13 gennaio 2008

tenete duro compagni...

...la vittoria è vicina.

ahem... la vittoria è vicina cliccando QUI.

7 gennaio 2008

last year's models

Orbene, sono un po’ di mesi che non mi faccio vivo e vi assicuro che ho avuto e ho, i miei buoni motivi per disertare il blog che ho contribuito a fondare: vorrei vedere voi a stare con un figlio in arrivo e un disco in lavorazione (ebbene sì bella gente: il cuoco, oltre a cucinare fa anche i dischi e perché no, i figli. Tie’!).
Ad ogni modo, gli impegni che secondo la stampa nazionale e il senso comune ti rovesciano nell’età adulta mi hanno, per forza di cose, tenuto lontano dalla dilettevole occupazione di “postare” impressioni e stroncature su quanto ha girato sul mio lettore-piatto-piastra-lettore mp3-testa, negli ultimi tempi.
Sempre per ribadire, vorrei vedere voi ad avere la propria compagna gravida e bisognosa di presenza ed attenzioni e decidere di fottersene per parlare dell’ultimo album dei Detroit Cobras o di altri eroi minori.
Tra l’altro la schiera di aderenti alla setta dei critici anti-critica di Molotov Cocktail Party è andata vivacristo ingrossandosi: segno che l’indignazione è ancora un sentimento esperibile, sia pure per una minima quantità di persone.
Veniamo a noi, anzi a me. L’anno passato non è stato particolarmente felice quanto a dischi e dischetti.
La qualità media di quanto esce è quasi sempre buona ma è da un po’ che non esce il DISCO CHE TI CAMBIA LA VITA.
Ovvio, risponderete, la vetustà che s’avanza come l’armata rossa a Berlino rende la tua scorza più dura, la tua attenzione meno attenta, la tua sensibilità meno sensibile. Ovvio, dico pure io ma, dopotutto, credo che la mia scarsa emozionabilità nell’ultimo anno sia dovuta a ragioni più articolate dell’Alzheimer incipiente.

Nel mucchio, tra ciarpame e ciarpame (che c’è chi ciarpame e nun c’ha i denti...) sono spuntate comunque delle cose, canzoni principalmente, che hanno riempito i vuoti, combattuto le paure, nutrito o placato le rabbie accumulatesi nel 2007.
E, visto che siamo in periodo di top five eccovene una plausibile per il sottoscritto, a dimostrarvi che non ho smesso di seguire il mio autoerotismo preferito: la musica.

Grinderman: No pussy Blues
Una canzone che più caustica non si può. Nick Cave manda in cassa integrazione i Bad Seeds e richiama vecchi compari di tossicume e pirateria. Prende il Blues e lo tratta di merda; prende il punk lo strattona, lo gonfia di mazzate e lo riporta a più miti consigli; prende se stesso e si sfotte ma, soprattutto, cosa più importante di altre: si fa crescere un bel paio di baffoni.
Eh sì cari miei perché la musica di Grinderman (o DEI Grinderman) è musica coi baffoni. I BAFFONI! CAPITO! Non i baffi come le camicie di Maurizio Costanzo o le nenie di Concato, I BAFFONI!
Bei baffoni alla tartara da motociclista nazi-fricchettone su consueto, distintissimo, abito gessato: la musica dei Griderman (ho appena deciso che sono una band. Fanculo te e il tuo ego, Nick...).
No pussy Blues è senz’altro una delle canzoni dell’anno; la quintessenza del testo rock’n’roll: io gliela chiedo ma lei non me la dà, io faccio questo e quest’altro ma lei non me la dà. La miglior requisitoria riguardo i mal di testa mestruali-psicosomatici e le manfrine da scarso romanticismo e troppo arrapamento.
Tutto narrato stentoreamente, il brano collassa nel più giusto degli stridori verso la metà (vorrei vedere voi a passare quello che passa il povero io narrante...) e così fu digrignar di denti e ringhiar di visceri.
Bella prova, ironica, divertente e violenta quanto basta per aiutarvi a trovare il serial-killer che alberga in voi.
Caldamente consigliato ai partner di gatte morte e femministe trotskiste.
Una gioia!

