7 gennaio 2008

last year's models

Orbene, sono un po’ di mesi che non mi faccio vivo e vi assicuro che ho avuto e ho, i miei buoni motivi per disertare il blog che ho contribuito a fondare: vorrei vedere voi a stare con un figlio in arrivo e un disco in lavorazione (ebbene sì bella gente: il cuoco, oltre a cucinare fa anche i dischi e perché no, i figli. Tie’!).
Ad ogni modo, gli impegni che secondo la stampa nazionale e il senso comune ti rovesciano nell’età adulta mi hanno, per forza di cose, tenuto lontano dalla dilettevole occupazione di “postare” impressioni e stroncature su quanto ha girato sul mio lettore-piatto-piastra-lettore mp3-testa, negli ultimi tempi.
Sempre per ribadire, vorrei vedere voi ad avere la propria compagna gravida e bisognosa di presenza ed attenzioni e decidere di fottersene per parlare dell’ultimo album dei Detroit Cobras o di altri eroi minori.
Tra l’altro la schiera di aderenti alla setta dei critici anti-critica di Molotov Cocktail Party è andata vivacristo ingrossandosi: segno che l’indignazione è ancora un sentimento esperibile, sia pure per una minima quantità di persone.
Veniamo a noi, anzi a me. L’anno passato non è stato particolarmente felice quanto a dischi e dischetti.
La qualità media di quanto esce è quasi sempre buona ma è da un po’ che non esce il DISCO CHE TI CAMBIA LA VITA.
Ovvio, risponderete, la vetustà che s’avanza come l’armata rossa a Berlino rende la tua scorza più dura, la tua attenzione meno attenta, la tua sensibilità meno sensibile. Ovvio, dico pure io ma, dopotutto, credo che la mia scarsa emozionabilità nell’ultimo anno sia dovuta a ragioni più articolate dell’Alzheimer incipiente.

Nel mucchio, tra ciarpame e ciarpame (che c’è chi ciarpame e nun c’ha i denti...) sono spuntate comunque delle cose, canzoni principalmente, che hanno riempito i vuoti, combattuto le paure, nutrito o placato le rabbie accumulatesi nel 2007.
E, visto che siamo in periodo di top five eccovene una plausibile per il sottoscritto, a dimostrarvi che non ho smesso di seguire il mio autoerotismo preferito: la musica.

Grinderman: No pussy Blues
Una canzone che più caustica non si può. Nick Cave manda in cassa integrazione i Bad Seeds e richiama vecchi compari di tossicume e pirateria. Prende il Blues e lo tratta di merda; prende il punk lo strattona, lo gonfia di mazzate e lo riporta a più miti consigli; prende se stesso e si sfotte ma, soprattutto, cosa più importante di altre: si fa crescere un bel paio di baffoni.
Eh sì cari miei perché la musica di Grinderman (o DEI Grinderman) è musica coi baffoni. I BAFFONI! CAPITO! Non i baffi come le camicie di Maurizio Costanzo o le nenie di Concato, I BAFFONI!
Bei baffoni alla tartara da motociclista nazi-fricchettone su consueto, distintissimo, abito gessato: la musica dei Griderman (ho appena deciso che sono una band. Fanculo te e il tuo ego, Nick...).
No pussy Blues è senz’altro una delle canzoni dell’anno; la quintessenza del testo rock’n’roll: io gliela chiedo ma lei non me la dà, io faccio questo e quest’altro ma lei non me la dà. La miglior requisitoria riguardo i mal di testa mestruali-psicosomatici e le manfrine da scarso romanticismo e troppo arrapamento.
Tutto narrato stentoreamente, il brano collassa nel più giusto degli stridori verso la metà (vorrei vedere voi a passare quello che passa il povero io narrante...) e così fu digrignar di denti e ringhiar di visceri.
Bella prova, ironica, divertente e violenta quanto basta per aiutarvi a trovare il serial-killer che alberga in voi.
Caldamente consigliato ai partner di gatte morte e femministe trotskiste.
Una gioia!

