E insomma così, di punto in bianco, il cane venne al cuoco e gli chiese di spiegare in tre parole perché è opportuno ascoltare i Cowboy Junkies.
E io ho pensato - Beh cane mio, magari “Opportuno” non è la parola più adatta, specie ora che per la regola della degenerazione esponenziale del relativismo culturale praticamente è diventato “Opportuno” ascoltare tutti e rintracciare in tutti una particella di genio, una scintilla di qualità…
Ma insomma, io sono il cuoco, un pre-moderno, uno che ha creduto nella “Politicità” delle proprie scelte musicali – salvo poi precipitare nella disperazione anni dopo, al momento di comprendere che tante delle filippiche in cui mi ero gettato anima e core giravano intorno a solenni cazzate preconcette – e dunque in omaggio ad un antico retaggio eccomi qua a spiegarvi PERCHÉ sarebbe giusto ascoltare i Cowboy Junkies e dargli almeno una possibilità.
Un po’ di psicologia.
I Cowboy Junkies sono canadesi, il loro digestivo per la musica sono stati Neil Young e il paesaggio canadese (che poi è la stessa cosa…) e questa è già un’indicazione.
Tra i loro ascolti si desume una passione per i Velvet Underground, Townes Van Zandt, Hank Williams e Bruce Springsteen, tanto per citare alcuni dei musicisti cui tributeranno la loro stima con almeno una cover. Questa è un’ulteriore indicazione.
C’è poi, ad integrazione e nutrimento, la solita messe senza tempo (e spesso senza nome) di american music del tempo che fu, da cui puoi spuntare a caso una Carter Family, un Johnny Cash piuttosto che un Robert Johnson per cominciare a definire il “Quadro Cowboy Junkies” un po’ più accuratamente che solo nei contorni: indicazioni aggiuntive.
Un po’ di storia.
Il loro primo lavoro è roba del 1986. Il contesto americano è fin troppo clemente verso questi figli della grassa terra del nord. Diciamoci la verità: avere la compagnia di Rank and File, Violent Femmes, Rain Parade, Dream Syndicate, Opal, Walkabouts (per citarne qualcuno) vuol dire non essere propriamente SOLI AL MONDO nel portare avanti un discorso di rielaborazione delle radici dell’american music, della ballata, attualizzarla e bla bla bla…
I nostri eroi si confrontano con questo contesto:anche questo va tenuto a mente.
In un’intervista che lessi su un Buscadero di un milione di anni fa Michael Timmins, band-leader, chitarrista nonché fratello della cantante della band, dichiarava che i suoi ascolti erano stati solo i Clash per un sacco di tempo, salvo poi scoprire che oltre alla migliore band di tutti i tempi c’erano stati anche altri interessanti ed apprezzabili artisti di cui aveva fatto esperienza in seguito.
Da questo possiamo tranquillamente desumere che l’elemento fondatore della band (nonché autore) è stato un ragazzo normale che, come tutti, ascoltava la musica del suo tempo e ne traeva giovamento. Non siamo, dunque, di fronte ad uno di quei fenomeni tipo SONO UN DISSOCIATO IN FISSA SOLO E SOLTANTO CON LA MUSICA DEGLI APPALACHI E CON LE GIGHE IRLANDESI CHE SI SUONAVANO PRIMA DELLA GUERRA DI SECESSIONE oppure con una di quelle famiglie di campagnoli la cui radio, nel 1979-80, trasmetteva magicamente solo la collezione di 78 giri di Joe Bussard e non captava nulla di suonato dopo il 1957.
Può non sembrare così ma vi assicuro che vi sto fornendo l’ennesima indicazione.
Una gelida scheda analitica delle loro caratteristiche ne parlerebbe così.
Voce femminile dal tono etereo; chitarre taglienti suonate con garbo e con un approccio blues che trasfigura a volte nella psichedelia se non, addirittura, nel raga; atmosfere sospese e richiami al folk, al blues e al gospel; notte; autunno; foglie che cadono… perché è opportuno ascoltare i Cowboy Junkies?
Perché Oliver Stone ha scelto la LORO versione di Sweet Jane invece di quella dei Velvet Underground per il suo Natural Born Killers forse?
Francamente no, anche se fa curriculum.
I Cowboy Junkies non hanno avuto una carriera sempre in crescendo. Sono una band che sulla distanza spesso si è persa e, nel complesso, una loro discografia consigliata, compilata dal sottoscritto, non andrebbe oltre i primi due album più qualche altro preso a macchia di leopardo tra la loro produzione ma, cosa essenziale, i Cowboy Junkies ci hanno fatto dono di un “Suono” e questo è quello che vi serve per andarveli a cercare.
Le radici americane sono state declinate in molte disparate maniere.
