28 marzo 2008
e per inciso
lacrime di coccodrillo
Bene, avete fatto benissimo.
Però non potevate non aspettarvi una reazione da parte del gigante ferito. Innanzitutto di sicuro aprire alla pubblicità il catalogo dei Beatles avrà fruttato una quantità folle di soldi sia alla EMI, che da un po' non se la sta passando tanto bene, sia ai possessori delle royalties, cioè - immagino - Ringo (che insomma, non è esattamente il bitol più fortunato del mondo) e Sir Macca (che pure nelle piste sta, dopo che il giudice gli ha ingiunto di pagare il maxidivorzio). Insomma, pecunia non olet, e fin qui, direi che ci siamo.
Lamentarsi e brandire una motivazione di carattere etico perché? Forse che finalmente invece delle canzoni di Tiziano Ferro sentiremo i coattelli adepti di Maria De Filippi canticchiare All together now o Here comes the sun o quello che sarà domani? Ma magara, 'ndo devo firma'?
Semplicemente, basta non accendere la tv, e farsi i cazzacci propri.
C'è sempre la possibilità di scegliere, dopotutto, e non necessariamente quale canale. Anche NESSUN canale, è una scelta.
E che, ve le devo dire io, 'ste cose?
24 marzo 2008
dato che non si può essere sempre prolissi
Giusto per andare in culo a quelli che riescono a sentire le influenze classiche solo nei pipponi progressive dei peggiori anni 70, nelle menate di EL&P e dei King Crimson che fanno tanto intenditore quanto rompicoglioni, una chicca di insospettabile grazia: Boxing, la canzone che conclude il primo disco dei Ben Folds Five, capitanati da quel gran genio di Ben Folds (giustamente), che riesce a scrivere una canzone che come unico e diretto riferimento può avere solo gente come Rimskij-Korsakov. SOPRATTUTTO, è una canzone leggera, meglio: lieve, e dura quattro minuti e quarantacinque secondi. Un'aria cantabile esposta all'inizio, una variazione, e una coda. E poi STOP, CHIUSO, BASTA.
Come questo post.
18 marzo 2008
Se vi dico che non è un brutto film non significa che sia un bel film...
Bellezze mie, la vita mi fa fare strane, entusiasmanti evoluzioni e così mi sono ritrovato a 33 anni a ricominciare da capo, a vivere altrove (con la postilla obbligatoria di tornare), e disporre, a tempo determinato, di un sacco di tempo libero in cui fare il porco comodo mio.
E di porco comodo in porco comodo, me ne sono andato al cinema a vedermi l’ultimo dei fratelli Coen: “Non è un paese per vecchi”.
Magari, vi starete chiedendo se in un delirio di onnipotenza critica, oltre a scrivere malamente di musica sto pensando di diventare un self-made critico cinematografico.
Beh, per tranquillizzarvi vi dico che non ci sto pensando, lo sto facendo.
Primo, perché il cinema è sempre stata fonte di ispirazione per tanta musica che amo; secondo, perché la cucina è una categoria applicabile praticamente a qualunque fattispecie e dunque dichiaro, sotto la mia responsabilità, che “Non è un paese per vecchi” è molto simile alla trippa consumata in un locale elegante: presentata in maniera formalmente impeccabile (e venduta a prezzo esagerato...!) risulta comunque meno appagante di quella surcata e scarpettata (si sta parlando di trippa alla romana of course: di trippa al POMODORO) in una delle poche osterie rimaste. Questo perché alcune cose, per fortuna, necessitano ancora di fede, amore e consonanza d’intendimenti. Cosa cazzo sto dicendo? Vengo al dunque.
Ai fratelli Coen, il film, non gli è riuscito. La cura formale usata nel confezionare la pellicola è ineccepibile; gli attori sono straordinari nell’interpretare il proprio meta-ruolo cioè un concetto,un’idea, che si fa carne e sangue (parecchio); la direzione è ottima; la scelta di fare a meno della colonna sonora forse non è condivisa da tutti ma è comunque una scelta precisa, fatta funzionalmente all’effetto che i Coen desideravano ottenere; la fotografia è molto bella: insomma come diceva il sor marchese, ”...belli i pannelli, belle ‘e cassapanche, bello, bello tutto!” però il film non gli è venuto, stavolta.
La capacità di giocare col surreale, l’immaginifico DIETRO agli eventi dei loro film, la sottigliezza con cui hanno finora gestito i generi riuscendo ad imprimere il proprio marchio su ognuno di essi, in questo frangente, viene meno.
Mi è mancata la capacita di LEGGERE nel film da subito (con gli altri era stato semplice).
Quando, a tre quarti d’ora dall’inizio di un film, cominci a dirti che forse devi fare attenzione al linguaggio meta-testuale o a quello iconico secondo me c’è qualcosa che non torna. O forse mi sto rincoglionendo irreversibilmente.
Quello che penso è che i Coen non la vedano come Cormac mcCarthy, l’ispiratore letterario della pellicola, è qui c’è il fallo.
Lo scrittore Cormac mcCarthy è uno per cui la violenza non è un evento ma una realtà. Nei suoi libri, qualunque nefandezza risulta perfettamente plausibile. È un narratore in grado di discettare senza artifici retorici della “mondezza umana”. I suoi personaggi, che pure non sfuggono all’essere interpretabili come metafore, sono immanenti all’incredibile bruttume di cui si parla: sono lì e adesso e il lettore segue la trama della storia credendole, dall’inizio alla fine.
