Sì, è importante tenere traccia delle cose che si prendono, ma soprattutto delle cose che si lasciano. Questo per due motivi. Abbiamo capito innanzitutto che quello che viene preso viene preso per diversi motivi – ci ho scritto un pezzo apposta, vi prego abbiate pietà e non mi fate riscrivere quelle 10.000 battute. Non tutti i dischi che si prendono sono determinanti, decisivi, importanti. Alcuni sono a mala pena memorabili, relitti che riaffiorano dalle mensole durante le pulizie – cose del genere. Alcuni sono semplicemente CARINI, c’è dentro una canzone niente male e allora dai, perché non tenerseli? Ma per un collezionista – o meglio: un collezionista che punta al numero, uno che preferisce tenere la roba invece che sbarazzarsene – è più indicativo quello che viene scartato rispetto a quello che viene tenuto. È quella la pietra dello scandalo, è quella la pecora nera, ciò che proprio proprio No no, io non ti ci voglio, a te.
Quindi non è a caso che tengo in considerazione ciò che piscio via, ciò che non voglio né sugli scaffali, né nel computer, né – va da sé – nella mia testa. A costo di sembrare un reazionario, un ignorante, un misoneoista o uno ostinato che ormai ha fatto i suoi conti e ha scelto ciò che vuole ciò che no a prescindere.
Che poi dopotutto ci può anche stare: uno per un po’ esplora, allunga le mani dove capita, impara, seleziona i propri gusti e capisce cosa gli piace e poi no. A una certa è possibile che lo stupore si possa un po’ affievolire, o che si inizi a voler approfondire. Oppure è possibile pure che ci siano dei cicli. Ci sono momenti di bulimia (esatto, si assimila un sacco di roba compulsivamente ma la maggior parte finisce nel cesso) e ci sono momenti in cui si preferisce la minestra di mamma, e questo soprattutto le indigestioni (e abbiamo appena dimostrato nuovamente che in questo blog si parla di musica SOLO in termini smaccatamente culinari). Può essere l’una e l’altra cosa o ancora altro, mica è semplice.
Diciamocelo chiaro e tondo: ascoltare musica è complicato. Vuoi perché la proposta è infinita (su internet, sui giornali, per strada, nelle poche stazioni radio che mandano qualcosa di interessante – c’è un sacco di musica in giro, c’è TROPPA musica in giro: siano benedetti i sistemi di riproduzione portatile di qualsivoglia natura che ci tengono lontani dalle scelte altrui), vuoi perché si finisce a valutare ogni uscita: chi l’ha fatto con chi, quando, chi l’ha pubblicato, prodotto, suonato, cosa c’è dentro e come suona; insomma, capire se un disco fa schifo e – soprattutto – se fa schifo perché. Tutto questo perché noi non ci facciamo imboccare dallo showbiz, o almeno non del tutto, vero? Noi non scarichiamo i dischi degli amici perché vogliamo supportare l’underground, noi non compriamo gli mp3 su iTunes perché siamo contro la logica del singolo, noi scegliamo e valutiamo e se occorre (molto spesso) gettiamo palate di merda su questo o quel disco perché vogliamo essere ascoltatori critici, vero? Noi ci TENIAMO, vero? Bravi bambini.
E non si tratta nemmeno adottare una linea à la blowup per cui: Questo disco è un progetto ad alto budget, è orecchiabile ma non folk, si basa sul buon-vecchio-(qualcosa) quindi è merda. Non siamo per forza degli adorniani che sostengono che l’unica musica possibile è una musica di rottura con il contesto attuale perché viviamo in un periodo storico in cui la negazione è l’unica affermazione possibile (questo in soldoni; studenti di filosofia vi prego: non rompetemi i coglioni e rileggetevi il titolo del post).
Cioè: Adorno pure pure ci sta bene. Va bene, benissimo che si apprezzi un gruppo o un artista perché si oppone alla falsa coscienza. Quelli che hanno (o che vorrebbero) la Bandiera Nera tatuata sul braccio destro ce l’hanno (o ce la vorrebbero) perché condividono delle istanze che sono politiche – e quindi culturali. L’hardcore è questo, come lo era stato il punk, come lo era stato il rock’n’roll e il blues: gente che si caca il cazzo dello stato delle cose e invece di tirare le bombe scrive una canzone – finendo così a fare molte più vittime di una bomba di quelle che insomma, esplodono. Ma sto diventando elegiaco, e non sono il Cuoco, quindi accanno.
