Il picchiatore giunse una sera a
casa di sua madre. Erano anni che non vi tornava. Portava con sé
solo i suoi vestiti sgualciti e gli acciacchi di una vita di botte.
Stava fermo dietro la porta di casa di sua madre come un conoscente
qualsiasi che, passando da quelle parti, si fosse fermato a vedere se
la vecchia era in casa ma poi, raggiunto da mille scrupoli, si fosse
fermato là, sulla soglia, davanti al campanello. Per salutarla,
avrebbe dovuto bussare ma data l’ora avrebbe disturbato – temeva
– e così restava fermo là, sulla soglia, davanti al campanello.
Con un contegno che forse non si addiceva ad un figlio.
Quando venne dato alle stampe Devils
And Dust (2005) la critica spese tutti gli elogi che aveva per il
singolo omonimo, canzone sulla notte di guardia nel deserto iracheno
dal punto di vista di un soldato, cioè di un figlio di mamma
americano, ma non notò nemmeno la presenza di suo fratello cattivo,
arruolatosi perchè il lavoro era poco e la vita già cara all’epoca:
assolutamente per necessità. Un picchiatore anzi, il, picchiatore.
Bruce Springsteen non ha praticamente
mai celebrato personaggi negativi o neutri. I suoi perdenti sono
stati schiacciati dall’immobilità sociale che è la cifra della
provincia e del sobborgo statunitense ma nel loro complesso sono
personaggi che, almeno interiormente, ricercano una qualche forma di
purezza.
Quando sbuca fuori il picchiatore ci
troviamo in un campo parecchio diverso. E nuovo.
The Hitter è una delle più belle
canzoni in assoluto dell’ uomo del New Jersey ed è invisibile: è
il suo più grande pregio e il segreto del suo fascino
incommensurabile.
Bruce Springsteen primo attore,
protagonista, è un figlio, per l’ennesima volta nella sua
carriera.
Il teatrale vocione dell’incipit è
già un inedito: “Come to the door ma and unlock the chain”,
il tono grosso di un omone un po’ stanco un po’ fatto scemo dalle
mazzate; “I was just passing through and get caught in the
rain”: si scusa, sta piovendo, ha bisogno di un posto e casa
della madre è da quelle parti.
Si scusa. Non deve esserci un gran
rapporto tra i due, lui è un picchiatore, un pugile troppo avanti
con gli anni che ha fatto la sua vita e se ne è fregato di molto ma
non di tutto. Eppure si scusa perchè – e questo è da Bruce –
vuole bene alla sua vecchia. La madre, come concetto, in Springsteen
è sempre una cosa positiva, ma questa volta c’è qualcosa di
diverso: “I was no more than a kid when you put on the Southern
Queen, with the police on my back I fled to New Orleans”.
Per sottrarlo agli sbirri la mamma lo
carica su un battello diretto a New Orleans. In questo modo lo salva,
è vero, ma decide anche il suo destino: il ragazzino combatterà
negli incontri clandestini che si tenevano presso i moli del porto –
fight was my home and blood was my trade – dice
il picchiatore: sua casa è il combattimento, il sangue il suo
commercio.
La mamma non se lo accolla il picchiatore. Non è una cattiva madre,
probabilmente, e il figlio le vuole bene, ma l’unica cosa che ha
saputo fare è levarselo dai coglioni. E lui dovrà cavarsela da
solo, come può.
A questo genere di disperato manca la finalità riscattatoria dei
personaggi di The Ghost of Tom Joad
oppressi dalla grande depressione, dal capitalismo e dai padroni;
d’altra parte è un soggetto troppo “antico” per poter
appartenere al pantheon degli anti eroi di Nebraska che sono tutti
più o meno calati in contesti suburbani fatti di auto usate,
disoccupati sbroccati e amori alienanti vissuti con gli spiccioli che
Mamma America dimentica di raccogliere dagli stabilimenti industriali
in liquidazione.
The Hitter è un disperato a sé e allo stesso tempo uno sfigato tout
court, uno che non ha mai avuto la possibilità di essere altro da
ciò che è stato.
Al fondo il picchiatore non è un criminale, un delinquentello da
strada, ma un rozzo povero di spirito che non si aspetta nessuna
redenzione. Per lui è un problema che non esiste.
Nel corso dell’intero brano si ripercorre la storia di quest’uomo,
dalla sua fuga a New Orleans fino al momento in cui la canzone
avviene e cioè quella particolare sera di pioggia mentre si trova a
passare dalle parti di casa di sua madre.
Madre che non fiata nemmeno: a lei viene chiesto solo di lasciarlo
riposare un attimo prima di riprendere la strada.
Strada che stavolta è la Storia.
Normalmente
in Bruce avviene l’esatto contrario: è la storia che è la strada
perchè è solo in strada che possono svolgersi le storie. Diceva il
boss di qualche anno prima: “Out
in the street i just feel alright”, solo
in strada mi sento bene. Ed è in strada che avviene la redenzione di
Mary e del suo lui in Thunder Road; in strada si gira il musical di
Jungleland, per strada muore The Angel, sono le strade dei
bassifondi, Badlands, la scenografia di tutto Darkness on the edge of
Town.
