Sandro Veronesi: Gli sfiorati
Mondadori 2001
l'ho letto, l'ho finito di leggere, gli sfiorati. mi ha ricordato
dürrenmatt. no, no, calma, precisiamo: mi ha ricordato l'esperienza che
ho avuto con dürrenmatt, nel senso che mi avevano detto che faceva
ridere e invece non fa ridere. veronesi qualcuno mi aveva detto - o io
avevo intuito - che era cattivo, e invece non è cattivo per niente.
peccato, perchè me l'ero creduta bene bene.
veronesi è buonissimo, pulito, disegna delle traiettorie niitide, che sai dove vanno a parare perchè naturalmente ha provveduto anche a pulire l'aria con qualche filtro, prima. allora stai col naso per aria a guardare tutte queste scie che si intrecciano, ma solo apparentemente, perchè ognuna ha il suo bravo colore distinto, come le frecce tricolori in una mattinata tersa di gennaio. e lo vedi, che fa veronesi, su di me? mi fa scrivere cose come "tersa", potrei iniziare a odiarlo sul serio.
mète è il ragazzino genio e regolatezza che popola bene o male tutti i "romanzi" (raffaele la capria ha ragione) italiani: profondo, disponibile, estremamente sensibile, un ribollente padellone di buon senso e buone qualità. le ragazze gli vanno dietro, cadono letteramente ai suoi piedi, lui tenta di trovare in loro qualche sollievo, ma sono tutte delle stronze cattivone che mettono in luce il suo lato peggiore, e il santone non vuole. è un vincente, anche nella rinuncia, che affronta con fronte di james dean, con mascella di marlon brando, girovagando per una roma appena uscita viva dagli anni '80, gli anni '80 di chicco della terza c, gli anni '80 di enzo braschi paninaro, e delle care e vecchie emozioni nazional-popolari vomitate da una televisione nazional-popolare. e tutto, bene o male, intorno a lui, ha questa patina di candore al pvc: belinda è la ragazza di cui si innamora in maniera totale, come solo a sedici anni; bruno il migliore amico che tutti ci caghiamo addosso di perdere, sempre a sedici anni.
già, perchè c'è puzza di pubertà, in questo romanzo, puzza di quella pubertà mistificata e rovinata da gente come de carlo, come brizzi. la pubertà puberale, assoluta, fatta di innocenza e sensazione di unicità.
mète si innamora di belinda. fin qui... belinda è la sua sorellastra, per inserire nel racconto un elemento morale da dibattere per trecento e passa pagine, fino alla biscottata finale. mète crede e ci fa credere per tutto il libro che nessuno è mai stato innamorato come lui, che nessuna è bella come belinda, che nessuno è sfortunato come lui. come a sedici anni, di nuovo: uguale. anch'io mi sono innamorato, a sedici anni, e forse in quel momento, spinto da ormoni e respinto da respinte, in queste due forze uguali e contrarie ho cominciato a scrivere. veronesi è andato avanti, a quanto pare, ma si è tenuto dentro questo romanzo di sfogo in cui alla fine l'ha vinta, e come un eroe di de carlo, nonostante questo viene assunto a un livello morale ben superiore di questo: mète diventa saggio, diventa un demiurgo che dall'alto della chiavarella con sua sorellastra, può permettersi di essere punto di riferimento.
tutto questo in una geografia pulitissima, di nuovo: in cui ogni elemento è perfettamente funzionale alla narrazione (il gatto malato, damiano, il malocchio, la puttana strabica, la grafologia, vero tormento di tutto il libro, le filippine), e come quando cade una fetta di pane con la nutella, sappiamo già come e dove cadrà (sul tappeto buono o sulla maglietta bianca, dalla parte della nutella). come in una serie di fiction, ogni personaggio ha il suo posto, e arriva puntuale il momento in cui il narratore si chiede con noi "ma dove avevamo lasciato xxx?" ed ecco che xxx o yyy spuntano, a fornire a mète altri elementi di catarsi morale e spirituale per poter poi diventare robinson crusoe.
veronesi è buonissimo, pulito, disegna delle traiettorie niitide, che sai dove vanno a parare perchè naturalmente ha provveduto anche a pulire l'aria con qualche filtro, prima. allora stai col naso per aria a guardare tutte queste scie che si intrecciano, ma solo apparentemente, perchè ognuna ha il suo bravo colore distinto, come le frecce tricolori in una mattinata tersa di gennaio. e lo vedi, che fa veronesi, su di me? mi fa scrivere cose come "tersa", potrei iniziare a odiarlo sul serio.
