20 giugno 2007

39° sagra del cavillo

Ok, allora cavilliamo.

Prima di tutto è un po' antipatico che questo blog venga commentato in questo modo. Non me ne vogliamo né J* né A.H. né chiunque altro si è sentito in diritto di puntualizzare cose che però con l’argomento principale di questo blog hanno poco o punto a che fare (e perdonate la mia presunzione se voglio essere preso sul serio). Mi pare sia chiaro che quello che vorrei fare è creare un minimo di dibattito sugli ARGOMENTI, sui CONTENUTI, sul PERCHÉ IO STO QUA A SCRIVERE CON QUESTO CALDO INVECE DI ANDARE A FARE UN’ALTRA DOCCIA. Ok?
I commenti sul potere di acquisto di 3 euro e novanta centesimi, o quant’altro, sono MARGINALI E INNECESSARI. Scaricatevi stumbleupon e divertitevi, o altrimenti mettetevi d’impegno e cercate di capire il SIGNIFICATO GENERALE delle cinque righe di premessa che ho dato all’ultimo pezzo messo online. O a qualsiasi altra cosa. E ringraziamo iddio che i dati immessi su internet non si paghino a tanto ar chilo, altrimenti siamo tutti rovinati.

Detto questo, entriamo nel vivo, sebbene con un’altra premessa: io non so ESATTAMENTE consapevolezza del perché MUZ abbia chiuso. Non sta a me saperlo, non sta a me discuterne, non sta a me nemmeno venirvelo a raccontare, perché questa rivista (come tutte) ha un editore, un direttore e uno staff: e i cazzi loro sono loro (e appunto: loro). Secondo: ci sono delle dinamiche economiche complesse. Aprire una rivista non è facile, e chiuderla lo è ancora meno. Non pensate che sia sufficiente dire Basta per mandare tutti a ramengo: c’è gente da mandare a casa, aspettative da deludere, spiegazioni da dare (spiegazioni e non giustificazioni, ma di questo ne parliamo dopo) e un gran rodimento di culo perché quando si apre una rivista è perché c’è un’intenzione e un’ispirazione dietro. Ci sono indagini di mercato, ore di lavoro spese, SOLDI – anche quelli – spesi (e tanti) e in definitiva se uno si vuole divertire c’è il sudoku. NON l’editoria.
Di certo, è ingenuo dire che una rivista chiuda esclusivamente perché mancano i lettori. I lettori c’erano, c’erano; ma c’era naturalmente anche la voglia di farli AUMENTARE, questi cazzo di lettori – che per inciso hanno portato la rivista a triplicare il numero di pagine nel giro di UN ANNO E MEZZO. Ovvio, uno fa un investimento che deve riassorbire: una rivista non diventa il triplo di se stessa restando allo stesso prezzo (che all’inizio era di due miserrimi euri – e sì: anche un euro ha un potere d’acquisto diverso dai cinque, sempre per evitare altre ondate di cavilli). in più, quell’uno che fa l’investimento può anche decidere di rendere questa rivista più bella, impaginata meglio, una rivista da collezione perché l’idea di fondo dietro questa rivista, era quella di fare una cosa DIVERSA dalla media della stampa musicale italiana. E adesso è il momento di fare un discorso apparte.

In Italia, le riviste musicali si aprono e si chiudono come fanno le massaie con le finestre. Questo perché il pubblico è poco attento, è poco competente (in Italia mediamente non sappiamo un cazzo di musica ma ne parliamo tra un secondo), gliene frega poco di seguire gli ambienti musicali e il livello è mediamente basso, spesso e volentieri fatto di meri sbrodolamenti autoerotici o tutt’al più di agiografie dovute o alla venerazione (nella migliore delle ipotesi) o al meretricio (e ci siamo capiti). Insomma, l’informazione è pochissima, e la poca che c’è in giro è anche di minimo valore.
[Onde evitare altre ondate di cavilli che potrebbero farmi venire un certo languorino di censura da ora in poi: per “pubblico” intendo la maggioranza dei lettori della stampa, quella che fa muovere i soldi. Per “ambienti musicali” intendo le scene che non sono sotto gli occhi di tutti normalmente – quello che non va in televisione, insomma. Per tutti gli altri lemmi, c’è il DeMauro online]
In più, internet ci ha viziati. Una rivista musicale, oggi, deve adeguarsi alle diverse modalità di lettura che la rete ha creato, come hanno fatto i quotidiani con l’avvento della televisione. Non più spiccia informazione – le notizie vanno e vengono in continuazione e un mensile NON PUÒ stare appresso a tutte le cose che accadono nel suo periodo di pubblicazione: e poi non mi serve davvero spendere soldi per sapere semplicemente cosa sta succedendo, quando MyYahoo mi spara in RSS le notizie in tempo reale, no? Qual è la chiave, allora? La chiave è l’approfondimento. Ed è qui che arrivano i cazzi.

