31 luglio 2009

Etica (S)ragionata del consumatore di musica Ovvero: Panini con l’affettato e kilobyte per second

Niente.
succede che mentre sto qui ad aspettare che il disco dei Rancid mi si materializzi nel pc, inciampo nelle peggiori paranoie post-moderne
Cioè.
Mi trovo in uno di quei rari momenti nella vita in cui non ho la coscienza annebbiata e sono molto ma molto combattuta: scaricare o non scaricare, questo è il problema.
In questi sporadici momenti di onestà intellettuale sono realmente e profondamente dispiaciuta di sottrarre senza permesso la proprietà intellettuale di altri. Davvero. Più volte nella vita sono stata seriamente tentata di scrivere una lettera di scuse a tutti i presenti nella mia playlist. E magari l’avrei anche fatto se un successivo sprazzo di lucidità non m’avesse detto che poi avrebbero bussato alla porta per arrestarmi.
La verità vera e soggiacente è, sì, che sono profondamente tirchia e troppo pigra nell’animo per andare a comprarmeli, i dischi. Ma al di là delle mie piccolezze di spirito c‘è dell’altro.

Per quanto sia difficile starne lontano, il mainstream mi fa venire la colite. E più di tutto mi innervosisce la gente che si arricchisce con l’arte. Che poi, se uno pensa bene anche questa balla dei diritti d’autore, è evidente: può interessare a Madonna, ma che ci frega a noialtri poveracci?
Ora vi dico una cosa, gente. L’arte non esiste. E’ una stronzata della modernità, inventata per tirarvelo in saccoccia. Pensateci. Cos’ha Michael Bolton che l’idraulico che vi ha raccomodato la lavastoviglie non ha? La risposta è GNENTE, se non giusto la folta chioma bionda. E di sicuro l’idraulico ha saputo rendervi la vita migliore di Michael Bolton, ci butto quello che vi pare.
Non vi fate prendere per il culo, mi raccomando.
L’artigianato è positivismo, l’arte è bugia.
Tutte quelle cose che si dice siano arte, non sono arte ma manco per nulla. Sono robe fatte per vendervi lo scovolino del cesso con sopra i girasoli di Van Gogh, se non ci arrivate da soli ve lo dico io.
E guardate che non lo dico per dire. Prendete l’arte moderna, che è un termine auto esplicativo; un termine tirato fuori dal cilindro per descrivere un ammasso di roba informe della quale dare un giudizio di valore aprioristico è semplicemente improponibile.
Perché l’arte N O N E S I S T E, date retta.
Qualche volta è creatività, altre opera d’ingegno o di studio sofferto. Altre è solamente culo e/o tempismo oppure mera passione. Se non è il caso in cui quella cosa ci riesce meglio che alla media e stop.
E a me di dare soldi a della gente che si spaccia per artista, no, non voglio proprio correre il rischio.
Sicché scarico.

Che poi gente priva di scrupoli e danari come me, in giro ce n’è sempre di più. E allora forse NOI saremo i cavalieri dell’apocalisse, i crisantemi appassiti sulla pietra tombale della musica come la conosciamo.
L’inutilità delle case discografiche. I cd da usare ormai solo come sottobicchieri.
Niente più concept album, tanto l’umanità può sopravvivere in eterno con tutti quelli di Jan Anderson. Finalmente lampante l’inutilità degli sparagiudizi imbucati in riviste pseudo-musicali. Perché tanto ognuno fa quello che gli pare.
Solo e soltanto absolute beginners. Basta artisti, basta gloria terrena o postuma. Solo un sacco di gente che fa qualcosa che gli piace. Che secondo me, quando le cose non le fai per nessun altro motivo se non perché lo vuoi non c’è storia, ti vengono meglio. Fosse per me, estenderei questo sistema al 99 per cento delle cose di questo mondo, tipo che quando chiederesti a una persona chi sei , la seconda cosa che ti direbbe non sarebbe più il lavoro che fa. Però mi rendo conto che questo modo di ragionare è molto mio, ma anche molto naif.
So solo che domenica sera è finita un’era: ho interrotto il mio lungo digiuno da acquirente di musica e devo trovare un senso alle 15 euro che ho speso senza pensarci neanche tanto. E’ stato un attimo: ho ascoltato il concertino di un gruppo e poi ho comprato il disco. Un disco sostanzioso e rustico come un panino alla capaccia, fatto da gente che ce la mette tutta a fare le cose per bene, con criterio e modestia. Fatto sta che il consumo, l’acquisto dico, a volte mi sembrano l’unico gesto politico che veramente ci rimane a questo mondo.
E io lo voglio usare bene, éccheccaàzzo.

