi che prestavamo Wild, innocent e compagnia bella per far capire al critico superficiale che il Boss era uno serio e intelligente, non un rockettaro tutto muscoli, palle e niente cervello? Bruce Springsteen mica era i Kiss, non si truccava, non sparava laser sulle folle oceaniche accorse a vederlo con la E street band come facevano i Pink Floyd, dal vivo non faceva lo stronzo come Bob Dylan, e non frequentava i soliti giri di sessodrogaerockenrolle dei vecchi dinosauri del rock. Non faceva yoga come Sting o come Peter Gabriel, non si chiamava Claudio Baglioni. Noi lo sapevamo questo, e lo difendevamo.
Adesso non dobbiamo più difenderlo, dobbiamo capirlo, e in questo caso specifico, criticarlo.
Dobbiamo capirlo, perché non possiamo più sentirci eterni ragazzetti, se lui si sente più vecchio.
Dobbiamo capirlo perché il suo più grade pregio è l’umanità e, come ogni uomo, oggi sta facendo i conti con se stesso. Per questo fa i dischi a-là Springteen ma non fa i dischi DI Springsteen.
Per questo il suo senso critico verso se stesso vacilla e non vede con chiarezza quello che sta scrivendo. In lui alberga una pace, un appagamento, una soddisfazione negata a molti, anzi, ai più.
Non possiamo e forse neanche dobbiamo aspettarci quell’urgenza, quel desiderio di stare bene, di stare bene insieme che in qualche modo è riuscito a creare nella sua carriera. Non possiamo chiedergli di darci speranza anche dentro MAGIC. Ci serve speranza? Di corsa ad ascoltare Born to run, marsch!!!!
Bruce Springsteen sta diventando vecchio ma deve ancora diventare saggio. È con un braccio nel vestito da guitto sensuale ed inarrestabile del rock’n’roll e con un braccio nella spartana blusa di tranquillo lavoratore-cantastorie che torna alle sue radici.
Sarà con la chitarra acustica, registrato dentro la cucina di casa sua che sferrerà ancora i fendenti indimenticabili che sa sferrare, non alla corte di Brendan O’Brien dove riesce solo a riprodurre se stesso, a dissimulare la nostalgia con il manierismo, a far sentire la mancanza dei suoni e dei colori di Born to run o di Born in the U.S.A..
Sarà con un combo di chitarre elettriche vecchie come lui, registrato nel soggiorno della casa di campagna (che possiede...), che riuscirà ancora a fare rock’n’roll. Perché, signore e signori, Bruce Springsteen non vuole più suonare per gli stadi ma ancora non l’ha capito e dunque non ha capito che non ha più bisogno di scrivere canzoni per gli stadi ma, al massimo, per un club.
Riuscirà il nostro eroe ad aggirare la demenza senile con la saggezza? O verrà forse trascinato come un’immensa, solidissima quercia dal fiume del business, delle superproduzioni e dei ritorni dal passato (leggi reunion)?
Da Springsteeniano quale sono e fui, non posso, non voglio, rinunciare a fidarmi anche stavolta, nonostante MAGIC, di lui e del suo cuore ma oggi, mio caro Boss, come amano chiamarti più di quanto tu ami farti chiamare, ti becchi una BOCCIATURA.
Perché, sinceramente, le cover di Bruce Springsteen, piuttosto, le suono io, non te.
Cordialmente vostro devoto
il cuoco

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