Già perché buona parte dell’approfondimento della stampa musicale si dedica esclusivamente all’intervista o a un pezzo di media lunghezza, e puramente biografico/descrittivo, su un gruppo/musicista come veicolo promozionale a un avvenimento (nuova tournée, nuovo disco). Un’altra delle tante marchette, insomma, che ammanettano le redazioni al ricatto delle case discografiche (un ricatto molto semplice: Parla bene del mio artista o ti taglio copie promozionali e pubblicità), così come hanno già ammanettato le radio che fondamentalmente trasmettono gli stessi 40 singoli a ripetizione (e le cosiddette emittenti alternative non fanno differenza, quando non sono direttamente in mano a deficienti e ai loro pessimi gusti). Un’altra freccia in meno nella faretra della stampa musicale italiana: perché leggere solo recensioni/marchetta quando i blog (che si basano sul materiale procurato “alternativamente”, diciamo così) possono stroncare tranquillamente e mettermi in guardia dalle sole? E siamo daccapo a dodici.

Ti dico io com’è andata: MUZ voleva essere una rivista che dedicava spazio a gente non necessariamente per copertura promozionale; un esempio: due degli ultimissimi numeri dedicavano la copertina e la cover story a David Bowie e a Joni Mitchell perché è un ottimo spunto prendere un compleanno per parlare di qualcuno senza per forza sottolineare l’occasione contingente. Non ho idea di chi altro abbia fatto o farebbe una cosa del genere. Per Bowie forse pure pure, ma per Joni Mitchell decisamente NO. Ancora: l’ultimo numero di MUZ era dedicato a un sondaggio sulla più bella canzone italiana, che è un argomento sempre molto controverso, visto che buona parte delle penne è sempre pronta a saltare su carrozzoni revivalisti del Ma non era poi così male, sebbene con la stessa profondità di vedute di una pischelletta che si prova diverse montature di occhiali. Infine: MUZ era una rivista con POCHISSIMA pubblicità. E tra questa POCHISSIMA pubblicità, ancora MENO vi era la pubblicità delle case discografiche, proprio perché voleva sottrarsi alla dinamica di ritorisione delle major (o di chiunque, dai; e il prossimo che si lamenta perché l’Espresso ha il 30% minimo di foliazione dedicata alla pubblicità farebbe bene a venirmelo a dire DI PERSONA).
In definitiva, l’idea dietro MUZ era quella di fare della CRITICA, che è una cosa che in pochi - pochissimi? NESSUNO? – si sono azzardati a fare in Italia. Prendi della gente che conosce la musica profondamente, che l’ha studiata, che l’ha ascoltata E analizzata, togli tutto l’apparato masturbatorio del giornalismo indie e hai dei discorsi semplici, efficaci e – perdio – SERI. Non insomma, l’approfondimento gossiparo a cui siamo abituati, non la retrospettiva “in occasione della nuova uscita”, non l’intervista/marchetta. Una roba “a buffo”, esattamente come questo blog. Un tentativo di parlare di cose buone e di trasmetterle alla gente. Troppo fessi, dite?

