Non mi frega un cazzo se stavolta arrivo tardi e c’è già la fila di fissati a strillare al miracolo; non mi frega un cazzo se Alessandro RNR del blog “Addicted to roll” ha già scritto la recensione definitiva di questo disco; non mi frega un cazzo se non l'ho scoperto prima (e, beh, che volete, è un disco uscito a settembre 2008, de ’sti tempi è abbastanza un miracolo che ci sia arrivato in ogni caso); non mi frega, come è mia abitudine, di un cazzo di niente.
Voi adesso aprite il vostro porcellino-riserva segreta di pecunia, quella che sfugge ai consuntivi fatti di bollette, assicurazioni, bolli, rate del mutuo, regalo alla donna e buffi vari, vi recate in un negozio di dischi come si deve e ordinate THE JIM JONES REVUE.Perché? Vi starete chiedendo. La risposta è semplice: perché lo dico io.
Perché, vi aggiungo, se un giorno Ben Folds dovesse svegliarsi e capire che Elton John in fondo è una pippa e si mettesse a suonare come gli Oblivians; se un giorno il reverendo Richard Penniman (che poi sarebbe Little Richard) desiderasse essere, che ne so, gli Stooges; se i Sonics tornassero adolescenti e, magari, negri; se mio nonno potesse avere le famose tre palle che farebbero di lui un flipper e non, appunto, mio nonno: beh, allora tutti quanti ballerebbero, urlerebbero liberati e si accoppierebbero sul pianerottolo, incuranti della signora Alojsi e di tutte le rompicoglioni di turno sul pianerottolo stesso.
Sentire quest’album è piacevole come il vedere lo sbirro che ti pigliava a manganellate finire sotto il defender dei colleghi che con una canna appena requisita accesa tra le dita, giocano all’auto-scontro tra di loro: c’è un che del gusto forte della vendetta.
E già, perché gli anni ’50 finalmente tornano a tutto tondo a riscuotere il guiderdone da troppo tempo versato già agli “intramontabili” ’60 o agli “irripetibili” ’70.
Qui non si tratta di rockabilly revival, nossignori, qui è come se avessero dato fuoco ai Blasters dopo averli impasticcati e li avessero fatti salire su un palco, oggi, col mandato di fare il verso ai Motörhead. Veloci, incazzati, burini all’inverosimile e con abbastanza musica dentro da poterne persino parlare. Ecco finalmente una di quelle cose che, non dico vi debba piacere per forza, ma se non vi viene da ballare e rompere bicchieri almeno un po’ potete dire in giro che avete capito un cazzo della vita.
Vendete la vostra collezione di album di Bonnie ‘Prince’ Billy, tagliatevi quelle cazzo di frangette e quei baffoni da romanzocriminalelaserietv, fateve ’na risata ch’è s’è fatta ora e, invece di andare a eleggere il prossimo segretario della DC... ehm, del PD, andate a comprarvi questo disco.
Verdetto: Un cazzo di disco. ****
Voi adesso aprite il vostro porcellino-riserva segreta di pecunia, quella che sfugge ai consuntivi fatti di bollette, assicurazioni, bolli, rate del mutuo, regalo alla donna e buffi vari, vi recate in un negozio di dischi come si deve e ordinate THE JIM JONES REVUE.Perché? Vi starete chiedendo. La risposta è semplice: perché lo dico io.
Perché, vi aggiungo, se un giorno Ben Folds dovesse svegliarsi e capire che Elton John in fondo è una pippa e si mettesse a suonare come gli Oblivians; se un giorno il reverendo Richard Penniman (che poi sarebbe Little Richard) desiderasse essere, che ne so, gli Stooges; se i Sonics tornassero adolescenti e, magari, negri; se mio nonno potesse avere le famose tre palle che farebbero di lui un flipper e non, appunto, mio nonno: beh, allora tutti quanti ballerebbero, urlerebbero liberati e si accoppierebbero sul pianerottolo, incuranti della signora Alojsi e di tutte le rompicoglioni di turno sul pianerottolo stesso.
Sentire quest’album è piacevole come il vedere lo sbirro che ti pigliava a manganellate finire sotto il defender dei colleghi che con una canna appena requisita accesa tra le dita, giocano all’auto-scontro tra di loro: c’è un che del gusto forte della vendetta.
E già, perché gli anni ’50 finalmente tornano a tutto tondo a riscuotere il guiderdone da troppo tempo versato già agli “intramontabili” ’60 o agli “irripetibili” ’70.
Qui non si tratta di rockabilly revival, nossignori, qui è come se avessero dato fuoco ai Blasters dopo averli impasticcati e li avessero fatti salire su un palco, oggi, col mandato di fare il verso ai Motörhead. Veloci, incazzati, burini all’inverosimile e con abbastanza musica dentro da poterne persino parlare. Ecco finalmente una di quelle cose che, non dico vi debba piacere per forza, ma se non vi viene da ballare e rompere bicchieri almeno un po’ potete dire in giro che avete capito un cazzo della vita.
Vendete la vostra collezione di album di Bonnie ‘Prince’ Billy, tagliatevi quelle cazzo di frangette e quei baffoni da romanzocriminalelaserietv, fateve ’na risata ch’è s’è fatta ora e, invece di andare a eleggere il prossimo segretario della DC... ehm, del PD, andate a comprarvi questo disco.
Verdetto: Un cazzo di disco. ****