Sono state sporcate di punk, distorte di metal, evirate di hard rock, imbastardite di southern, rinvigorite di altro rock e contaminate di elettronica. E, ultimamente, fraintese di pre-war fricchettone e depressone che alterna rari, altissimi momenti ad uno standard francamente involuto e dispersivo che non si sa più se vuole riformare, partire da/per superare, sovrapporre per sperimentare o eiaculare per non scopare (sì, sto parlando di Will Oldham, sì sto parlando di Devendra Banhart, sì, sto parlando delle Cocorosie e anche di Low Anthem....).
Ma le radici americane come le hanno declinate i Cowboy Junkies sono un esempio di varie perfezioni formali e di una certa, passatemi la parola, PUREZZA dell’approccio.
Purezza, perché c’è filologia; purezza nella ricerca di soluzioni che coniughino eleganza e fruibilità; purezza di suoni e, si badi, di atmosfera.
C’è quasi sempre molto SPAZIO nelle canzoni dei Cowboy Junkies, uno spazio in cui il silenzio, senza farsi protagonista indesiderato della musica, gioca un ruolo strategico.
Abbiamo detto “Notte”, ”Autunno” ma potremmo dire anche “Neve” per evocare il mondo suggestivo delle loro canzoni.
I Cowboy Junkies hanno la capacità di far comparire un camino, una coperta e possono accompagnarti placidamente mentre guidi nella notte e fuori dall’abitacolo sta piovendo il finimondo.
Se passi in un bosco dopo la pioggia e li ascolti TUTTO MAGICAMENTE È AL SUO POSTO.
Non dovrei forse essergli grato per questo?
Ma c’è di più.
Al di sotto della superficie su cui il sublime, il solenne, la voce bianchissima di Margo Timmins (vero elemento chiave della band), le foglie che cadono, i buoni cari vecchi tempi andati, dio, il country e il blues scorrono assieme e concorrono a comporre l’edificante quadretto c’è… l’America.
L’assassino che è in me, le mani sporche di sangue, gli anni ‘50 che suonano sempre bene quando è appena stato consumato un atto di crudeltà, un delitto.
Un’inquietudine, un senso di vaga obliquità, un’ appena accennata e sensuale perversione.
Per questo, i Cowboy Junkies, nella loro purezza e ineffabilità, sono un’ottima colonna sonora se hai accoltellato qualcuno venti minuti fa; per questo, la morbida voce di Margo, le sfuggevolezze chitarristiche (prelibate peraltro) e la base ritmica invece sempre così discreta e puntuale quasi a dirti: “vedi che le cose stanno COSÌ e non nell’altro modo…” fanno, a volte, un po’ paura.
Avete mai ascoltato Blue Moon nella versione di Elvis? Non sembra di sentir cantare un assassino sbronzo di sangue e di alcool (il secondo sicuro…) che canta riverso sul cadavere di cui è responsabile?
Quell’effetto eco spettrale sulla voce, la chitarra pizzicata in lontananza, con timore quasi, meccanica come un organetto da luna park, quel silenzio…
Mi ha sempre terrorizzato quella canzone.
Anche la loro versione è terrorizzante. Dolcemente. Ne è praticamente la figlia.
Oppure potreste ritrovarveli a cantare di angeli o a rileggere un gospel con questo silenzio attorno, DENTRO al disco, come se suonassero di notte su una montagna nel nulla canadese di uno di quei loro inappuntabili parchi nazionali che, alla fine, non sapete se commuovervi o scappare a gambe levate.
Qualcosa come Twin Peaks con la dolcezza che Twin Peaks non doveva avere.
Una precisazione è d’obbligo, lo stile della band non giace staticamente sul notturno, l’autunnale, l’aereo e il noir, questo è quello che io definivo il “Suono” che di loro, a mio avviso, rimarrà.
Negli anni hanno girato attorno all’argomento in vari modi, provandosi persino, con risultati non convincenti, a riempire un po’ di quel vuoto che è la pietra angolare del loro stile.
Hanno ripercorso stesse vecchie strade impolverate calpestandole con passo rispettoso e mai iconoclasta.
Se siete riformisti, forse i Cowboy Junkies non fanno per voi, meglio un gazebo del PD.
Tuttavia a mio modo di vedere, sono riusciti, attraverso quel “Suono” di cui vi ho detto e di cui ci hanno fatto dono a diventare, rapidamente e senza troppo clamore, un gruppo “classico”, minore senz’altro ma ugualmente classico. Una di quelle band che, quando si incontrano, si amano o si detestano e questo è un merito.
Sanno farti sentire caldo e sanno farti sentire freddo. Sanno farti compagnia.
Sanno metterti a tuo agio, farti volteggiare come se fossi dentro a una placenta per poi gettarti gentilmente, e freddamente, all’aperto, sotto il cielo, sulla nuda terra.