Insomma, in poche parole è legittimo apprezzare un disco perché convoglia dei valori (testuali o estetici, politici o etici), ma dopotutto qui sempre di roccarolla stiamo parlando, ed è bene non dimenticare che la differenza tra Bob Dylan e Dylan Thomas è la necessità (il desiderio? la voglia?) di INTRATTENERE l’interlocutore, come valore aggiunto all’edificazione o alla comunicazione emotiva.
Jusqu’ici tout va bien.
Quando uscì Drawing restraint #9 frequentavo una ragazza che stava in fissa per Matthew Barney. Io lo trovavo mortale, ma condividevo e alimentavo comunque il suo entusiasmo. Del resto lei studiava (studia tuttora) grafica industriale o pubblicitaria o insomma qualcosa che ha a che fare con il design, per cui non posso affatto biasimare il suo interesse genuino per il lavoro di quest’uomo universalmente considerato il genio della video art e blah blah blah. È anche riuscita a convincermi a vedere con lei un pezzo di Cremaster 3: i quindici minuti più lunghi della mia vita, probabilmente, che superano di gran lunga quella volta in cui rischiavo di farmela sotto nell’autobus – episodio, questo, di cui voi non volete sapere nulla.
Quando uscì Drawing restraint #9, insomma, gli ammiratori di Björk erano in fibrillazione per la sua partecipazione nel film, per non parlare naturalmente dell’uscita imminente della colonna sonora, che puntualmente è stata pubblicata e accolta da un’ovazione incondizionata – e questo perché Björk si è guadagnata col tempo uno zoccolo duro di fans che la osannano a prescindere. Ci mancherebbe, se l’è meritato e guadagnato con dei lavori fantastici e con una cura davvero generosissima nell’allestire gli spettacoli e insomma IO NON STO METTENDO IN DUBBIO CHE LEI SPACCA, OK?
Quello che volevo dire è che io ce l’ho messa tutta: ho ascoltato la colonna sonora di Drawing restraint #9 – o almeno mi sono messo lì di buzzo buono, e ci ho provato – e ne ho concluso che mi facesse cacare. E adesso facciamo un passo indietro.
Adesso che la Cassazione ha detto che le case discografiche devono farsi per legge i cazzi loro, posso essere franco: posseggo solo i primi quattro dischi di Björk in versione originale. È stato il mio modo di premiarla per aver fatto degli ottimi dischi (Debut, Post, Homogenic e Vespertine): li ho ascoltati, li ho apprezzati moltissimo, e solo DOPO ho deciso di darle i miei soldi. Prima no, che io mica sono Babbo Natale.
Del resto, è questa l’etica a cui mi ha abituato (o viziato?) la mia frequentazione dei sotterranei: Mai comprato il disco di un gruppo se il loro concerto – spesso appena conclusosi – non mi era piaciuto; non vedo perché avrei dovuto cambiare atteggiamento con qualcuno che tra l’altro mi chiede più del doppio e comunque i suoi soldi spesso e volentieri se li è portati a casa in anticipo (e non ce lo dimentichiamo mai, questo: comprare un disco è dare dei soldi a qualcuno. Chiediamoceli sempre se se li merita, non soltanto artisticamente).
All’uscita di Vespertine era ovvio che la signorina Gudmundsdottir iniziava a sentire la stretta delle aspettative del mondo pop e ha deciso di dare avvio a un nuovo progetto, meno adatto alle masse e fruibile da un pubblico smaliziato alle avanguardie della world music e della sperimentazione. Bene. È la storia del rock in due parole: è successo ai Beatles, ai Kinks, ai Radiohead, per dirne solo tre (curioso: tutti inglesi – verrebbe da chiedersi se è un caso o sono io che ho la mucca pazza).
Tuttavia la loro ricerca non ha mai messo da parte quello che rimaneva il fondamento: la roccarolla. Dico una cazzata: il White Album è il Bignami del pop fino al 1968. C’è il blues (quello bianco, è chiaro, già abbondantemente sdoganato dagli Stones e edulcorato da questi borghesotti dall’accento cockney usciti dall’Art School), c’è la canzone d’autore, c’è il folk, c’è il Music Hall con cui tutti i gruppi britannici stavano in fissa in quel periodo, c’è la puzza. E c’è pure l’avanguardia concreta/bruitiste Eppure è un disco divertente, assolutamente non faticoso, brillante e – va da sé – fondamentale. Non ce n’è un altro.