Allora ti dico io com’è andata. In Italia, noi non abbiamo educazione musicale. Da queste parti ancora siamo del parere che i musicisti (categoria che idealmente non esiste in Italia, dove preferiamo parlare di “cantanti”) siano come i calciatori, gente che vuole fare la bella vita e un mucchio di soldi divertendosi e senza fare un VERO lavoro: si affida al Magico Produttore (spesso un maneggione della peggior specie) e voilà: è in televisione (almeno per qualche minuto).
In culo – tutto questo – alla gente che come me suda, si sbatte e si spacca la schiena e i denti (letteralmente) per mandare avanti un progetto onesto, non mediato dai grassi e crassi pappa dell’industria della Gloriosa Canzone Italiana – che San Remo protettore l’abbia in gloria e magari la chiami a sé nel Regno dei Cieli.
Di conseguenza, la musica è relegata nelle pagine degli “Spettacoli” dei quotidiani, senza un approfondimento valido, senza uno straccio di indotto critico, culturale e – va da sé - economico a supporto. La musica diventa un contorno, un contenitore al cui interno c’è il vero prodotto, che è poi ciò che viene realmente veicolato dal cannibale mercato discografico italiano.
In più, le riviste italiane non parlano mai di MUSICA (Generi? Linguaggi? Tecniche espressive? Sociologia della musica? Etichette?) ma di PERSONAGGI: non c’è musica intesa in senso generale, c’è solo musica che serve a smerciare l’immagine di qualcuno (spesso e volentieri sempre grazie all’intervento del Magico Produttore di cui sopra). Anche in ambito underground, il che è ancora più scandaloso. Un esempio: sappiamo TUTTO della depressione di Jacob Bannon e delle sue abitudini alimentari, ma non sappiamo nulla di COME questa depressione aiuti la musica dei Converge ad essere quella che è o – ma questa è davvero ambizione – come e se la musica dei Converge si inserisca in una corrente valida, strutturata, o destinata a durare.

Fare critica musicale seria (attenzione: critica musicale NON-colta, che di studi rossiniani e verdiani ne abbiamo a enciclopedie intere; e NON-jazz, che si rivolge a un pubblico fedele, serio e cazzo: COMPETENTE) in Italia significa andare a mettere le mani nel fuoco: la gente (vedi sopra alla voce “pubblico” cosa intendo anche per “gente”) non ne vuole sapere, di leggere di testi, linguaggi musicali, sociologia e politica musicale e così via. La gente è abituata alle programmazioni di musica “leggera”, a Tricarico, alla superficialità. La gente vuole le SUONERIE, il tormentone dell’estate (il pettoruto sito di Repubblica invitava i suoi utenti a scegliere il loro già a fine aprile) e qualcosa da cantare sotto la doccia. Tutto il resto è noia (non a caso).
In Italia, gente come Adriano Celentano può andare in televisione e dire di aver inventato il rap (e nessuno gli dice un cazzo).
In Italia, gente come Zucchero può dire in giro di essere un bluesman (e nessuno gli dice un cazzo).
In Italia, gente come il dottorVascoRossi (laurea honoris causa) finisce per essere un messia della rock music (e figuratevi se a VascoRossi qualcuno gli dice un cazzo: adesso è anche amico della stradale, quindi occhio che vi fa venire a pescare a casa).
In Italia, il sito di un grosso network radiofonico pubblica un articolo sui Rolling Stones con una foto di un gruppo che NON È i Rolling Stones, e linka l’articolo alla RIVISTA Rolling Stone, non al sito dei Rolling Stones (indovinate se qualcuno gli ha detto un cazzo, o se si è direttamente accorto di qualcosa).
In Italia, se qualcuno si azzarda a far notare gli errori madornali alle persone che dovrebbero essere “esperte” in materia (in altre parole, a dire le cose come stanno) non viene nemmeno tacciato di apostasia (magari), o di antipatriottismo (magari): viene semplicernente liquidato come uno a cui “nun je sta bene un cazzo”, alla fine è un po’ tutto uguale (ve l’avevo detto che il livello era bassissimo).