In The Hitter avviene questa inversione tematica e così l’universo
springsteeniano raggiunge una dimensione storiografica. È il
racconto di un reietto, di un non protagonista e avviene NELLA
storia. Non ci sono strade in questa canzone; solo esterni, al
limite.
La storia si insinua con riferimenti a cose, la Southern Queen è
esistita, anzi, credo esista tutt’ora e a persone, pugili, come
Champion Jack Thompson ovvero Cecil Lewis “Jack” Thompson
(1904-1946) campione dei pesi welter nel 1928 che The Hitter pare
abbia sbattuto al tappeto in un imprecisato campo infangato.
I combattimenti clandestini, il porto, i battelli, i campioni di boxe
sono fotogrammi in seppia dell’immaginario americano, sono un
passato tanto più remoto quanto più elevata è stata la velocità
della storia degli U.S.A. nel secolo scorso. E dunque The Hitter ci
mostra un Bruce Sprigsteen alle prese con qualcosa di diverso dalle
semplici “radici”, si fa antichità lui stesso.
Ancora, la convivenza tra il passato del flashback narrativo del
pugile che rivede la sua vita e il presente di questo soliloquio in
presenza di sua madre rimanda ad un risvolto credo trascurato dai
più.
Chi
ascolta la canzone dà per scontato che la madre del picchiatore
abbia aperto la porta e, fattolo entrare, si sia sorbita tutta ’sta
storia senza fiatare. In realtà, nela variazione armonica (il
bridge), che pur contiene l’unico dettaglio fisico della madre –
i dark eyes
che lo fissano mentre lei ascolta - non ci danno certezze.
“I
asked you for nothing not a kiss, not a smile...”
sembra il genere di frase che dice uno che sta perorando la sua
causa, non uno che sta sbracato su una poltrona a sorseggiare quel
qualcosa di caldo che una madre dovrebbe preparargli in queste
occasioni. Suona un po’ come: “...e forza mà, fammi entrare..”
Perciò
sono giunto alla conclusione che a The Hitter la madre NEMMENO GLI
APRE. E i dark
eyes
il picchiatore può vederli solo attraverso lo spiraglio che lei gli
concede:quello di una porta tenuta da un catenaccio, tra lo stipite e
la porta stessa.
Non è un caso che la canzone termini con il nostro che, lasciata la
madre, recupera l’unica dimensione a lui nota con l’ennesima
scazzottata, l’unico luogo in cui torna ad essere uomo, l’unico
uomo che è riuscito ad essere.
The Hitter, molto più di Devils and Dust è una parabola sul
militare americano.
Molto più elegantemente accede alla Bellezza con la maiuscola per la
scelta di impattare sull’ascoltatore esclusivamente con la
narrazione.
Non a caso il tessuto sonoro – di matrice profondissimamente folk –
è scarnissimo, sommesso più che intimo, elegiaco, definitivo.
È la consapevolezza della maledizione che una guerra ti lascia
dentro.
Il
commercio di sangue del picchiatore è il commercio di sangue del
soldato americano-tipo. Un ragazzino mediamente testa di cazzo, poco
istruito, poco sensibile, spedito ad uccidere con la consapevolezza
di andare a farlo unicamente perchè a casa non c’era altro da
fare. L’esportazione della democrazia non è affar suo e lui lo ha
capito. E sua madre, impotente perché non ha potuto salvarlo da
questo (o non ha voluto), perché non ha potuto preservarlo
dall’arruolamento, non può neanche condividere le vergogne del
figlio – che avrà ucciso forse per non essere ucciso – perché
la vergogna che lei stessa porta dentro è troppo grande.
E così non apre l’uscio.
Il silenzio di The Hitter è desolante, è un colpo di genio, il modo
migliore per far passare il brano inosservato. Stavolta non ci si
rifà a Steinbeck, stavolta lo si diventa.
Nell’incuria più totale The Hitter è e sarà sempre uno dei
capolavori assoluti di Bruce Springsteen, una di quelle canzoni per
le quali varrebbe la pena perdonargli qualunque disco di merda lui
abbia fatto, e che in questi anni non ha certo lesinato.
In seguito, molto più risalto è stato dato ad un altro pezzo su un
combattente, “The Wrestler”, diventato colonna sonora
dell’omonimo film di Darren Aronofsky ma, come il mondo del
wrestling è fatuo e inautentico, così il pugilato, la nobile arte,
è reale e ben più adatto a farsi metafora di un’attualità ancora
attuale e che forse Bruce Sprigsteen depreca più di quanto la sua
funzione di autoelettosi “Cantore degli americani” (ma d’altra
parte se non lo fa lui, chi lo dovrebbe fare?) gli permette di
mostrare.
Qui io ho visto ancora una volta il grande artista.
Nel picchiatore non ho trovato me stesso come altre volte, eppure ho
sentito così vicino il vocione un po’ scazzato, da giuggiolone,
che Sprigsteen sfodera per cantare questo pezzo che, alla fine, non
ho potuto far altro che dare seguito al finale della storia.
Mi sono commosso.
E ho cominciato a pensare di iscrivermi a pre-pugilistica.