Wilco: Impossible Berlin
Scelgo questa canzone più di altre per il suo titolo fascinoso e, se anche parlasse di stronzate, non potrebbe fregarmene di meno.
I Wilco hanno sempre abitato dentro un loft, secondo la critica. Sono sempre stati assimilati ad una scena moderna, pseudo-indie, intelletualoide ed introversa. STRONZATE!
I Wilco hanno sempre vissuto da stagionali, come quelli che raccolgono i pomodori in estate e tagliano legna in inverno.
Vivono in appartamenti di città non troppo grandi, puliti e pieni di supporti audio e strumenti musicali per sei mesi e gli altri sei li spendono vicino a un lago o ad un corso d’acqua in una specie di casa di campagna anch’essa pulita e piena di supporti audio e strumenti.
Sono figli della provincia americana, quella deprimente in cui o suoni o spari ai tuoi colleghi durante la pausa pranzo.
Non sono sofisticati fini dicitori bensì testimoni oculari dell’orrore. L’orrore che evoca il rischio di diventare assicuratore, imprenditore, venditore di pompe idrauliche porta a porta.
I Wilco, è gente che vive per la musica, che capisce il privilegio del poter suonare per vivere e che fino ad oggi, anche con le loro uscite più pallose, hanno sempre avuto grande rispetto per il proprio mestiere.
Quando si riuniscono, la sera, forse fumano canne, di sicuro suonano Gram Parson o Woody Guthrie NON i Tangerine Dream NON LaMonte Young. In macchina è più facile sgamargli un nastro di Beggar’s banquet che non un disco dei Einsturzende Neubauten e lo sapete perché?
Perché sono un gruppo Roots, anche se fanno di tutto per negarlo.
Per questo Sky Blue Sky è un disco della madonna, anzi, il loro lavoro più bello, più disteso, perché ora, finalmente, sono a posto con la loro coscienza.
Sono felice per loro; impossible Berlin o qualunque altro brano, fate voi: il disco è una sciccheria.

Elvis Perkins: the night & the liquor
Questo tizio è nato con la camicia. Porta il nome del re (o comunque, si è ribattezzato come tale) e il cognome di Psyco.
Sì, lo so che il cognome del protagonista era Bates, l’attore però era Anthony PERKINS. Anthony Perkins! Ricordate? Sregolato, matto come un cavallo, drogato quasi sicuramente, sieropositivo. Morto.
E questo tizio ne è stretto parente: il figlio.
Già riuscire ad arrivare alla maggiore età con un padre simile non deve essere stata una passeggiata, riuscire poi a fare musica buona con simili natali, che ti spalancano le porte della notorietà a prescindere dal tuo valore effettivo denota una certa dose di carattere.
Il disco, Ash wednesday, è una delle cose migliori del 2007 nell’ambito folk-rock.
Depresso ma senza autoindulgenze Elvis Perkins è situabile a metà tra il Bruce Springsteen delle Seeger sessions ed il Ben Weaver di Stories under nails. È un disco fatto bene e scritto bene, un po’ troppo lungo ma trattasi pur sempre di esordio.
The night & the liquor subentra quando pensi che l’album abbia terminato le cartucce, situato nel blocco di brani che lo chiudono, risente di un sapore più antico ed affascinante delle altre canzoni.
Suona come una dolente ballad risalente alla guerra di secessione e racconta una storia mesta (ovviamente).
Classicissimo nel come è confezionato dimostra quanto sostengo da sempre: non conta così tanto la stortura che imprimi ad una canzone per conferirle l’originalità quanto più l’intelligenza con cui tramandi un linguaggio già masticato.
Così, The night & the liquor esce fuori dal disco da cui proviene e va a riempirvi una notte di dolente mancanza d’amore, si lamenta insieme a voi e, cosa essenziale, si lascia amare per la sua scarsa novità.
Il brano è ORIGINALE, non nuovo. Non mi sono strappato i capelli di fronte all’inventiva (anche perchè c’ho ben poco da strapparmi....) però ho ammirato il rigore e l’amore con cui questo e non altri folksingers contemporanei aveva scritto il brano.
Una lacrima alcolica sul vostro diario o, se preferite sui vostri pensieri più neri.
Un bellissimo requiem dondolante.