27 luglio 2009

dalla nigrizia con stupore

Guardate, forse è ‘sto caldo siculo che praticamente ti spacca il culo anche se ti rinchiudi nel frigo, forse è una vicinanza geografica a terre più radicalmente calde di questa, forse sto invecchiando peggio di quanto credessi ma il disco di questi tuareg sahariani provenienti dal Mali che si fanno chiamare Tinariwen ha timidamente fatto breccia tra i miei stronzissimi padiglioni auricolari. Parliamo di una band che ha, in parte (nel senso di “per alcuni dei suoi componenti”), fatto la gavetta nei campi di addestramento per guerriglieri finanziati da quel matto di Gheddafi invece che nei club turistici del Maghreb, roba da chiodi! Ad ogni modo, non è che ora, come tutti gli ultra-trentenni con un chiassoso background alle spalle, mi sono messo a scoprire l’etnico e ho cominciato a frequentare ascolti radical-chic a base di percussioni, kore e ghironde varie, anche perché di etnico, per la verità, qui ce n’è meno di quanto si dica. Fondamentalmente i Tinariwen sono, come qualcuno ha molto acutamente sintetizzato, una blues band africana. Ora, a voi il blues africano potrà anche scassarvi i coglioni e per lo più condivido con voi tale pelvica devastazione ma questa band è buona. Disegna paesaggi sonori che anche se ci restituiscono l’ardente deserto nordafricano piuttosto che l’umido e asfissiante caldo della Louisiana o il desolato, boccheggiante stato del Mississipi, resta comunque sul pezzo. Il sound è, nella sua normalità, giusto: aspro quanto serve, assennatamente movimentato, aderente con originalità all’iterazione boogie di gente come John Lee Hooker, Junior Kimbrough o. per restare nel Mali, la buon anima di Ali Farka Toure. Le canzoni ti scorrono sotto e ti si palesano come sorprese, all’improvviso; il secondo prima il tuo sacrosanto scetticismo pianta paletti intorno alla tua voglia di farti conquistare ma il secondo dopo, occhio, potresti essere conquistato. A modo suo è un disco che può colpirvi e se riuscite a superare il limite culturale che inficia l’apprezzamento di liriche cantate in una lingua alla quale non siete abituati e con una modalità eterodossa rispetto al canonico accento del sud degli states, credo che potreste apprezzarlo. Giusto per darvi qualche riferimento attinente e mostrarvi ancora una volta quanto sapiente sia nonostante mi ostini ad apparire un meticciato improbabile tra il rustico, il noir e la resistenza Jugoslava, vi aggiungo che il sound è meno elegante del melange jazzato Afrofunkblues – l’asse America-Caraibi-Africa – che è la cifra stilistica di Olu Dara e meno roots – sia nel senso Blues che nel senso africano della parola – del suono di Ali Farka Toure. Si ritaglia un’identità definita all’interno di un contesto in cui è il Nulla (con la maiuscola) a farla da padrone e questa desolazione, questo spazio di solitudine risolve il problema dell’appartenenza al linguaggio del Blues. Per una volta, il riferimento non è totalmente campato in aria: deo (Elvis) gratias! Unica pecca, è troppo lungo. Ma suona piuttosto bene. Non vi cambierà la vita ma vi renderà il caldo meno insopportabile. Allah Akhbar. Sentenza: *** 1\2

18 luglio 2009

Parallelismo socio-musicale protofemminista che si risolve in retta sghemba (Sottotitolo: Femminismo e Fastidio)

Dunque. Il punto è questo.
La musica, ad ogni suo livello, è una delle tante cose di questo mondo che chi comanda sono i maschi e non mi venite a dire che no perché tanto non vi prendo in considerazione.