Era il 1968, dite? A quel punto erano tutti bboni, dite? Va bene. Allora: saltiamo di 32 anni avanti e prendiamo un altro disco-fenomeno in considerazione. Kid A ha fatto zompare all’aria chiunque non aveva ancora smesso di ascoltare OK Computer anche durante il sonno. È un disco scurissimo, complicato, piuttosto freddino e di non facilissima lettura. Eppure non annoia, non richiede un ascolto “con la testa fra le mani” come diceva Arnold Schönberg, che pure musica facilissima non ha mai fatto. In sintesi: i Radiohead hanno continuato a fare un rock’n’roll, seppure di ricerca, Bjork no.
Il che non toglie un’unghia di valore alla sua musica, se non che NON MI INTERESSA PIU’. Oh.
Insomma, va bene Selmasongs (sì, lo so che uscito prima di Vespertine: seguitemi invece di cavillare), va bene pure Medulla, che dopotutto è sperimentale soprattutto nella forma, ma gli ultimi due dischi di Björk hanno rotto il mio legame con lei – e, francamente, non solo quello. Ora che la naïvéte dei primi lavori è diventata un elemento scontato, spenta la passione in vantaggio di una cerebralità che è diventata evidente solo quando era già eccessiva, i dischi di Björk sono diventati cibo per gente che ascolta solo col cervello – in opposizione al cuore e al culo.
Aoh, alla fine io sono uno che con Zappa ci si è fatto le pippe per anni, eppure perfino lui riusciva a farmi prendere bene i suoi sbrodolamenti intellettuali attraverso l’autoironia e il prendersi poco sul serio (che poi dopotutto era il modo migliore per prendersi sul serio, ma questo è un altro discorso, e tutto sommato è una cosa che all’ascolto dei dischi può anche non trasparire). Riassunto: lui è riuscito a mettermi faccia a faccia con la contemporanea del XX secolo, ma NON ME L’HA FATTO PESARE, perdio.
Ecco dunque il motivo per cui mi sono sbarazzato di Medulla, di Drawing restraint #9, e lo stesso motivo per cui mi sbarazzerò di Volta. Questi dischi NON SONO DIVERTENTI, e sono di conseguenza carenti in un elemento FONDAMENTALE non dico per i parametri della musica rock (sarebbe presuntuoso nonché storicamente falso) ma anche solo per piacermi. Non so, probabilmente sono stati i troppi Sonics ascoltati ultimamente a rovinarmi, o i troppi Black Flag (e ci risiamo), ma non riesco a credere che non si possa essere divertenti (nel senso di entertaining, eh?, che qua nessuno deve fare il clown per il pubblico) anche continuando la propria ricerca, e senza perdere un millimetro di profondità e di spessore. Ci risiamo con Kid A, ma boh, Tom Waits mica è scemo. (Ed ecco finalmente un americano).
E se proprio ve lo devo dire, niente mi leva dalla testa che quella sera, con gli occhi sgranati davanti alle inquadrature perfettamente coreografate, ai colori asettici e ai simboli e ai riferimenti incrociati disseminati da Barney nel suo lavoro, perfino la mia amica studentessa di design si sia onestamente, genuinamente, comprensibilmente, fatta due coglioni così.
playlist>
U2: Acrobat
Tom Waits: I don’t wanna grow up
Tom Waits: Take it with me
Bruce Springsteen: Matamoros bank
Neil Young: Harvest
R.E.M.: New test leper
The Mothers Of Invention: The Orange County lumber truck
Radiohead: Dollars and cents
Kaki King: Doing the wrong thing
Massive Attack: Group four
The Beatles: Michelle
Billie Holiday: The blues are brewin’
The Appleseed Cast: Signal
Robert Johnson: Terraplane blues
Joe Strummer And The Mescaleros: Burnin’ Streets
The Who: My wife
The Detroit Cobras: Boss lady
Jackie Wilson: Soul galore
Ani DiFranco: Educated guess
Ingrid Michaelson: Breakable
Quindi non è a caso che tengo in considerazione ciò che piscio via, ciò che non voglio né sugli scaffali, né nel computer, né – va da sé – nella mia testa. A costo di sembrare un reazionario, un ignorante, un misoneoista o uno ostinato che ormai ha fatto i suoi conti e ha scelto ciò che vuole ciò che no a prescindere.