mète è il ragazzino genio e regolatezza che popola bene o male tutti i "romanzi" (raffaele la capria ha ragione) italiani: profondo, disponibile, estremamente sensibile, un ribollente padellone di buon senso e buone qualità. le ragazze gli vanno dietro, cadono letteramente ai suoi piedi, lui tenta di trovare in loro qualche sollievo, ma sono tutte delle stronze cattivone che mettono in luce il suo lato peggiore, e il santone non vuole. è un vincente, anche nella rinuncia, che affronta con fronte di james dean, con mascella di marlon brando, girovagando per una roma appena uscita viva dagli anni '80, gli anni '80 di chicco della terza c, gli anni '80 di enzo braschi paninaro, e delle care e vecchie emozioni nazional-popolari vomitate da una televisione nazional-popolare. e tutto, bene o male, intorno a lui, ha questa patina di candore al pvc: belinda è la ragazza di cui si innamora in maniera totale, come solo a sedici anni; bruno il migliore amico che tutti ci caghiamo addosso di perdere, sempre a sedici anni.
già, perchè c'è puzza di pubertà, in questo romanzo, puzza di quella pubertà mistificata e rovinata da gente come de carlo, come brizzi. la pubertà puberale, assoluta, fatta di innocenza e sensazione di unicità.
mète si innamora di belinda. fin qui... belinda è la sua sorellastra, per inserire nel racconto un elemento morale da dibattere per trecento e passa pagine, fino alla biscottata finale. mète crede e ci fa credere per tutto il libro che nessuno è mai stato innamorato come lui, che nessuna è bella come belinda, che nessuno è sfortunato come lui. come a sedici anni, di nuovo: uguale. anch'io mi sono innamorato, a sedici anni, e forse in quel momento, spinto da ormoni e respinto da respinte, in queste due forze uguali e contrarie ho cominciato a scrivere. veronesi è andato avanti, a quanto pare, ma si è tenuto dentro questo romanzo di sfogo in cui alla fine l'ha vinta, e come un eroe di de carlo, nonostante questo viene assunto a un livello morale ben superiore di questo: mète diventa saggio, diventa un demiurgo che dall'alto della chiavarella con sua sorellastra, può permettersi di essere punto di riferimento.
tutto questo in una geografia pulitissima, di nuovo: in cui ogni elemento è perfettamente funzionale alla narrazione (il gatto malato, damiano, il malocchio, la puttana strabica, la grafologia, vero tormento di tutto il libro, le filippine), e come quando cade una fetta di pane con la nutella, sappiamo già come e dove cadrà (sul tappeto buono o sulla maglietta bianca, dalla parte della nutella). come in una serie di fiction, ogni personaggio ha il suo posto, e arriva puntuale il momento in cui il narratore si chiede con noi "ma dove avevamo lasciato xxx?" ed ecco che xxx o yyy spuntano, a fornire a mète altri elementi di catarsi morale e spirituale per poter poi diventare robinson crusoe.
eppure, nonostante questo, ho letto questo libro in meno di una
settimana, restando sveglio per arrivare alla fine del capoverso del
paragrafo del capitolo del libro. perchè non è scritto malissimo,
nonostante il buonismo, nonostante il sorriso un po' ritardato che
stende su tutta la narrazione.
i pessimi momenti:
- la descrizione degli effetti della prima canna (di nuovo sedicennismo)
- la sfuriata di bruno venduto/fighetto, con conseguente riparazione della trama al danno
- il protagonismo di veronesi/mète: io vivo/gli altri sono sfiorati.
- il finale (i finali)
- la radio vaticana durante l'incesto
- tutte le inserzioni musicali, con citazioni di gruppi fatti cadere lì al solo scopo di dimostrare di conoscerne il nome (di nuovo sedicennismo)
- la descrizione degli effetti della prima canna (di nuovo sedicennismo)
- la sfuriata di bruno venduto/fighetto, con conseguente riparazione della trama al danno
- il protagonismo di veronesi/mète: io vivo/gli altri sono sfiorati.
- il finale (i finali)
- la radio vaticana durante l'incesto
- tutte le inserzioni musicali, con citazioni di gruppi fatti cadere lì al solo scopo di dimostrare di conoscerne il nome (di nuovo sedicennismo)
i buoni momenti:
- le prime venticinque/trenta pagine, con i ruolo del narratore a commentare, a riempire gli spazi temporali. dava da sperare bene, sembrava potesse essere un elemento di dis-continuità ottimo all'interno della narrazione. invece no.
- basta. ho guardato il soffito per tre/quattro minuti e non ho trovato nient'altro.
- le prime venticinque/trenta pagine, con i ruolo del narratore a commentare, a riempire gli spazi temporali. dava da sperare bene, sembrava potesse essere un elemento di dis-continuità ottimo all'interno della narrazione. invece no.
- basta. ho guardato il soffito per tre/quattro minuti e non ho trovato nient'altro.
(e questa l'ho scritta nel 2002)
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