Wilco: Impossible Berlin
Scelgo questa canzone più di altre per il suo titolo fascinoso e, se anche parlasse di stronzate, non potrebbe fregarmene di meno.
I Wilco hanno sempre abitato dentro un loft, secondo la critica. Sono sempre stati assimilati ad una scena moderna, pseudo-indie, intelletualoide ed introversa. STRONZATE!
I Wilco hanno sempre vissuto da stagionali, come quelli che raccolgono i pomodori in estate e tagliano legna in inverno.
Vivono in appartamenti di città non troppo grandi, puliti e pieni di supporti audio e strumenti musicali per sei mesi e gli altri sei li spendono vicino a un lago o ad un corso d’acqua in una specie di casa di campagna anch’essa pulita e piena di supporti audio e strumenti.
Sono figli della provincia americana, quella deprimente in cui o suoni o spari ai tuoi colleghi durante la pausa pranzo.
Non sono sofisticati fini dicitori bensì testimoni oculari dell’orrore. L’orrore che evoca il rischio di diventare assicuratore, imprenditore, venditore di pompe idrauliche porta a porta.
I Wilco, è gente che vive per la musica, che capisce il privilegio del poter suonare per vivere e che fino ad oggi, anche con le loro uscite più pallose, hanno sempre avuto grande rispetto per il proprio mestiere.
Quando si riuniscono, la sera, forse fumano canne, di sicuro suonano Gram Parson o Woody Guthrie NON i Tangerine Dream NON LaMonte Young. In macchina è più facile sgamargli un nastro di Beggar’s banquet che non un disco dei Einsturzende Neubauten e lo sapete perché?
Perché sono un gruppo Roots, anche se fanno di tutto per negarlo.
Per questo Sky Blue Sky è un disco della madonna, anzi, il loro lavoro più bello, più disteso, perché ora, finalmente, sono a posto con la loro coscienza.
Sono felice per loro; impossible Berlin o qualunque altro brano, fate voi: il disco è una sciccheria.

Elvis Perkins: the night & the liquor
Questo tizio è nato con la camicia. Porta il nome del re (o comunque, si è ribattezzato come tale) e il cognome di Psyco.
Sì, lo so che il cognome del protagonista era Bates, l’attore però era Anthony PERKINS. Anthony Perkins! Ricordate? Sregolato, matto come un cavallo, drogato quasi sicuramente, sieropositivo. Morto.
E questo tizio ne è stretto parente: il figlio.
Già riuscire ad arrivare alla maggiore età con un padre simile non deve essere stata una passeggiata, riuscire poi a fare musica buona con simili natali, che ti spalancano le porte della notorietà a prescindere dal tuo valore effettivo denota una certa dose di carattere.
Il disco, Ash wednesday, è una delle cose migliori del 2007 nell’ambito folk-rock.
Depresso ma senza autoindulgenze Elvis Perkins è situabile a metà tra il Bruce Springsteen delle Seeger sessions ed il Ben Weaver di Stories under nails. È un disco fatto bene e scritto bene, un po’ troppo lungo ma trattasi pur sempre di esordio.
The night & the liquor subentra quando pensi che l’album abbia terminato le cartucce, situato nel blocco di brani che lo chiudono, risente di un sapore più antico ed affascinante delle altre canzoni.
Suona come una dolente ballad risalente alla guerra di secessione e racconta una storia mesta (ovviamente).
Classicissimo nel come è confezionato dimostra quanto sostengo da sempre: non conta così tanto la stortura che imprimi ad una canzone per conferirle l’originalità quanto più l’intelligenza con cui tramandi un linguaggio già masticato.
Così, The night & the liquor esce fuori dal disco da cui proviene e va a riempirvi una notte di dolente mancanza d’amore, si lamenta insieme a voi e, cosa essenziale, si lascia amare per la sua scarsa novità.
Il brano è ORIGINALE, non nuovo. Non mi sono strappato i capelli di fronte all’inventiva (anche perchè c’ho ben poco da strapparmi....) però ho ammirato il rigore e l’amore con cui questo e non altri folksingers contemporanei aveva scritto il brano.
Una lacrima alcolica sul vostro diario o, se preferite sui vostri pensieri più neri.
Un bellissimo requiem dondolante.