Che poi dopotutto ci può anche stare: uno per un po’ esplora, allunga le mani dove capita, impara, seleziona i propri gusti e capisce cosa gli piace e poi no. A una certa è possibile che lo stupore si possa un po’ affievolire, o che si inizi a voler approfondire. Oppure è possibile pure che ci siano dei cicli. Ci sono momenti di bulimia (esatto, si assimila un sacco di roba compulsivamente ma la maggior parte finisce nel cesso) e ci sono momenti in cui si preferisce la minestra di mamma, e questo soprattutto le indigestioni (e abbiamo appena dimostrato nuovamente che in questo blog si parla di musica SOLO in termini smaccatamente culinari). Può essere l’una e l’altra cosa o ancora altro, mica è semplice.
Diciamocelo chiaro e tondo: ascoltare musica è complicato. Vuoi perché la proposta è infinita (su internet, sui giornali, per strada, nelle poche stazioni radio che mandano qualcosa di interessante – c’è un sacco di musica in giro, c’è TROPPA musica in giro: siano benedetti i sistemi di riproduzione portatile di qualsivoglia natura che ci tengono lontani dalle scelte altrui), vuoi perché si finisce a valutare ogni uscita: chi l’ha fatto con chi, quando, chi l’ha pubblicato, prodotto, suonato, cosa c’è dentro e come suona; insomma, capire se un disco fa schifo e – soprattutto – se fa schifo perché. Tutto questo perché noi non ci facciamo imboccare dallo showbiz, o almeno non del tutto, vero? Noi non scarichiamo i dischi degli amici perché vogliamo supportare l’underground, noi non compriamo gli mp3 su iTunes perché siamo contro la logica del singolo, noi scegliamo e valutiamo e se occorre (molto spesso) gettiamo palate di merda su questo o quel disco perché vogliamo essere ascoltatori critici, vero? Noi ci TENIAMO, vero? Bravi bambini.
E non si tratta nemmeno adottare una linea à la blowup per cui: Questo disco è un progetto ad alto budget, è orecchiabile ma non folk, si basa sul buon-vecchio-(qualcosa) quindi è merda. Non siamo per forza degli adorniani che sostengono che l’unica musica possibile è una musica di rottura con il contesto attuale perché viviamo in un periodo storico in cui la negazione è l’unica affermazione possibile (questo in soldoni; studenti di filosofia vi prego: non rompetemi i coglioni e rileggetevi il titolo del post).
Cioè: Adorno pure pure ci sta bene. Va bene, benissimo che si apprezzi un gruppo o un artista perché si oppone alla falsa coscienza. Quelli che hanno (o che vorrebbero) la Bandiera Nera tatuata sul braccio destro ce l’hanno (o ce la vorrebbero) perché condividono delle istanze che sono politiche – e quindi culturali. L’hardcore è questo, come lo era stato il punk, come lo era stato il rock’n’roll e il blues: gente che si caca il cazzo dello stato delle cose e invece di tirare le bombe scrive una canzone – finendo così a fare molte più vittime di una bomba di quelle che insomma, esplodono. Ma sto diventando elegiaco, e non sono il Cuoco, quindi accanno.
Insomma, in poche parole è legittimo apprezzare un disco perché convoglia dei valori (testuali o estetici, politici o etici), ma dopotutto qui sempre di roccarolla stiamo parlando, ed è bene non dimenticare che la differenza tra Bob Dylan e Dylan Thomas è la necessità (il desiderio? la voglia?) di INTRATTENERE l’interlocutore, come valore aggiunto all’edificazione o alla comunicazione emotiva.
Jusqu’ici tout va bien.
Quando uscì Drawing restraint #9 frequentavo una ragazza che stava in fissa per Matthew Barney. Io lo trovavo mortale, ma condividevo e alimentavo comunque il suo entusiasmo. Del resto lei studiava (studia tuttora) grafica industriale o pubblicitaria o insomma qualcosa che ha a che fare con il design, per cui non posso affatto biasimare il suo interesse genuino per il lavoro di quest’uomo universalmente considerato il genio della video art e blah blah blah. È anche riuscita a convincermi a vedere con lei un pezzo di Cremaster 3: i quindici minuti più lunghi della mia vita, probabilmente, che superano di gran lunga quella volta in cui rischiavo di farmela sotto nell’autobus – episodio, questo, di cui voi non volete sapere nulla.
