Questo è il primo pezzo che ho scritto per Muz, una rivista bella ma sfigata che ha chiuso poco dopo che arrivassi io. era bella, funzionava bene ma costava quasi cinque euro e NON si trovava in edicola. di conseguenza immagino che non vi siate scapicollati da feltrinelli soldi in bocca per procurarvene una copia.
Quello che volevo fare è cercare di rendere uno spaccato vivo dell'underground italiano - e romano in generale - dato che ho sempre avuto l'idea che noi non abbiamo niente da invidiare a Orange County o - se è per questo - a Washington DC.
Poi però ho cambiato idea.
Il pezzo è stato pubblicato a gennaio 2007.
---
Beh, no: se pensate che qui ci mettiamo a fare i critici snob, mi sa che vi state sbagliando di grosso. Nel senso che non è che stiamo qua a contare le copie vendute da un disco e valutare in maniera inversamente proporzionale il loro spessore musicale. Magari queste cose le facciamo fare a qualcun altro, ché a noi vabé che ci piacciono i Mastodon e i Dillinger Escape Plan (sì, qui tendiamo a parlare di musica un pochino violenta), ma ci piacciono anche i Beatles, che insomma, proprio di nicchia non sono mai stati, dall’alto delle carrettate di dischi che hanno snocciolato e venduto.
Però il successo – e questo l’ha detto Edmund Burke, statista e pensatore irlandese, per cui prendetevela con lui (anche se è morto 209 anni fa, ha-ha) – è effettivamente un criterio un po’ troppo sopravvalutato, negli ultimi due/tre decenni. È vero che Elvis ha un po’ cambiato sul nascere le regole della rock and roll music ancora in fasce, ma c’è uno spettro che si aggira per il mondo, e il suo nome è comun... “underground”! Il suo nome è “underground”.
La scommessa proposta (dall’insigne Martorella a me, e da me a voi, se avete la pazienza di seguirmi) è di segnalarvi e parlarvi delle centinaia di band che in Italia vivono, prosperano – e vendono, credetemi – senza che voi ne abbiate avuto mai idea, finora. Macinano i chilometri in perfetto spirito ultrà per andare a suonare in squat puzzolenti senza uno straccio di impianto, prendono scarpate in faccia perché quello è lo bello stilo de lo arde core e se sono stati particolarmente fortunati dormono in furgone con una piotta (leggi: 100 euro) in tasca.
E tutto per la gloria, signori, che qua sotto, sotto la superficie dorata e corrusca che MTV stende sotto gli occhi di milioni di persone; qua in cantina, insomma, ci crediamo ancora, alla passione e alla gloria.
Eppure, non va pensato che questo ambiente sia popolato e sostenuto da sprovveduti o da cani sciolti e disorganizzati. Grazie al cielo internet e le comunicazioni di massa non hanno permesso solo il proliferare di rave magnacervello o flash mob situazionisti e un po’ bislacchi. C’è un mondo che ha iniziato a proliferare sotto il pelo dell’acqua, proprio come quello che il santissimo Claudio Capone e la sua santissima voce (che Dio lo benedica nei secoli) illustra nei documentari delle tre di notte. Un mondo che è fatto di ottime band, di un nutrito pubblico, e uno sparuto e agguerrito manipolo di etichette, agenzie di booking, grafici e gestori di locali che danno loro il supporto necessario. Trait d’union? L’abbiamo testé detto: la passione e la gloria.
Del resto, di passione bisogna averne tanta, per sfidare il pubblico infingardo e la congiuntura perenne e le intemperie penetranti e i cavi rotti e le platee ostili e i tempi stretti. Qui, del resto, parliamo di apparati entusiasti, non di apparati professionali.
Già, perché nonostante Elvis abbia certamente cambiato sul nascere le regole della rock and roll music, grazie al cielo non si è scrollato di dosso l’odore di umido degli scantinati e delle sale prova improvvisate, o almeno finché non ha voluto trasformarsi nel Carro di Viareggio di se stesso, insomma. Ed è questo odore – il vero odor di santità della roccarolla – che si è tramandato fino ai giorni nostri, sincero e inequivocabile come un cazzotto dato per benino, e qui torniamo a casa.