Calexico: Deep down
Quando è uscito Garden ruin sono subito corso a scaricarlo (con la riserva dell’acquisto).
Da sempre adoro e sostengo i Calexico, li considero un pezzo de core, una delle band più interessanti, intelligenti e valide dell’ultimo decennio. I Calexico hanno una sola grande preoccupazione: che quello che stanno facendo sia BELLO.
È talmente difficile trovare un gruppo che ragiona così linearmente e che padroneggia il proprio linguaggio con tanta sapienza ed eleganza che ancora oggi, alcuni loro ascolti, determinano un immediato cambio-mutanda al termine di questa o di quella canzone.
Garden ruin non è il miglior disco che hanno fatto. Risente della voglia di essere pop più di altri ma se il pop fosse sempre così ci metterei la firma.
Deep down è un colpo gobbo. L’hanno piazzata a due passi dalla fine di un disco praticamente privo di singoli (nonostante l’aplomb pop summenzionato) e si configura come miracolo di sintesi. Il giro iniziale di chitarra riesce a rockare senza evocare calzoni di pelle, capelloni e porcherie varie. È un jingle jangle ma anche un riff; è acustico ma anche profondamente elettrico e fa da ricamo persistente al ritornello.
La canzone definisce il suo carattere “stradale” nelle strofe che hanno tiro senza bisogno di essere pestate, Joey Burns canta intimo come sempre ma scommetto che anche dal vivo il suo sussurro sembrerebbe un grido perché l’intera canzone celebra il miracolo della leggerezza mentre ti racconta di una storia drammatica e accorata.
Nel finale, echi ed epiche presenze aleggianti lì, in alto, sopra le tue orecchie ti dicono che i Calexico possono intitolare un brano “Deep down” e suonartelo dall’alto dei cieli.
Praticamente divino.

The Supremes: I need your loving
Sotto casa mia, una domenica al mese si tiene un mercatino di sfizi e cazzate dove puoi trovare tanto di quel ciarpame (che c’è chi ciarpame e nun c’ha i denti. repetita iuvant...) da perderci la testa.
Tra i banchi che espongono, immancabile il “discaro” con dieci cd e seicento vinili. Per lo più monnezza: qualche ristampa anni ’80 degli Stones, tanto inutile jazz senza palle, tanto inutile Prog senza futuro (DEO GRATIAS!), tanti avanzi di Tav Falco e Greg Kihn che se non l’abbiamo voluti negli ultimi 20 anni un motivo ci sarà, no?!?
Ad ogni modo tra il ciaffume sonoro esposto leggo MOTOWN e vedo un vero-originale-unico vinile delle Supremes del ’66 intitolato “The Supremes a-go-go”. Con l’aria del gonzo giovine (giovanile in verità, ma chi se ne accorge...) ed appassionato mi avvicino sanza tradire emozione alcuna e domando a quanto ammonta la gabella.
Il tipo guarda il disco e dopo avermi rifilato un’espressione tipo: “...beh per quello là...” mi apre un bel catalogo per collezionisti e mi comunica un ammontare orientativo di trentacinque euro.
In men che non si dica faccio notare che quel giorno a quell’ora ero l’unico stronzo in grado di capire cosa significasse MOTOWN su un prodotto del ’66 e montandomi un culo bello grosso in faccia gli dico che 25 euri vanno più che bene, chessennò tanto ma chi glielo accatta un girrarrosto delle Supremes.
Stretto alla collottola dalla mia offensiva da pezzente dignitoso e patito, l’esercente cede.
Tre minuti dopo ascoltavo questo ASSOLUTO MIRACOLO DI BELLEZZA E FELICITA’ dall’inizio alla fine con un cannone grosso così tra le labia.
Che vi devo dire?
I need your loving è una delle canzoni più belle, strabilianti e cardiotoniche che abbia mai sentito nella mia vita.
Lo è da sempre. Di due minuti non viene buttato via nulla, e alla fine la rimetti da capo e ancora e ancora e ancora. Prendi la cazzo di puntina del giradischi e la risuoni ancora e ancora e ancora e ogni volta che Diana Ross ti chiede “What? To have all your loving” tu le risponderesti: “gnente bella de’zzio, gnente mettete qua, abbrasate che mo’ ce penza zzio a ’tte...”.
E così mi sono innamorato ancora una volta.
Cosa cazzo volete di più dalla vita, un lucano?