Quando uscì Drawing restraint #9, insomma, gli ammiratori di Björk erano in fibrillazione per la sua partecipazione nel film, per non parlare naturalmente dell’uscita imminente della colonna sonora, che puntualmente è stata pubblicata e accolta da un’ovazione incondizionata – e questo perché Björk si è guadagnata col tempo uno zoccolo duro di fans che la osannano a prescindere. Ci mancherebbe, se l’è meritato e guadagnato con dei lavori fantastici e con una cura davvero generosissima nell’allestire gli spettacoli e insomma IO NON STO METTENDO IN DUBBIO CHE LEI SPACCA, OK?
Quello che volevo dire è che io ce l’ho messa tutta: ho ascoltato la colonna sonora di Drawing restraint #9 – o almeno mi sono messo lì di buzzo buono, e ci ho provato – e ne ho concluso che mi facesse cacare. E adesso facciamo un passo indietro.
Adesso che la Cassazione ha detto che le case discografiche devono farsi per legge i cazzi loro, posso essere franco: posseggo solo i primi quattro dischi di Björk in versione originale. È stato il mio modo di premiarla per aver fatto degli ottimi dischi (Debut, Post, Homogenic e Vespertine): li ho ascoltati, li ho apprezzati moltissimo, e solo DOPO ho deciso di darle i miei soldi. Prima no, che io mica sono Babbo Natale.
Del resto, è questa l’etica a cui mi ha abituato (o viziato?) la mia frequentazione dei sotterranei: Mai comprato il disco di un gruppo se il loro concerto – spesso appena conclusosi – non mi era piaciuto; non vedo perché avrei dovuto cambiare atteggiamento con qualcuno che tra l’altro mi chiede più del doppio e comunque i suoi soldi spesso e volentieri se li è portati a casa in anticipo (e non ce lo dimentichiamo mai, questo: comprare un disco è dare dei soldi a qualcuno. Chiediamoceli sempre se se li merita, non soltanto artisticamente).
All’uscita di Vespertine era ovvio che la signorina Gudmundsdottir iniziava a sentire la stretta delle aspettative del mondo pop e ha deciso di dare avvio a un nuovo progetto, meno adatto alle masse e fruibile da un pubblico smaliziato alle avanguardie della world music e della sperimentazione. Bene. È la storia del rock in due parole: è successo ai Beatles, ai Kinks, ai Radiohead, per dirne solo tre (curioso: tutti inglesi – verrebbe da chiedersi se è un caso o sono io che ho la mucca pazza).
Tuttavia la loro ricerca non ha mai messo da parte quello che rimaneva il fondamento: la roccarolla. Dico una cazzata: il White Album è il Bignami del pop fino al 1968. C’è il blues (quello bianco, è chiaro, già abbondantemente sdoganato dagli Stones e edulcorato da questi borghesotti dall’accento cockney usciti dall’Art School), c’è la canzone d’autore, c’è il folk, c’è il Music Hall con cui tutti i gruppi britannici stavano in fissa in quel periodo, c’è la puzza. E c’è pure l’avanguardia concreta/bruitiste Eppure è un disco divertente, assolutamente non faticoso, brillante e – va da sé – fondamentale. Non ce n’è un altro.
Era il 1968, dite? A quel punto erano tutti bboni, dite? Va bene. Allora: saltiamo di 32 anni avanti e prendiamo un altro disco-fenomeno in considerazione. Kid A ha fatto zompare all’aria chiunque non aveva ancora smesso di ascoltare OK Computer anche durante il sonno. È un disco scurissimo, complicato, piuttosto freddino e di non facilissima lettura. Eppure non annoia, non richiede un ascolto “con la testa fra le mani” come diceva Arnold Schönberg, che pure musica facilissima non ha mai fatto. In sintesi: i Radiohead hanno continuato a fare un rock’n’roll, seppure di ricerca, Bjork no.
Il che non toglie un’unghia di valore alla sua musica, se non che NON MI INTERESSA PIU’. Oh.