E là sta a te decidere se metterti a piangere o a ridere.
Alla prossima.
E io ho pensato - Beh cane mio, magari “Opportuno” non è la parola più adatta, specie ora che per la regola della degenerazione esponenziale del relativismo culturale praticamente è diventato “Opportuno” ascoltare tutti e rintracciare in tutti una particella di genio, una scintilla di qualità…
Ma insomma, io sono il cuoco, un pre-moderno, uno che ha creduto nella “Politicità” delle proprie scelte musicali – salvo poi precipitare nella disperazione anni dopo, al momento di comprendere che tante delle filippiche in cui mi ero gettato anima e core giravano intorno a solenni cazzate preconcette – e dunque in omaggio ad un antico retaggio eccomi qua a spiegarvi PERCHÉ sarebbe giusto ascoltare i Cowboy Junkies e dargli almeno una possibilità.
Un po’ di psicologia.
I Cowboy Junkies sono canadesi, il loro digestivo per la musica sono stati Neil Young e il paesaggio canadese (che poi è la stessa cosa…) e questa è già un’indicazione.
Tra i loro ascolti si desume una passione per i Velvet Underground, Townes Van Zandt, Hank Williams e Bruce Springsteen, tanto per citare alcuni dei musicisti cui tributeranno la loro stima con almeno una cover. Questa è un’ulteriore indicazione.
C’è poi, ad integrazione e nutrimento, la solita messe senza tempo (e spesso senza nome) di american music del tempo che fu, da cui puoi spuntare a caso una Carter Family, un Johnny Cash piuttosto che un Robert Johnson per cominciare a definire il “Quadro Cowboy Junkies” un po’ più accuratamente che solo nei contorni: indicazioni aggiuntive.
Un po’ di storia.
Il loro primo lavoro è roba del 1986. Il contesto americano è fin troppo clemente verso questi figli della grassa terra del nord. Diciamoci la verità: avere la compagnia di Rank and File, Violent Femmes, Rain Parade, Dream Syndicate, Opal, Walkabouts (per citarne qualcuno) vuol dire non essere propriamente SOLI AL MONDO nel portare avanti un discorso di rielaborazione delle radici dell’american music, della ballata, attualizzarla e bla bla bla…
I nostri eroi si confrontano con questo contesto:anche questo va tenuto a mente.
In un’intervista che lessi su un Buscadero di un milione di anni fa Michael Timmins, band-leader, chitarrista nonché fratello della cantante della band, dichiarava che i suoi ascolti erano stati solo i Clash per un sacco di tempo, salvo poi scoprire che oltre alla migliore band di tutti i tempi c’erano stati anche altri interessanti ed apprezzabili artisti di cui aveva fatto esperienza in seguito.
Da questo possiamo tranquillamente desumere che l’elemento fondatore della band (nonché autore) è stato un ragazzo normale che, come tutti, ascoltava la musica del suo tempo e ne traeva giovamento. Non siamo, dunque, di fronte ad uno di quei fenomeni tipo SONO UN DISSOCIATO IN FISSA SOLO E SOLTANTO CON LA MUSICA DEGLI APPALACHI E CON LE GIGHE IRLANDESI CHE SI SUONAVANO PRIMA DELLA GUERRA DI SECESSIONE oppure con una di quelle famiglie di campagnoli la cui radio, nel 1979-80, trasmetteva magicamente solo la collezione di 78 giri di Joe Bussard e non captava nulla di suonato dopo il 1957.
Può non sembrare così ma vi assicuro che vi sto fornendo l’ennesima indicazione.
Una gelida scheda analitica delle loro caratteristiche ne parlerebbe così.
Voce femminile dal tono etereo; chitarre taglienti suonate con garbo e con un approccio blues che trasfigura a volte nella psichedelia se non, addirittura, nel raga; atmosfere sospese e richiami al folk, al blues e al gospel; notte; autunno; foglie che cadono… perché è opportuno ascoltare i Cowboy Junkies?
Perché Oliver Stone ha scelto la LORO versione di Sweet Jane invece di quella dei Velvet Underground per il suo Natural Born Killers forse?
Francamente no, anche se fa curriculum.
I Cowboy Junkies non hanno avuto una carriera sempre in crescendo. Sono una band che sulla distanza spesso si è persa e, nel complesso, una loro discografia consigliata, compilata dal sottoscritto, non andrebbe oltre i primi due album più qualche altro preso a macchia di leopardo tra la loro produzione ma, cosa essenziale, i Cowboy Junkies ci hanno fatto dono di un “Suono” e questo è quello che vi serve per andarveli a cercare.
Le radici americane sono state declinate in molte disparate maniere.