Con fede non praticante
vostro fedelissimo
il cuoco

decreto di legge numero ventitrè barrato

Il ddl varato quest'oggi riguarda i nomi delle band che si andranno a formare d'ora in poi, di cui vado a specificare nel dettaglio i limiti linguistici e grammaticali.
E' severamente proibito (e punito con ammende fino ad euro 47, lapidazione con cancellini sporchi di gesso e pubblico scherno) chiamare il proprio gruppo con:

- affermazioni (e.g. we are scientists, god is my co-pilot)

- esclamazioni (e.g. oh no! oh my!, panic! at the disco)

- domande (e.g. mister who?, what? where? when?)

- aggettivi possessivi (e.g. my cat is an alien, my awesome mixtape)

- poetici, vagheggianti, sentimentali sostantivi e/o aggettivi (e.g. painting petals on planet ghost, ablaze my sorrow)

- in qualsiasi occasione, non è concesso usare più di tre sostantivi alla volta (e.g. usare più di tre sostantivi alla volta).

si pone qui la proposta di ritornare all'ormai abbandonato uso di nominare la propria band con un solo sostantivo: portiamo ad esempio i beatles, gli animals, i germs, i band, i jam, le supremes. ci basta. non vogliamo sapere nient'altro, ci basta UNA parola, DUE se siete gli hüsker dü. ulteriori eccezioni sono state già accaparrate dai sick of it all, me first and the gimme gimmes, against me! e pochissima altra gente per meriti sul campo; gli statuti speciali sono FINITI, BASTA, NIET, NEIN, NO.

perchè ce ne frega ben poco di quanto estroso sia il nome del vostro gruppo, a noi interessa quello che dite quando suonate.


Playlist>
Burton/Corea/Metheny/Haynes: Like Minds
Buddy Holly: Down The Line

1 gennaio 2008

il re è morto, viva il re

Vabbe' che già seguendo un minimo il blog (voi due o tre poveri cristi) vi sarete fatti un'idea di cosa ci è piaciuto e cosa no, del mare di roba che è uscita in questi ultimi 12 mesi. Sarebbe anche inutile dunque che voi due o tre poveri cristi dobbiate leggere un altro post in cui ci sono scritte cose che sapete già - se non ve le ho dette direttamente di persona - ma (colpo di scena) è anche vero che ci possono essere sorprese all'ultimo minuto.
Sorprese, poi, che possono essere di sicuro dischi usciti da poco (non ci dimentichiamo che a dicembre si concentra più o meno la metà delle uscite discografiche dell'anno, soprattutto quelli pubblicati dalle major moribonde e paracule), ma anche dischi ascoltati da poco, ché uno mica ce la fa a stare appresso a tutto. Io ce la metto tutta a stare dietro alle novità, ai consigli, alle nuove sensazioni del momento, ma se poi mi accorgo che non ho ancora mai sentito un cazzo di Art Tatum, ecco, QUELLO è un problema: non voglio fare la fine di quelli che conoscono tutte le outtakes e tutti i demo dell'ultimo impostore pompato da NME senza sapere da dove questo impostore viene, e soprattutto perché in confronto al suo modello fa immancabilmente VOMITARE. La musica è una faccenda genealogica, e chi sostiene il contrario vada a fare in culo. Voilà.

A differenza di altri, ci limiteremo (o almeno io mi limiterò, questo blog è anarchico, e ognuno fa quel cazzo che vuole e viva Durruti) a indicare solo 5 dischi per questo 2007. Questo per molteplici motivi:
1. siamo froci per High Fidelity e non c'è motivo per cui un mucchio di nerd come noi non dovrebbe pagare tributo a questo feticcio
2. tutto sommato - e non (solo) per fare i disfattisti - non è che questo 2007 abbia proprio brillato per soddisfazioni. se perfino il cuoco minaccia ritorsioni contro Springsteen vuol dire che non è andata troppo bene, e allora più di 5 dischi buoni, degni di finire in una top 5, sfido chiunque a trovarne
3. non c'è un 3: Letterman ti voglio bene.

