Guardate, forse è ‘sto caldo siculo che praticamente ti spacca il culo anche se ti rinchiudi nel frigo, forse è una vicinanza geografica a terre più radicalmente calde di questa, forse sto invecchiando peggio di quanto credessi ma il disco di questi tuareg sahariani provenienti dal Mali che si fanno chiamare Tinariwen ha timidamente fatto breccia tra i miei stronzissimi padiglioni auricolari. Parliamo di una band che ha, in parte (nel senso di “per alcuni dei suoi componenti”), fatto la gavetta nei campi di addestramento per guerriglieri finanziati da quel matto di Gheddafi invece che nei club turistici del Maghreb, roba da chiodi! Ad ogni modo, non è che ora, come tutti gli ultra-trentenni con un chiassoso background alle spalle, mi sono messo a scoprire l’etnico e ho cominciato a frequentare ascolti radical-chic a base di percussioni, kore e ghironde varie, anche perché di etnico, per la verità, qui ce n’è meno di quanto si dica. Fondamentalmente i Tinariwen sono, come qualcuno ha molto acutamente sintetizzato, una blues band africana. Ora, a voi il blues africano potrà anche scassarvi i coglioni e per lo più condivido con voi tale pelvica devastazione ma questa band è buona. Disegna paesaggi sonori che anche se ci restituiscono l’ardente deserto nordafricano piuttosto che l’umido e asfissiante caldo della Louisiana o il desolato, boccheggiante stato del Mississipi, resta comunque sul pezzo. Il sound è, nella sua normalità, giusto: aspro quanto serve, assennatamente movimentato, aderente con originalità all’iterazione boogie di gente come John Lee Hooker, Junior Kimbrough o. per restare nel Mali, la buon anima di Ali Farka Toure. Le canzoni ti scorrono sotto e ti si palesano come sorprese, all’improvviso; il secondo prima il tuo sacrosanto scetticismo pianta paletti intorno alla tua voglia di farti conquistare ma il secondo dopo, occhio, potresti essere conquistato. A modo suo è un disco che può colpirvi e se riuscite a superare il limite culturale che inficia l’apprezzamento di liriche cantate in una lingua alla quale non siete abituati e con una modalità eterodossa rispetto al canonico accento del sud degli states, credo che potreste apprezzarlo. Giusto per darvi qualche riferimento attinente e mostrarvi ancora una volta quanto sapiente sia nonostante mi ostini ad apparire un meticciato improbabile tra il rustico, il noir e la resistenza Jugoslava, vi aggiungo che il sound è meno elegante del melange jazzato Afrofunkblues – l’asse America-Caraibi-Africa – che è la cifra stilistica di Olu Dara e meno roots – sia nel senso Blues che nel senso africano della parola – del suono di Ali Farka Toure. Si ritaglia un’identità definita all’interno di un contesto in cui è il Nulla (con la maiuscola) a farla da padrone e questa desolazione, questo spazio di solitudine risolve il problema dell’appartenenza al linguaggio del Blues. Per una volta, il riferimento non è totalmente campato in aria: deo (Elvis) gratias! Unica pecca, è troppo lungo. Ma suona piuttosto bene. Non vi cambierà la vita ma vi renderà il caldo meno insopportabile. Allah Akhbar. Sentenza: *** 1\2
1 commento:
"Disegna paesaggi sonori"?
E' il caldo che ti fa dire queste cose, vero?
Con immutato affetto
Nanni
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