Insomma, va bene Selmasongs (sì, lo so che uscito prima di Vespertine: seguitemi invece di cavillare), va bene pure Medulla, che dopotutto è sperimentale soprattutto nella forma, ma gli ultimi due dischi di Björk hanno rotto il mio legame con lei – e, francamente, non solo quello. Ora che la naïvéte dei primi lavori è diventata un elemento scontato, spenta la passione in vantaggio di una cerebralità che è diventata evidente solo quando era già eccessiva, i dischi di Björk sono diventati cibo per gente che ascolta solo col cervello – in opposizione al cuore e al culo.
Aoh, alla fine io sono uno che con Zappa ci si è fatto le pippe per anni, eppure perfino lui riusciva a farmi prendere bene i suoi sbrodolamenti intellettuali attraverso l’autoironia e il prendersi poco sul serio (che poi dopotutto era il modo migliore per prendersi sul serio, ma questo è un altro discorso, e tutto sommato è una cosa che all’ascolto dei dischi può anche non trasparire). Riassunto: lui è riuscito a mettermi faccia a faccia con la contemporanea del XX secolo, ma NON ME L’HA FATTO PESARE, perdio.
Ecco dunque il motivo per cui mi sono sbarazzato di Medulla, di Drawing restraint #9, e lo stesso motivo per cui mi sbarazzerò di Volta. Questi dischi NON SONO DIVERTENTI, e sono di conseguenza carenti in un elemento FONDAMENTALE non dico per i parametri della musica rock (sarebbe presuntuoso nonché storicamente falso) ma anche solo per piacermi. Non so, probabilmente sono stati i troppi Sonics ascoltati ultimamente a rovinarmi, o i troppi Black Flag (e ci risiamo), ma non riesco a credere che non si possa essere divertenti (nel senso di entertaining, eh?, che qua nessuno deve fare il clown per il pubblico) anche continuando la propria ricerca, e senza perdere un millimetro di profondità e di spessore. Ci risiamo con Kid A, ma boh, Tom Waits mica è scemo. (Ed ecco finalmente un americano).
E se proprio ve lo devo dire, niente mi leva dalla testa che quella sera, con gli occhi sgranati davanti alle inquadrature perfettamente coreografate, ai colori asettici e ai simboli e ai riferimenti incrociati disseminati da Barney nel suo lavoro, perfino la mia amica studentessa di design si sia onestamente, genuinamente, comprensibilmente, fatta due coglioni così.
playlist>
U2: Acrobat
Tom Waits: I don’t wanna grow up
Tom Waits: Take it with me
Bruce Springsteen: Matamoros bank
Neil Young: Harvest
R.E.M.: New test leper
The Mothers Of Invention: The Orange County lumber truck
Radiohead: Dollars and cents
Kaki King: Doing the wrong thing
Massive Attack: Group four
The Beatles: Michelle
Billie Holiday: The blues are brewin’
The Appleseed Cast: Signal
Robert Johnson: Terraplane blues
Joe Strummer And The Mescaleros: Burnin’ Streets
The Who: My wife
The Detroit Cobras: Boss lady
Jackie Wilson: Soul galore
Ani DiFranco: Educated guess
Ingrid Michaelson: Breakable
2 commenti:
allora probabilmente, anzi sicuramente, io di musica nn ho mai capito un cazzo, ma a me anche i primi dischi di bjork danno quel fastidio profondo che si manifesta con brividini fastidiosi e pruriti sparsi da sfogo nervoso o allergia violenta. aldila' della sperimentazione musicale che magari riconosco e rispetto, la combo voce/suoni/urli incontrollati mi ha sempre sfracassato le palle.
ma il mio intervento nn era relativo a bjork in quanto musicista, bensi a bjork in quanto nana fortunata.
quella quando lavorava con mike patton, si ritrovava in una stanza con mike patton da un lato e mattew barney dall'altro _ li stimero' pure come artisti ma nn è questo il punto, ora _ non è ingiusta la vita? io mi accontenterei anche di mezzo barney (o di patton intero - l'altezza è quella). quella nana malefica colla faccia da nana stronza tutte le fortune lei.
ricordo e ricordo, che balle quel corto, non sembrava neanche corto. ma anche drawing restraint #9 l'ho visto per metà - lo sai il pulp non mi piace. e de lama lamina? SBOCCO.
sai cosa penso degli ultimi due album di bjork? mi fa pensare ai subsonica uheuhehue. gruppo di genere che fa prodotti, non dischi. e lei ormai sforna album come fosse una madre proletaria, che più ne fa meglio è. anche a rischio di vederli morire. (anzi mi sa che nascono morti..)
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