In ordine sparso (ditemi voi se si possono mettere in graduatoria 5 dischi così)

radiohead: in rainbows
Indipendentemente dall'essere un fan incondizionato dei Radiohead, ci si aspettava un po' tutti che il loro nuovo disco (che tra l'altro vabbé i 3 anni dall'ultimo, ma ci hanno fatto aspettare SEI MESI per farlo uscire) sarebbe stato il disco dell'anno - e per le motivazioni di questo vi rimando al succitato punto 2. In Rainbows è il disco miracolo dei Radiohead, il loro Revolver; anzi, meglio: il loro Rubber Soul. Canzoni efficaci, sintetiche e non necessariamente figlie dello studio di registrazione. Più sobrietà, più concisione e un linguaggio rivoluzionario legato però più alla sostanza che alla forma: le canzoni - che raramente seguono la struttura convenzionale strofa-ritornellox2-bridge-coda - hanno una discorsività più ampia e lineare, piuttosto che circolare, vanno SEMPRE a parare da qualche parte: invece di ripetere gli elementi musicali più efficaci, hanno fatto ricorso alla loro espansione, all'approfondimento, a una sorta di variazione del tema che rende i brani più vari ma mai incoerenti. Appena uscito questo disco si è piazzato al terzo posto subito dopo Kid A e OK Computer, ma oggi, dopo un mese di ascolto praticamente incessante, non è detto che sia inferiore a quello che finora viene considerato il loro capolavoro.
In più, In Rainbows è il miglior disco del 2007 perché è il più grosso dito in culo del music business che si ricordi dai tempi della controversia ASCAP/BMI. I Radiohead hanno usato tutta la loro fama NON per strappare un rinnovo da capogiro alla loro etichetta - o per trovarne una nuova che leccasse loro il culo fino a consumarsi la lingua - ma per dimostrare al mondo intero che dei cravattari cravattati del mondo major ne abbiamo piene le palle e zero bisogno. Ma siccome non mi piace ripetermi (non è vero, lo adoro ma non ho tempo), vi rimando volentieri a un post che ho scritto qualche settimana fa.

anti-you: pig city life
Stesso discorso: qualsiasi disco che abbia in copertina berlusconi col cappio e il muso da porco non può non diventare uno dei miei prediletti. Anche del 7" degli Anti-you ho parlato in abbondanza qualche settimana fa. Oltre alle lodi sperticate che ho affastellato allora al massimo posso consigliarvi di andarveli a vedere dal vivo (possibilmente sotto il palco, così vi arriva anche qualcuno in faccia, cosa che aumenta di gran lunga il divertimenti) e meravigliarvi del fatto che in media gli applausi sono sempre più lunghi delle loro canzoni. Meglio gruppo pancarcor de noantri, senza dubbio.

feist: the reminder
Ecco, forse questa era meno scontata, nel senso che non ne avevo ancora parlato prima, o forse solo in maniera marginale. E se ne avevo parlato, pure, era per elogiare il suo disco precedente e ringraziare chi me lo aveva consigliato. Let it die era stato un disco che seppure inizialmente avevo bollato come fashionista e superficiale, alla fine invece (complici delle melodie davvero infettive) si è rivelato ben pensato, ben scritto, ben prodotto e ben tutto quanto, rimanendo uno dei miei preferiti del duemilaqualcosa in cui è uscito, e in definitiva uno dei dischi che riascolto più spesso con piacere (e considerate che non è una cosa da poco perché passo TROPPO tempo ad ascoltare cose nuove).
The reminder anche: all'inizio mi era sembrato un compendio di quello che piace alle ragazzine (ragazzine maschi e ragazzine femmina, senza distinzione) che leggono Vice e non si perdono una serata del fish-n-chips: occhieggiamenti all'electro-pop degli anni 80, ritmi disco con batterie senza punta, majette a righe, roba del genere. Beninteso, in The reminder tutta questa roba ci sta, ma è funzionale alla riuscita delle canzoni che sono sempre concise, divertenti e appassionanti. Insomma, ancora una volta Feist mi dimostra che avevo torto. Su di lei. Sulle ragazzine (maschi e femmina) del fish-n-chips no.