Vabbè, ma di che stiamo parlando? Di questo: in Italia, oggi, ci sono almeno una decina di band che stanno facendo parlare di sé l’Europa. L’Europa che ascolta, chiaro, non quella che sta davanti alla televisione a ingoiare qualsiasi cosa. L’Europa che cerca la musica, che scopre ed è curiosa. Alcuni di loro i confini del Vecchio Continente l’hanno anche sorpassato, e da tempo. E con dignità. Insomma: un amico mio, per dire, è stato a New York di recente e ha visto in un negozio il disco di uno di questi gruppi: questi sono segnali, e pure piuttosto precisi.
E allora ecco la scommessa: sollevare il masso e decifrare il mondo che c’è sotto.
Attenzione: diciamo “sotto”, e non a caso. Tant’è che parrebbe essere giunto il momento del Primo Disclaimer (non sappiamo se ce ne saranno altri, ma è verosimile): underground, o indipendente, non è emergente.
Emergente è ciò che è destinato a uscire allo scoperto, ciò che va in superficie, ciò che si rende evidente a tutti. Non ci siamo, non è di questo che stiamo parlando.
Emergente? Emergente è il MEI, il mondo fatato di ambiziosi cantautori o intraprendenti discografici che scalpitano come Puffi al pensiero che questa gavetta nella semioscurità a cui sono confinati è solo un passaggio, prima delle folle adoranti, prima delle bave sui finestrini e delle ragazzine paonazze che ci mostra MTV (a proposito, sondaggio: sembrano inquietanti anche a voi?). Emergente è chi aspira a diventare “cantante famoso” perché lo crede possibile, o magari perché la sua stessa musica lo permette.
Questo è tutto un altro ambiente, invece: un ambiente fatto di dedizione, di costanza. Forse un po’ palloso (sempre molto meno di quanto non possa sembrare), forse quasi religioso nel suo rispetto, nella sua etica più o meno rigida. Ma alla fine si tratta di un moto dello spirito (pensate quanto ne sarebbe stato contento Sant’Agostino, se solo fosse stato ancora vivo...), e come tale è sempre genuino, almeno visto da qui.
Anche lontano dai riflettori, anche lontano dalle grandi attenzioni. Poi aoh, se non vi va di starci a sentire non è che ve l’ha prescritto il dottore...
playlist>
niente
Quello che volevo fare è cercare di rendere uno spaccato vivo dell'underground italiano - e romano in generale - dato che ho sempre avuto l'idea che noi non abbiamo niente da invidiare a Orange County o - se è per questo - a Washington DC.
Poi però ho cambiato idea.
Il pezzo è stato pubblicato a gennaio 2007.
---
“Il successo è il solo infallibile criterio di saggezza per le menti volgari”
(E. Burke, 1729-1797)
(E. Burke, 1729-1797)
Beh, no: se pensate che qui ci mettiamo a fare i critici snob, mi sa che vi state sbagliando di grosso. Nel senso che non è che stiamo qua a contare le copie vendute da un disco e valutare in maniera inversamente proporzionale il loro spessore musicale. Magari queste cose le facciamo fare a qualcun altro, ché a noi vabé che ci piacciono i Mastodon e i Dillinger Escape Plan (sì, qui tendiamo a parlare di musica un pochino violenta), ma ci piacciono anche i Beatles, che insomma, proprio di nicchia non sono mai stati, dall’alto delle carrettate di dischi che hanno snocciolato e venduto.
Però il successo – e questo l’ha detto Edmund Burke, statista e pensatore irlandese, per cui prendetevela con lui (anche se è morto 209 anni fa, ha-ha) – è effettivamente un criterio un po’ troppo sopravvalutato, negli ultimi due/tre decenni. È vero che Elvis ha un po’ cambiato sul nascere le regole della rock and roll music ancora in fasce, ma c’è uno spettro che si aggira per il mondo, e il suo nome è comun... “underground”! Il suo nome è “underground”.
La scommessa proposta (dall’insigne Martorella a me, e da me a voi, se avete la pazienza di seguirmi) è di segnalarvi e parlarvi delle centinaia di band che in Italia vivono, prosperano – e vendono, credetemi – senza che voi ne abbiate avuto mai idea, finora. Macinano i chilometri in perfetto spirito ultrà per andare a suonare in squat puzzolenti senza uno straccio di impianto, prendono scarpate in faccia perché quello è lo bello stilo de lo arde core e se sono stati particolarmente fortunati dormono in furgone con una piotta (leggi: 100 euro) in tasca.
E tutto per la gloria, signori, che qua sotto, sotto la superficie dorata e corrusca che MTV stende sotto gli occhi di milioni di persone; qua in cantina, insomma, ci crediamo ancora, alla passione e alla gloria.