Calexico: Deep down
Quando è uscito Garden ruin sono subito corso a scaricarlo (con la riserva dell’acquisto).
Da sempre adoro e sostengo i Calexico, li considero un pezzo de core, una delle band più interessanti, intelligenti e valide dell’ultimo decennio. I Calexico hanno una sola grande preoccupazione: che quello che stanno facendo sia BELLO.
È talmente difficile trovare un gruppo che ragiona così linearmente e che padroneggia il proprio linguaggio con tanta sapienza ed eleganza che ancora oggi, alcuni loro ascolti, determinano un immediato cambio-mutanda al termine di questa o di quella canzone.
Garden ruin non è il miglior disco che hanno fatto. Risente della voglia di essere pop più di altri ma se il pop fosse sempre così ci metterei la firma.
Deep down è un colpo gobbo. L’hanno piazzata a due passi dalla fine di un disco praticamente privo di singoli (nonostante l’aplomb pop summenzionato) e si configura come miracolo di sintesi. Il giro iniziale di chitarra riesce a rockare senza evocare calzoni di pelle, capelloni e porcherie varie. È un jingle jangle ma anche un riff; è acustico ma anche profondamente elettrico e fa da ricamo persistente al ritornello.
La canzone definisce il suo carattere “stradale” nelle strofe che hanno tiro senza bisogno di essere pestate, Joey Burns canta intimo come sempre ma scommetto che anche dal vivo il suo sussurro sembrerebbe un grido perché l’intera canzone celebra il miracolo della leggerezza mentre ti racconta di una storia drammatica e accorata.
Nel finale, echi ed epiche presenze aleggianti lì, in alto, sopra le tue orecchie ti dicono che i Calexico possono intitolare un brano “Deep down” e suonartelo dall’alto dei cieli.
Praticamente divino.

The Supremes: I need your loving
Sotto casa mia, una domenica al mese si tiene un mercatino di sfizi e cazzate dove puoi trovare tanto di quel ciarpame (che c’è chi ciarpame e nun c’ha i denti. repetita iuvant...) da perderci la testa.
Tra i banchi che espongono, immancabile il “discaro” con dieci cd e seicento vinili. Per lo più monnezza: qualche ristampa anni ’80 degli Stones, tanto inutile jazz senza palle, tanto inutile Prog senza futuro (DEO GRATIAS!), tanti avanzi di Tav Falco e Greg Kihn che se non l’abbiamo voluti negli ultimi 20 anni un motivo ci sarà, no?!?
Ad ogni modo tra il ciaffume sonoro esposto leggo MOTOWN e vedo un vero-originale-unico vinile delle Supremes del ’66 intitolato “The Supremes a-go-go”. Con l’aria del gonzo giovine (giovanile in verità, ma chi se ne accorge...) ed appassionato mi avvicino sanza tradire emozione alcuna e domando a quanto ammonta la gabella.
Il tipo guarda il disco e dopo avermi rifilato un’espressione tipo: “...beh per quello là...” mi apre un bel catalogo per collezionisti e mi comunica un ammontare orientativo di trentacinque euro.
In men che non si dica faccio notare che quel giorno a quell’ora ero l’unico stronzo in grado di capire cosa significasse MOTOWN su un prodotto del ’66 e montandomi un culo bello grosso in faccia gli dico che 25 euri vanno più che bene, chessennò tanto ma chi glielo accatta un girrarrosto delle Supremes.
Stretto alla collottola dalla mia offensiva da pezzente dignitoso e patito, l’esercente cede.
Tre minuti dopo ascoltavo questo ASSOLUTO MIRACOLO DI BELLEZZA E FELICITA’ dall’inizio alla fine con un cannone grosso così tra le labia.
Che vi devo dire?
I need your loving è una delle canzoni più belle, strabilianti e cardiotoniche che abbia mai sentito nella mia vita.
Lo è da sempre. Di due minuti non viene buttato via nulla, e alla fine la rimetti da capo e ancora e ancora e ancora. Prendi la cazzo di puntina del giradischi e la risuoni ancora e ancora e ancora e ogni volta che Diana Ross ti chiede “What? To have all your loving” tu le risponderesti: “gnente bella de’zzio, gnente mettete qua, abbrasate che mo’ ce penza zzio a ’tte...”.
E così mi sono innamorato ancora una volta.
Cosa cazzo volete di più dalla vita, un lucano?

Con fede non praticante
vostro fedelissimo
il cuoco

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