jesu: conqueror
Anche di questo disco ho parlato a profusione. Molti miei amici dopo aver letto quello che avevo scritto diverso tempo fa non hanno potuto non procurarselo, alcuni rimanendone impressionati e affezionandocisi subito - altri mandandomi a cagare e preoccupandosi per un peggioramento sensibile dei miei gusti musicali. Anche ascoltato dopo mesi dalla fissa iniziale, Conqueror rimane un disco entusiasmante, pieno di idee geniali e di un calore intensissimo - anche se nascosto, questo sì. Certo, dopo tutti questi mesi la produzione smaccatamente metal inizia a mostrare la corda, ma del resto quello sempre Justin Broadrick è, un fondatore dei Napalm Death, uno che poi si è messo a fare pazzie industriali: da gente così il gusto per il suono arriva sempre con beneficio d'inventario. E poi dopotutto sticazzi, perché per sentire (nel senso di to feel, l'italiano purtroppo non ci viene sempre in aiuto quando servirebbe) la candida bellezza di questo disco tocca alzare il volume a palla, e in quel caso il suono diventa una specie di fragoroso sipario che sta tutto intorno, e fa quello che deve fare: aprirsi per farci vedere le cose.
Beninteso, poi di questa cosa di alzare il volume a palla ne parleremo per bene.

U2: the joshua tree (20th anniversary edition)
Ok ok, non rompete i coglioni, lo so benissimo che non è uscito nel 2007 ma vent'anni fa. Tutto sommato - vista la penuria e visto che sì: sono un fan degli U2 - questa riedizione con tanto di b-sides e DVD documentario è una bomba. The joshua tree è uno dei dischi più importanti degli anni 80 - e non solo, diciamocelo: andatemelo a pescare un gruppo che abbia bissato in quel modo il connubio tra un genere morente che avevano inventato e le nuove ispirazioni che hanno vissuto in giro per il mondo. Una specie di Combat rock, insomma, se gli U2 fossero stati un gruppo punk - e soprattutto se i Clash fossero riusciti a fare un BEL disco con Combat rock, invece di rovinarlo perché erano quattro stronzi permalosi, ma questa è un'altra storia e sono sicuro che meglio di me prima o poi il cuoco tira fuori 20.000 battute di fuoco su voi pecioni, sui Clash e su come mediamente non avete mai capito un cazzo del punk. Dicevamo.
Gli U2 sono come i Nirvana o Del Piero: essendo patrimonio comune e qualcosa che bene o male non ha mai rotto le palle a nessuno, tutti sentono la necessità di pisciarci sopra. Negli anni 90 (nei tardi anni 90) sono stati bersagliati dalla stampa e dai nuovi "gruppi famosi" come dei dinosauri, come un gruppo fuori dal tempo, come qualcosa di cui sbarazzarsi. Normale, si tende sempre a cagare sul decennio precedente, salvo poi andarsene in fissa dieci anni dopo (guardate cosa sta succedendo oggi con gli anni 80 e le pettinature e gli stivali col tacco basso e le grafiche fluo: se tra dieci anni torna di moda il mullet di McGyver vi giuro che vi faccio deportare in Ungheria dove quello è l'unico mondo possibile). In più, i cari quattro dubliners ci hanno anche aggiunto del loro sfornando in rapida sequenza un disco di merda e due dischi insipidi, solo qua e là arricchiti da qualche lampo di genio. Ci sta tutto, ci mancherebbe: anche i rolling stones hanno fatto delle santissime stronzate, dopo vent'anni di attività, quindi diamo loro tempo. Mo' sta girando voce che abbiano ricominciato a collaborare con Brian Eno: finalmente un po' di buon senso, che la nonna quando dice Squadra che vince non si cambia non va sempre trattata da rincoglionita.
In ogni caso: The joshua tree che vi piaccia o no rimane uno dei dischi più importanti degli ultimi 20 anni. In più va riconosciuta agli U2 l'onestà commerciale di aver pubblicato solo due greatest hits e un'edizione speciale in ventott'anni di carriera. Il che non rende certo più bello il disco (anche perché non ne ha bisogno) ma testimonia a favore del fatto che questo disco è un documento, che va preservato e trasmesso. E se non vi piace, pazienza, avete sempre il fish-n-chips.