11 novembre 2008

Proprio come il Gibbons

Quindi se non altro, tutto questo ci insegna una cosa, e sarebbe a dire che non ci si può VERAMENTE fidare di nessuno. E, se vogliamo per forza leggerci qualcos’altro, che probabilmente il povero cane porta sfiga, perché se è stato in grado di sbrodolarsi per due persone DUE su questo blog che normalmente è una sassaiola, ecco prontamente che queste due persone DUE iniziano a deludere come un candeggio sbagliato.
Che poi, se vogliamo, la puzza di qualcosa di storto già si poteva sentire da lontano, perché sarà che sono schizzinoso, che c’ho i miei pregiudizi (gelosamente custoditi in una teca di vetro e guai chi me li tocca), ma a me mica m’era andata giù questa cosa di iniziare a spingere il disco nuovo su Myspace tipo tre mesi prima dell’uscita, e questo non in senso assoluto, ma data la caratura di questi due personaggi. Cioè: posso capire se sei gli Avenged Sevenfold e devi farti strada a gomitate tra la memoria cortissima delle tue fan che essendo tredicenni hanno ancora l’attention span di un infante, o posso capire anche se sei i REM e per recuperare le mastodontiche spese di QUALSIASI cosa tu faccia devi iniziare a spingere forte OVUNQUE – Myspace, radio, Chi l’ha visto.
Ma che succede quando sono due eroi dell’indie a immischiarsi in queste manfrine? Presagio di guai, ve lo dice cane. Ma attenzione, perché come al solito occorre fare un distinguo: qua non stiamo parlando di pischelletti tipo gli esasperanti Arctic Monkeys (l’unico gruppo non brutal che mi fa letteralmente comprimere la cassa toracica), che sulla promozione attraverso internet hanno trovato (l’unica?) ragione del loro successo, ma di due eroi del fare le cose per bene e con calma.
Per intenderci, una ha iniziato facendo la cantastorie itinerante con la chitarra a spalla nella perfetta tradizione hobo che piace tanto agli ammeregani illuminati e facendosi le cassette collo stereo a casa; l’altro manco c’ha la chitarra perché sta in fissa co’ Billy Joel e Joe Jackson: ho capito che è tutto un altro sistema produttivo, ma seguitemi, perché qua non stiamo parlando di budget, ma perdio: del fascino discreto della DISCREZIONE.

Ani DiFranco e Ben Folds sono due tra i songwriter che ho ascoltato di più ultimamente, e che più ho apprezzato. Lei, fiera e cazzuta guerrigliera dell’onestà morale e intellettuale, prova vivente che le major se ne possono anche andare affanculo quando l’alternativa è il rimboccarsi le maniche; lui, uno che sa ancora scrivere al pianoforte cose che non si trasformino in christmas carols (vero, Chris Martin?), intelligente, acuto e mammamia, ESTREMAMENTE raffinato nonostante le parolacce, che fa ridere sentirle cantare da uno dietro a un pianoforte: di solito cose del genere succedono quando c’hai una chitarra in mano e scambiandola per il pisello ti senti un attimo onnipotente.
Nel 2008, questi due figuri mettono fuori un disco a testa: io vado in fissa. Lei, un disco che si chiama Red Letter Year, lui uno che si chiama Back To Normal (dopo – tra l’altro – aver fatto nientemeno che una reunion dei Ben Folds Five proprio PER myspace, poi dice che non dovevo voltargli le spalle prima che fosse troppo tardi). Li ascolto: delusione. Ci sono sicuramente pezzi carini e meno carini, entrambi non brillano e non sono destinati a diventare pietre miliari della loro discografia. Ma che c’entra: non tutti i dischi sono memorabili e non tutti i pezzi escono come meccanismi perfetti. C’è dell’altro.
Entrambi questi dischi hanno una caratteristica comune, che quindi non risiedendo tanto nella scrittura o nel concetto, sta nell’atteggiamento. Sì, voi lo sapete benissimo come ragiono, e sapete altrettanto bene che io metto in conto ANCHE e ALLA PARI il tipo di attitudine che un disco o i suoi creatori hanno nel mettermelo in mano: siamo nel 2008, ormai ci sono più rockstar che postini in giro, quindi occhio agli accordi e statemi dietro.
Ci può stare – ci mancherebbe, anzi: è necessario – che un artista che ci tiene un attimo alla propria credibilità o ad evitare quantomeno una stagnazione dovrebbe muoversi in avanti (a meno che non parliamo dei Motorhead o degli AC/DC, e in quel caso viva la reazione) e provare terreni nuovi. Questo nel caso di Ani è stato più frequente e più evidente, dato che di fasi ne ha attraversate, dalla cantantessa combattiva degli inizi all’introspezione e alla sperimentazione con sonorità più raffinate alla gran cagata di To the teeth (e quindi già un precedente deludente ce l’avevamo) allo scandaglio emotivo e minimalista iniziato su Revelling: Reckoning e finito – ahimé – con Reprieve.
Ben Folds è sempre stato invece più assestato sulle sue posizioni, tanto da avere un approccio quasi punk alla scrittura: ha giocato e flirtato di meno con le novità e quindi ha prestato meno il fianco anche a possibili fallimenti, almeno finora, quando il voler mettere in mezzo l’elettronica o questa wave che piace tanto alle nuove generazioni (le stesse generazioni che non sanno niente, votano male, si fanno esplodere su youtube: io un paio di conti me li farei) ha dato come l’impressione (e chiudiamo il cerchio qui) di aver voluto fare il passo più lungo della gamba, o, in una parola: si sono fatti cogliere IMPREPARATI da quello che loro stessi volevano fare.

