5 marzo 2007

de Mai Una Gioia (ovvero: anatomia di una fissa)

Insomma, se perfino Steven Spielberg gira un film in cui i suoi alieni prediletti portavoce del progresso e del dialogo universale, se anche lui decide di fare un film in cui a un certo punto la Terra viene attaccata a buffo, e solo perché offre una risorsa, allora vuol dire che probabilmente sono rimaste poche carte da giocarsi per avere un po’ di speranza da parte dei media.
Che poi perdio, questi alieni devono anche essere abbastanza male informati per venire a sfruttare un pianeta come la Terra, visto che ormai sappiamo tutti che siamo alla frutta tanto che a questo punto verrebbe anche da chiedersi se vale la pena dare alla luce una nuova generazione che dovrà iniziare ad esercitarsi fin dalle elementari a indossare le maschere in fretta e accucciarsi sotto i banchi SENZA FARE CONFUSIONE.
Insomma, in due parole, ci sentiamo un po’ in pericolo, e in colpa, e in fin di vita con un sacco di rimorsi e insoddisfazioni quando l’ora cruciale arriva, e cazzo se arriva (penitentiagite, a proposito).
Voi potrete anche pensare che questi sono i pensierini del lunedì mattina e che avrei fatto meglio a dormire un altro paio d’ore invece di stare come sto, e tutto questo è anche comprensibile, ma al di là delle interpretazioni particolari sta di fatto che se la musica, il cinema, la letteratura, esprimono sotto pelle lo spirito dei tempi, beh: lo spirito dei tempi non è brillante.
So much for pathos.

Quando è uscito No heroes, io ho detto a Teg, Teg non lo so, questo disco mi sembra un po’ scollato, mi sa che non siamo all’altezza dei due precedenti. Lui mi ha risposto, Che stai dicendo, No heroes è una bomba, più che altro era You fail me che faceva un po’ cacare. E come spesso succede, a me un po’ di tempo ci vuole, ma poi capisco, e se capisco poi ve lo vengo a dire, per cui non vi preoccupate (o fatelo, se preferite).
Dei picchi, ci trovavo, dentro No heroes, e poi dei momenti di smarrimento che non riuscivano a tenermi insieme il disco, perché se c’è una cosa che i Converge hanno imparato a fare, almeno da quando hanno scritto il capolavoro della musica aggressiva degli ultimi quindici anni, è tenere insieme il disco.
Allora portatelo appresso all’Auchan, portatelo appresso dentro il tram, portatelo appresso in macchina per andare e tornare dalle prove, ascoltatelo a casa e dagli tempo – ho pensato – che poi vedi che in qualche modo ti si apre, No heroes. E alla fine, come previsto, No heroes si è aperto, e aveva senso: i momenti di scollamento erano riferimenti imprevedibili, e in definitiva è un bellissimo disco completamente morto.

Perché è questo di cui si parla quando si tratta dei Converge: la loro musica è l’esatta colonna sonora del disastro planetario e universale. Una pura imitazione del suono che fa il mondo quando va a puttane.
Un suono irregolare, aspro e asimmetrico, sapiente di tutto il suo passato come se un software leggesse le pagine di wikipedia TUTTE INSIEME, facendo naturalmente una gran cagnara.
Ma non prendetemi in parola: non sono esattamente i testi il loro punto di forza, o almeno di questo disco in particolare. Almeno negli ultimi due-tre dischi, Jacob Bannon pare che avesse qualcosa da farsi passare, visto che le sue tematiche preferite tendevano ad essere le storie d’amore finite – nello squallore e nel senso di colpa, ma questo mi sa che andava da sé – giudicate spesso con l’indulgenza e la bontà che tipica dello straightedge/jesusfreak comprensivo e autolesionista, che non sbrocca mai ma si immedesima e capisce (e capisce proprio perché si immedesima e mette in conto la fallibilità e la pochezza dell’umano, cosa da non fare mai quando vuoi incazzarti con qualcuno in maniera unilaterale, che è una cosa tanto infantile quanto piena di soddisfazioni, ma non divaghiamo).
In No heroes invece Bannon si fa un po’ più etico – forse anche questo segno dei tempi, o del fatto che sta diventando sempre più un punto di riferimento di tutta una serie di hardcorers emaciati dal cuore tenero (lo so, lo so, è una contraddizione) – e pontifica sulla morale contemporanea, in questo senso appiattendosi su tematiche e formule dell’HC più tradizionale (dio, a un certo punto dice DAVVERO “In a world of enemies I walk alone”, cosa che a occhio e croce deve aver detto chiunque da Jamey Jasta al Bizzuro o a Scott Vogel, o comunque CHIUNQUE da quando l’hardcore moderno è sinonimo di machismo hooligan e metropolitano).

Il motivo per cui i Converge sono diversi – e per la miseria se lo sono: almeno da dopo Jane Doe, che prima erano un po’ troppo nu-metal meets Today is the day per potersi distinguere da ogni altra band al mondo – sta ok nella vocalità di Bannon (che ricorda il rumore di una spugna strizzata – ma, hey: mi PIACE), ok negli arrangiamenti da labirintite, ok nel suono perfettamente originale, ma soprattutto nelle atmosfere, parola abusatissima, motivo per cui adesso approfondiamo.