In un ambiente del genere, una rivista come MUZ era quindi una scommessa estremamente azzardata. Ricapitoliamo:
- Argomenti impopolari INSIEME ad argomenti popolari. Un bagno di sangue: scontentare sia il lettore medio di Blow Up con la puzza sotto il naso – quello a cui un disco che vende più di 2000 copie fa cacare PER PRINCIPIO, quello che c’ha più righe lui nell’armadio che l’Auchan al reparto cancelleria – che il lettore medio di XL che non sa e forse non vuole sapere chi cazzo è Tom Waits;
- Niente pubblicità – e niente marchette di conseguenza: nessuno che vi dirà che il disco nuovo dei White Stripes è una ROTTURA DI COGLIONI, dopo che ci hanno regalato il Tormentone dell’Italia Campione.
- Argomenti che il popolino non esiterebbe a definire “pallosi” (ovvero: CHI CAZZO È Joni Mitchell?)
Se in più la togli dalle edicole (e cara, solerte, commentatrice: si dà il caso che io SO che a un certo punto MUZ è uscita dalle edicole – questa è del resto la differenza tra me che ci stavo dentro e te che avevi una mattinata da perdere) corri ulteriormente il rischio di andare a gambe all’aria, rischio che consta nel chiedere a una già sparutissima cerchia di aficionados di diventare ANCORA più tenaci nell’andarsela a cercare. Puoi vincere o puoi perdere. Indovina cos’è successo.

Ancora:
La critica è l’analisi di una situazione recente ma non immanente. Non è più cronaca – perché non si limita a narrare gli eventi senza assumere una posizione critica, appunto. Non è ancora storia, però – perché non c’è la distanza obiettiva necessaria a valutare un evento all’interno di un contesto generale, macroscopico. Compito della critica è quello di commentare un evento, un movimento, una situazione, un fatto (di qualsiasi tipo). Questa è teoria storiografica, che ricordo ancora a memoria dai tempi dell’università, sempre perché non sono molto avvezzo a dire cagate. Ci siamo?
Ora. Chi scrive un pezzo che abbia la pretesa (o i requisiti) di essere “critico”, porta IN SÉ le premesse di un possibile riposizionamento di vedute, alla luce di successivi sviluppi, cambiamenti, o revisioni. Questo accade in qualsiasi ambito e in qualsiasi campo della valutazione umana – senza contare il fatto che nessuno ha o pretende di avere la verità in tasca, a meno che non sia qualche trombone che senti parlare di musica alla RAI o sulle grandi testate.
Al contrario, la critica DEVE cambiare idea se cambiano i contesti storici, sociali, culturali e linguistici per valutare un fatto o un contesto. Del resto, chiunque affronti una lettura che esprime un parere sa bene che quel parere è dettato da una quantità pressoché infinita di variabili soggettive (tra cui anche la possibilità di un errore di valutazione, diciamolo).
Che si possa quindi cambiare idea su un articolo non solo è possibile, ma sacrosanto e legittimo. Che si possa cambiare idea su TUTTO – espresso come opinione – è sacrosanto e legittimo.
In altre parole, chiedi a David Geffen cosa ne pensa oggi, della decisione di pubblicare Nevermind su un’etichetta secondaria e a bassissima tiratura, dopo aver previsto un disastro econonico, scarsissime vendite, e per evitare che la sua cattiva pubblicità ricadesse sul suo marchio principale.

TUTTO QUESTO per mera chiarificazione, e senza dimenticare che io non ho il MINIMO bisogno di “giustificare” la chiusura di una rivista musicale. Secondo uso diffuso e comune, ti ricordo, la parola “giustificazione” si associa alla riparazione di una colpevolezza o di una mancanza che io francamente non vedo (sempre perché stiamo cavillando, ci mancherebbe altro).
Al contrario, trovo piuttosto poco credibile intraprendere la lettura di QUALSIASI tipo di testo basato sull’opinione – da MUZ a Heidegger – se si considerano effimere, inconsistenti e posticce (o se si ignorano tout court) le basi su cui si fonda. In più, trovo addirittura ridicolo, quando non irritante, mettersi a “cavillare” – per continuare a usare un termine ormai caro a questo blog – su questioni che definire marginali è quantomeno generoso.
Contenuti, allora: dibattito. Adoro essere “abilmente smontato”, a patto che mi si arricchisca, o che si arricchisca un qualsiasi tipo di discorso. Ma discorso sulla sostanza, sulle idee, sulle opinioni. E PER CORTESIA, avvalorato da FATTI.

In alternativa, ecco da dove potete scaricare StumbleUpon per Mozilla Firefox:
https://addons.mozilla.org/it/firefox/addon/138

...e ci mancherebbe, senza offesa.

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