Sono state sporcate di punk, distorte di metal, evirate di hard rock, imbastardite di southern, rinvigorite di altro rock e contaminate di elettronica. E, ultimamente, fraintese di pre-war fricchettone e depressone che alterna rari, altissimi momenti ad uno standard francamente involuto e dispersivo che non si sa più se vuole riformare, partire da/per superare, sovrapporre per sperimentare o eiaculare per non scopare (sì, sto parlando di Will Oldham, sì sto parlando di Devendra Banhart, sì, sto parlando delle Cocorosie e anche di Low Anthem....).
Ma le radici americane come le hanno declinate i Cowboy Junkies sono un esempio di varie perfezioni formali e di una certa, passatemi la parola, PUREZZA dell’approccio.
Purezza, perché c’è filologia; purezza nella ricerca di soluzioni che coniughino eleganza e fruibilità; purezza di suoni e, si badi, di atmosfera.
C’è quasi sempre molto SPAZIO nelle canzoni dei Cowboy Junkies, uno spazio in cui il silenzio, senza farsi protagonista indesiderato della musica, gioca un ruolo strategico.
Abbiamo detto “Notte”, ”Autunno” ma potremmo dire anche “Neve” per evocare il mondo suggestivo delle loro canzoni.
I Cowboy Junkies hanno la capacità di far comparire un camino, una coperta e possono accompagnarti placidamente mentre guidi nella notte e fuori dall’abitacolo sta piovendo il finimondo.
Se passi in un bosco dopo la pioggia e li ascolti TUTTO MAGICAMENTE È AL SUO POSTO.
Non dovrei forse essergli grato per questo?
Ma c’è di più.
Al di sotto della superficie su cui il sublime, il solenne, la voce bianchissima di Margo Timmins (vero elemento chiave della band), le foglie che cadono, i buoni cari vecchi tempi andati, dio, il country e il blues scorrono assieme e concorrono a comporre l’edificante quadretto c’è… l’America.
L’assassino che è in me, le mani sporche di sangue, gli anni ‘50 che suonano sempre bene quando è appena stato consumato un atto di crudeltà, un delitto.
Un’inquietudine, un senso di vaga obliquità, un’ appena accennata e sensuale perversione.
Per questo, i Cowboy Junkies, nella loro purezza e ineffabilità, sono un’ottima colonna sonora se hai accoltellato qualcuno venti minuti fa; per questo, la morbida voce di Margo, le sfuggevolezze chitarristiche (prelibate peraltro) e la base ritmica invece sempre così discreta e puntuale quasi a dirti: “vedi che le cose stanno COSÌ e non nell’altro modo…” fanno, a volte, un po’ paura.
Avete mai ascoltato Blue Moon nella versione di Elvis? Non sembra di sentir cantare un assassino sbronzo di sangue e di alcool (il secondo sicuro…) che canta riverso sul cadavere di cui è responsabile?
Quell’effetto eco spettrale sulla voce, la chitarra pizzicata in lontananza, con timore quasi, meccanica come un organetto da luna park, quel silenzio…
Mi ha sempre terrorizzato quella canzone.
Anche la loro versione è terrorizzante. Dolcemente. Ne è praticamente la figlia.
Oppure potreste ritrovarveli a cantare di angeli o a rileggere un gospel con questo silenzio attorno, DENTRO al disco, come se suonassero di notte su una montagna nel nulla canadese di uno di quei loro inappuntabili parchi nazionali che, alla fine, non sapete se commuovervi o scappare a gambe levate.
Qualcosa come Twin Peaks con la dolcezza che Twin Peaks non doveva avere.
Una precisazione è d’obbligo, lo stile della band non giace staticamente sul notturno, l’autunnale, l’aereo e il noir, questo è quello che io definivo il “Suono” che di loro, a mio avviso, rimarrà.
Negli anni hanno girato attorno all’argomento in vari modi, provandosi persino, con risultati non convincenti, a riempire un po’ di quel vuoto che è la pietra angolare del loro stile.
Hanno ripercorso stesse vecchie strade impolverate calpestandole con passo rispettoso e mai iconoclasta.
Se siete riformisti, forse i Cowboy Junkies non fanno per voi, meglio un gazebo del PD.
Tuttavia a mio modo di vedere, sono riusciti, attraverso quel “Suono” di cui vi ho detto e di cui ci hanno fatto dono a diventare, rapidamente e senza troppo clamore, un gruppo “classico”, minore senz’altro ma ugualmente classico. Una di quelle band che, quando si incontrano, si amano o si detestano e questo è un merito.
Sanno farti sentire caldo e sanno farti sentire freddo. Sanno farti compagnia.
Sanno metterti a tuo agio, farti volteggiare come se fossi dentro a una placenta per poi gettarti gentilmente, e freddamente, all’aperto, sotto il cielo, sulla nuda terra.
E là sta a te decidere se metterti a piangere o a ridere.
Alla prossima.