Kurt Ballou è il chitarrista dei Converge. Evidentemente un mezzo genio perché si è praticamente inventato il gruppo, e deve averlo reinventato quando si è trattato di Jane Doe, poi l’ha mantenuto coerente, riconoscibile, perfettamente originale (facendo coincidere scrittura e suono talmente profondamente che quelli che cercano di suonare come loro te li ciocchi immediatamente).
Ancora oggi non sono in grado di capire – per dirne una – che diavolo di chitarre e amplificatori usi. Si è visto con una Rickenbacker dentro un Orange, con delle robe custom, con delle Tele – dio le abbia sempre in gloria e le preservi dallo scatafascio globale, ché almeno quelli sarebbero oggetti interessante da far ritrovare dagli archeologi e dagli antropologi del futuro – dentro dei Sound City, insomma, lo stato dell’arte, e un gran gusto per il suono: non popolare, ma saggio e lungimirante, il che già solo per questo lo rende uno dei chitarristi migliori in circolazione. E badate che io per chitarristi intendo “gente che suona la chitarra dentro una band”, non i pipparoli olimpionici di cui il mondo non ha bisogno.
In definitiva, è lui il responsabile dell’enorme tetraggine e dell’infinito cordoglio che è elemento fondamentale della musica dei Converge.
Almeno da Jane Doe a questa parte (ma si sarà capito che loro sono diventati quello che sono in quel momento) la musica dei Converge – che è appunto parto di Ballou – è il racconto di una tristezza densa, implacabile, e senza possibilità di redenzione. Tutto questo con accordi complessi, spesso molto dissonanti ma comunque sempre necessari a uno sviluppo tematico all’interno del pezzo (e perfino all’interno dello stesso disco), attraverso dei riff che giocano con la storia del punk e – dài – di un po’ tutto il rock come materia prima, dosando in maniera piuttosto ammiccante i cliché del r’n’r con i tempi impossibili che il suo batterista/fenomeno è ben intenzionato a sottolineare: Ballou è in grado di parlare un linguaggio completamente suo, un linguaggio che articola diverse sfumature della stessa desolazione che informa tutto quanto il progetto Converge.

Scaruffi dice che i Converge sono emocore. Lui potrebbe anche avere ragione, ma dimentica che i generi vanno reinterpretati in maniera storica, per cui se tradizionalmente adesso l’emocore viene associato con i Thursday, è chiaro che i Converge fanno tutta un’altra musica. Per cui ancora una volta rimane aperto l’invito a dedicarsi alla pesca d’altura.
Wikipedia invece dice che sono un gruppo mathcore – lì non mi ci posso arrabbiare perché chi scrive su Wikipedia è in genere una persona generosa e non per forza competente.
Al di là del fatto che non si è ben capito cosa voglia dire questa etichetta (così come non si sa cosa indichino di preciso l’80% dei sottogeneri che terminano con -core), ancora non ci siamo, se per mathcore intendiamo anche gente come i Dillinger Escape Plan o i perdibilissimi Number Twelve Looks Like You. Innanzitutto perché il mathcore sembrerebbe una musica tanto articolata e storta quanto fredda (e daje), e in secondo luogo perché batterista apparte non bisogna essere particolarmente virtuosi per suonare la musica dei Converge.
Certo, bisogna saper contare e sapere sempre dove ci si trova, ma questo è un po’ un requisito fondamentale di tutti i nuovi linguaggi che stanno venendo fuori – a meno che non abbiano un altissimo coefficiente di tupa-tupa ma anche quello non è più così scontato – ma non è quello che fa i Converge, dato che loro stessi preferiscono dire che suonano “musica aggressiva”. Cosa che spesso e volentieri è una cosa che non fa testo perché tutti i gruppi si accompagnano di default a una definizione o specificissima (indella-core?) o vaghissima (aggressive music, appunto) di modo che poi nessuno possa avere nulla da recriminare.
Eppure, da Jane Doe in poi, i Converge hanno dimostrato di poter dare veramente un significato a questo enorme ombrello che questo “genere” permette. Benché strizzate all’osso, mutilate di tutti i passaggi non necessari (spesso anche dei singoli movimenti di battuta inutilizzati, nella scrittura obliqua che ormai è loro marchio di fabbrica) e immerse in un leggero e alienantissimo riverbero (già, lo sanno davvero fare), le canzoni dei Converge sono sempre autosufficienti da un punto di vista tematico, estremamente caratterizzate da un atteggiamento preciso e mai prolisse, anche quando sono estenuanti, lunghe e ripetitive fino alla trance (alla You fail me, per intenderci).
È chiaro che in un ambiente – quello postcore, postpunk, postmetal o quello che vi pare – che lascia molto a desiderare in quanto a intensità, economia, visione musicale d’insieme o senso del sound e dell’arrangiamento, e che al contrario si attiene in maniera islamica ai dettami del genere o peggio: del sottogenere (avete sentito il nuovo Alexisonfire? È tutte queste cose insieme), i Converge, gruppo sapiente e parsimonioso, sono forse l’unico gruppo che vorremo ancora sentire tra dieci anni.
E del resto non stupisce nessuno che siano in giro da così tanto. Che grazie al cielo una delle cose belle di questo grande carrozzone è che i gruppi lerci cadono come mosche.



playlist>
ani difranco: unrequited
cave in: stained silver
regina spektor: lady
motorpsycho: vortex surfer (live)
hüsker dü: broken home, broken heart
tom waits: a good man is hard to find
death from above 1979: black history month
the rolling stones: ruby tuesday
radiohead: (nice dream)
the jesus lizard: churl
heartless bastards: gray
the beatles: i am the walrus
slayer: behind the crooked cross
the clash: remote control
combatwoundedveteran: ecomonic downturn with the kung fu grip

1 commento:

criceto_biturbo ha detto...

continuo a non capire tu cosa abbia contro gli alexisonfire!

sei proprio un autocompiacente, TU!