Ecco il mio coniglio dal cappello. Il problema non è artistico, non è creativo, non è legato all’ispirazione, il problema è BIOGRAFICO. Che voglio dire? Arriva.
Prendete un gruppo qualsiasi di quelli che hanno fatto la storia del rock. I Rolling Stones, gli Who, i Kinks, i Beatles superstiti, i Black Sabbath ma anche i vari Clapton, Page e Plant e compagnia bella – ma mettiamoci pure dentro i Pink Floyd, mi voglio rovinare, o perfino Zappa. Hanno scritto pagine insostituibili della storia del musica, del costume, della cultura popolare blah blah. Nei 60’s sono nati, nei 70’s sono cresciuti (quasi tutti), negli 80’s si sono rincoglioniti. E fin qui ci siamo, ma non dobbiamo puntare il dito esclusivamente nei confronti degli anni 80 nell’individuare la causa principale della MORTE di un certo tipo di rock’n roll. Se così fosse dovremmo anche dimenticare che negli anni 80 abbiamo avuto il punk, la wave buona, l’hardcore, insomma non solo merda. E allora il problema deve stare altrove.
Pensiamoci bene, tutti questi gruppi formati da baby-boomers (gente nata nel secondo dopoguerra, per intenderci) negli anni 80 si avvicinano a – o superano – la soglia dei 40. Guardano alla loro giovinezza come un evento passato, il corpo comincia a mostare i primi segni di affaticamento, ma soprattutto, dopo vent’anni venti dall’inizio della loro carriera, la musica intorno a loro è completamente cambiata: nuove formule, nuove sonorità, nuovi modi di avvicinarsi al pubblico, nuovo tutto. E allora vai con la crisi. Del resto è abbastanza frequente che laddove finisce la fisicità dei 20 e la sicurezza dei 30, iniziano i danni. Aoh, non sono certo io che mi sono inventato la crisi di mezza età, e se è vero che per un cristo qualunque può iniziare intorno ai 50, figuriamoci per una rockstar: quindi laddove a un Pete Townshend sicuramente non sono le macchine nuove o le mignotte che gli sono mai mancate, cosa può portare una ventata di freschezza nella stantia vita di un quarantenne? Ma è semplice, un disco che suona NUOVO, fresco, che rimetta al passo coi tempi. Ed ecco le grandi cagate degli anni 80.

Oggi, Ani DiFranco ha 38 anni, Ben Folds 42. Non stanno in giro proprio da vent’anni, ma è anche vero che l’accelerazione di informazioni, l’indigestione di novità e di avvicendamenti degli ultimi due decenni (i 90 e gli anni 2000 che ve lo ricorderei, signori, stanno già finendo), hanno bruciato un po’ di tappe e schiacciato un po’ di tempi. E voilà il trucco: Way to normal e Red letter year sono due dischi che suonano sinistramente GIOVANILI, due dischi liftati nei suoni e nelle soluzioni, che vogliono fare dichiaratamente i conti con troppe cose e troppo in fretta e alla fine assomigliano più al carrello della spesa di uno che non ha mai messo piede in un ipermercato (avete presente: whisky, uova, nutella, salsa di soia e filetti di merluzzo, non una cosa che serva a mettere in piedi una cena).
In questo senso, a questi due poveri cristi non gliene posso fare una colpa: ormai sono dei punti di riferimento di un certo tipo di showbusiness, tutti gli vogliono bene e possono anche iniziare a scialare un po’ di occasioni, senza dimenticare il fatto che appunto (vabbé che Ani come dicevamo aveva già dato): un disco completamente fuori dalla realtà più o meno lo fanno tutti a un certo momento (tranne Tom Waits, che magari l’ha anche fatto, ma noi non ce ne siamo accorti), e a noi non rimane altro che aspettare i tempi della maturità che – se dobbiamo leggere nella parabola dei baby boomers un altro presagio – arriverà, prima o poi arriverà, ma con tutta probabilità non in questo scorcio di fine decennio.
Invece sapete qual è un disco veramente bello? Quello dei Calexico. Quello dei BellRays invece no, ma per altri motivi che però adesso non fa niente, magari un’altra volta.



PLAYLIST>
Ramones: Blitzkrieg bop
Stevie Wonder: He's misstra know it all
Bob Dylan & The Band: Yazoo street scandal
The Rolling Stones: Yesterday’s papers
Mudhoney: Inside out over you
Billie Holiday: Until the real thing comes along
Reigning Sound: So easy
Sham 69: I gotta survive
Tom Waits: Big in Japan
Skip James: Hard time killin’ floor blues
Social Distortion: Live before you die
Anti You: Fucked once
Nancy Sinatra: These boots are made for walkin’
Gil Scott-Heron: The train from Washington
Eddie Floyd: Blood is thicker than water
Calexico: Falling from sleeves
Big Bill Broonzy: Joe Turner blues no. 2 (blues of 1890)
D.O.A.: The enemy

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