Nel film dei fratelli Coen sono riproposte la medesima asciutezza e la medesima crudezza ma in modo più sofisticato. Troppo, forse, e così ho finito per non credergli.
È probabile che i Coen non siano poi così bravi a parlare di violenza. Hanno preso l’iconografia di un Western, l’hanno portata ai giorni nostri (più o meno gli ‘80), l’hanno insaporita con lontani accenni di “Tarantinismo” ed infine hanno stufato il tutto con un odore biblico che fa tanto americano e crea le giuste contraddizioni, datosi che di dio, in questa storia sanguinosa, non c’è traccia. Avrebbe dovuto essere fantastico ma non lo è.
Xavier Bardem è un mostro di bravura ma la sua implacabilità lo fa assomigliare più a Rambo che all’individuo freddo, autarchico e determinato che vorrebbe sembrare, e poi quando uno si ricuce da solo una ferita su uno schermo cinematografico, scusatemi, ma a me viene da ridere e in questo film la gente si ricuce di continuo.
Ho letto da qualche parte che questo è un film comico. Questa chiave di lettura si rende possibile solo immaginando il film che ti dice, sornione: ”...RIDI DI QUESTO SE CI RIESCI...” ma a me ‘sta cosa ‘sto film non l’ha detta. Di Tommy Lee Jones si è detto che, in questo film, sembra un avatar possibile del compianto Johnny Cash e il paragone può anche andare, come ho già affermato, la forma è l’aspetto più curato qui dentro ma, a parte che mr. Cash era un musicista combattente e non uno sceriffo scoglionato, in finale, tutta ‘sta forma rompe i coglioni.
Cercherò di essere ulteriormente semplice.
Se avete visto “Gli Spietati” di Clint Eastwood avrete notato come la violenza vera, in realtà, esploda negli ultimi 5 minuti di film. Il resto della pellicola è una preparazione addolorata, ironica e dinamicamente in crescendo verso un’inevitabile carneficina. Tuttavia la durezza e il disprezzo per i sentimentalismi sono motivi percettibili sull’intera striscia di celluloide.
Se vi siete, a suo tempo, innamorati di Sam Peckinpah avrete notato come, nonostante il sangue ad ettolitri che scorre in molti suoi lavori, esiste un QUALCUNO che uccide, un QUALCUNO che è ucciso, un QUALCUNO a cui frega l’una cosa o l’altra, o entrambe. Tutto questo senza che la violenza come leit motiv venga mai messa in discussione.
Quando guardi “Non è un paese per vecchi” se muore qualcuno non frega un cazzo a nessuno nemmeno a te. Non fai il tifo per un personaggio perché non te ne piace nessuno e, a modo loro, sono intercambiabili, è solo la competenza specifica in un campo o nell’altro che li distingue.
DA PAURA ALLORA!!! direte voi. Scusatemi, ma... perché?
Perché l’eventuale possibilità di non schierarvi con nessuno vi eccita tanto ?
Cos’è questo? Voyeurismo? Qualunquismo?
Perché questa impassibilità di fronte all’obbrobrio dovrebbe essere gradevole?
Ma che niente niente siete il genere di persone che quando ci scappa il morto sul raccordo anulare, rallentate per guardare il cadavere, provocate un altro incidente e poi tornate a casa e raccontate tutto durante la cena e poi vi guardate Sanremo come se non fosse successo niente?
Allora forse questo film dovevate dirigerlo voi. I fratelli Coen non hanno la stessa opinione sull’uomo che ha Cormac mcCarthy, non condividono la sua visione della società, non condividono il suo pessimismo e questa cosa SI VEDE. Avrebbe dovuto essere un film spietato come, a suo modo, è stato “L’uomo che non c’era” ma è solo un film in cui si cerca dall’inizio alla fine di rendere meno gratuita possibile la gratuitissima violenza che si vuole esprimere. Ed è allora che si palesano gli artifici con cui questa operazione cerca di riscuotere successo. Due registi eccezionali alle prese con un salto di fede in qualcosa che, culturalmente, non gli appartiene.
Fede, amore e consonanza d’ intendimenti dicevamo: fede nella storia che genera il film, amore verso i contenuti del film, consonanza d’ intendimenti con l’autore del libro da cui il film è tratto. Era difficile per chiunque. È difficile fare un film con le storie di mcCarthy. Tremo al sol pensiero di qualche cineasta che si cimenti con “Meridiano di sangue”.
Ai fratellini rimane il merito di averci provato e di aver confezionato nuovamente un grande prodotto. Consoliamoci con questo, se vogliamo, perché “Non è un paese per vecchi” è solo questo: un grande prodotto. Non un grande film.
Quando sono uscito dal cinematografo, con la netta impressione che qualcosa non avesse funzionato, il pregiudizio positivo che accompagna ogni mia visione di un film dei fratelli Coen (perché MI PIACCIONO MOLTO i loro films), lavorava a pieno regime: doveva essermi piaciuto.
Allora, per essere ANCORA più chiaro vi dirò che non è che faccia cacare, non vi si avvicina nemmeno, al far cacare; semplicemente fallisce nel comunicare le cose per cui è stato girato.
Come certo lo-fi, indugia nell’utilizzo di mezzi economici enormi per ottenere un “effetto modernariato”, qualcosa di autenticamente urticante. E alla fine non urtica.
Per non parlare del fatto che ho ricominciato a sentire la mancanza di Sam Peckinpah...
alla prossima.
Devotamente vostro
il cuoco