Eppure, non va pensato che questo ambiente sia popolato e sostenuto da sprovveduti o da cani sciolti e disorganizzati. Grazie al cielo internet e le comunicazioni di massa non hanno permesso solo il proliferare di rave magnacervello o flash mob situazionisti e un po’ bislacchi. C’è un mondo che ha iniziato a proliferare sotto il pelo dell’acqua, proprio come quello che il santissimo Claudio Capone e la sua santissima voce (che Dio lo benedica nei secoli) illustra nei documentari delle tre di notte. Un mondo che è fatto di ottime band, di un nutrito pubblico, e uno sparuto e agguerrito manipolo di etichette, agenzie di booking, grafici e gestori di locali che danno loro il supporto necessario. Trait d’union? L’abbiamo testé detto: la passione e la gloria.
Del resto, di passione bisogna averne tanta, per sfidare il pubblico infingardo e la congiuntura perenne e le intemperie penetranti e i cavi rotti e le platee ostili e i tempi stretti. Qui, del resto, parliamo di apparati entusiasti, non di apparati professionali.
Già, perché nonostante Elvis abbia certamente cambiato sul nascere le regole della rock and roll music, grazie al cielo non si è scrollato di dosso l’odore di umido degli scantinati e delle sale prova improvvisate, o almeno finché non ha voluto trasformarsi nel Carro di Viareggio di se stesso, insomma. Ed è questo odore – il vero odor di santità della roccarolla – che si è tramandato fino ai giorni nostri, sincero e inequivocabile come un cazzotto dato per benino, e qui torniamo a casa.
Vabbè, ma di che stiamo parlando? Di questo: in Italia, oggi, ci sono almeno una decina di band che stanno facendo parlare di sé l’Europa. L’Europa che ascolta, chiaro, non quella che sta davanti alla televisione a ingoiare qualsiasi cosa. L’Europa che cerca la musica, che scopre ed è curiosa. Alcuni di loro i confini del Vecchio Continente l’hanno anche sorpassato, e da tempo. E con dignità. Insomma: un amico mio, per dire, è stato a New York di recente e ha visto in un negozio il disco di uno di questi gruppi: questi sono segnali, e pure piuttosto precisi.
E allora ecco la scommessa: sollevare il masso e decifrare il mondo che c’è sotto.
Attenzione: diciamo “sotto”, e non a caso. Tant’è che parrebbe essere giunto il momento del Primo Disclaimer (non sappiamo se ce ne saranno altri, ma è verosimile): underground, o indipendente, non è emergente.
Emergente è ciò che è destinato a uscire allo scoperto, ciò che va in superficie, ciò che si rende evidente a tutti. Non ci siamo, non è di questo che stiamo parlando.
Emergente? Emergente è il MEI, il mondo fatato di ambiziosi cantautori o intraprendenti discografici che scalpitano come Puffi al pensiero che questa gavetta nella semioscurità a cui sono confinati è solo un passaggio, prima delle folle adoranti, prima delle bave sui finestrini e delle ragazzine paonazze che ci mostra MTV (a proposito, sondaggio: sembrano inquietanti anche a voi?). Emergente è chi aspira a diventare “cantante famoso” perché lo crede possibile, o magari perché la sua stessa musica lo permette.
Questo è tutto un altro ambiente, invece: un ambiente fatto di dedizione, di costanza. Forse un po’ palloso (sempre molto meno di quanto non possa sembrare), forse quasi religioso nel suo rispetto, nella sua etica più o meno rigida. Ma alla fine si tratta di un moto dello spirito (pensate quanto ne sarebbe stato contento Sant’Agostino, se solo fosse stato ancora vivo...), e come tale è sempre genuino, almeno visto da qui.
Anche lontano dai riflettori, anche lontano dalle grandi attenzioni. Poi aoh, se non vi va di starci a sentire non è che ve l’ha prescritto il dottore...
playlist>
niente
4 commenti:
oh abile smontatrice di punti, fammi capire:
sostieni che MUZ ha chiuso per causa di (cane) perchè le sue 2 pagine di rubrica erano tanto rilevanti da offuscare il contenuto delle restanti 200/250?
che mentre lui faceva crollare le vendite l'intera redazione, invece che notificargli il suo presunto infausto operato e buttarlo fuori, si rimestava il pacco?
e a questo punto il direttore chi sarebbe, topo gigio?
simpaticamente tua
A.H.
fortissimamente non si dice. l'avverbio di modo, in italiano, non si declina.
scusatemi tutti, sono proprio una professorina del cazzo.
Posta un commento