In particolare, la donna che nel buio della sua stanzetta ascolta le robe più svariate, difficilmente trova il suo posto nel mondo. O, in ogni caso, un posto popolato da gente disposta a scambiare opinioni con lei in merito.
Fondamentalmente, l’essere umano cromosomicamente XX si pone all’ultimo gradino della piramide alimentare in fatto di musica: non è preda ne’ predatore, semplicemente micelio.
Che si tratti di produttore o di consumatore, il risultato non cambia.In ambito di fruitore finale, alla base della piramide stanno i maschi alfa-dominante; quelli che s’intendono di musica e appena possono si lanciano in estenuanti discussioni su di essa (o sulla loro opinione in merito, non l’ho ancora capito). Si aggirano in branchi più o meno numerosi formando occasionali capannelli con l’aria che ce l’hanno solo loro. E sto parlando della discografia completa dei R.E.M. (ogni riferimento a fatti e persone ecc ecc). In tali circostanze l’essere umano di genere femminile avrebbe scarsa possibilità di essere preso in considerazione anche se si mettesse a ballare la lapdance. In ogni caso, la ragione etologica di tale comportamento non è da attribuirsi alla completa estraneità della femmina della specie rispetto all’argomento anche se c’è da dire che, a livello evolutivo, la sua del tutto superflua opinione fa la fine della primordiale coda. Praticamente ce ne rimane appena un mozzicone.
È quando si parla di mondo della musica al femminile, invece, che la lapdance sembra ormai essere diventata un aspetto cruciale.
Ora. Vorrei davvero continuare col piglio serio e scientifico di cui sopra sulla francamente fastidiosa quantità di testosterone che si respira nell’ambiente di chi fa musica, ma non credo di avere sufficienti dati empirici a riprova, quanto piuttosto un prurito a fior di pelle tipo herpes. Volendo essere ragionevoli può essere che la storia della musica sia stata piena di uomini rompicoglioni come Phil Spector che, per ragionar in punta d’uccello, non si son fatti un problema a rovinar cose meravigliose. Può essere. Solo che mi sfugge quel passaggio per cui la musica pop fatta dalle donne è diventata una questione di chiappe e cazzutaggine. Nel senso che per fare musica oggi devi apparire A) stronzissima fino alla ripugnanza e B) più ignuda possibile.
No, perché ora vi dico la verità.
Ho scritto tutto ‘sto affare perché mi rode il sedere d’aver perso un mese a scaricare l’album nuovo di PJ Harvey. E non è che me l’aveva ordinato il dottore, solo che avevo voglia di ascoltare una donna bravina, originale sopra la media e della cui biancheria intima ignoravo la marca. Ma soprattutto donna. E nemmeno mi rode perché mi ci è voluto un mese. Mi rode perché l’ho ascoltato, il disco, e subito dopo m’è venuta voglia di morire. Anzi no, d’essere già morta e sepolta. C’è chi la chiamerebbe capacità evocativa dell’artista. Io le chiamo du’ palle.
Donne, parliamone.
La vita nostra non può essere solo mostrare agli uomini B) le chiappe che sballonzolano, A) che siamo brave, cazzutissime e che il prossimo passo dell’evoluzione della specie sarà che ci spunta il pisello pure a noi.
E, attenzione donne, l’esperienza di PJ parla chiaro: la Terza Via non è non lavarsi i capelli per sei mesi e nemmeno scrivere un diario sulle proprie sfighe (nel suo caso, una discografia completa). Guardate, donne, ché son 50 anni e passa che i maschi fanno della musica quello che vogliono e senza neppure tanti scrupoli. C’è persino un cretino che ha scritto una canzone su un paio di scarpe di camoscio blu… oh, però almeno lì ti diverti! È che ci sottovalutiamo, donne. Se il mondo si aspetta da voi abbastanza creatività da non-far-bruciare-il-sugo-mentre-stirate-nel-frattempo-che-minacciate-di-morte-chi-non-toglie-i-fazzoletti-di-carta-dalle-tasche-prima-del-bucato, perché mai non dovreste riuscire a fare un bel disco come lo volete voi. E soprattutto: se il mondo si aspetta da voi tutto questo, secondo me l’ultima cosa che vi ci vuole sono i guaiti (ma anche grugniti, perché no) di PJ.
La morale terra terra di questo post, comunque, è che se mi ricresce la coda a breve (e se non dovrò passare sul cadavere di cane del il cuoco) saprò presto blaterare sul nuovo disco dei Rancid.

15 luglio 2009

Troppo martini a stomaco vuoto (dove ci si loda e ci s’imbroda perché ce n’era la voglia)

Allora, io questa sera avevo tutt’altre intenzioni: avevo messo a letto l’erede e con sommo disprezzo del pericolo avevo intessuto un lungo di rituale di accoppiamento col martini – che non è come una bella signora ma dà le sue soddisfazioni – e stavo per arrivare, in ascetico digiuno, a guardarmi Totò e Carolina, solo per il gusto di vedere un film che fu censurato dalla commissione presieduta da Andreotti, a stomaco vuoto che, strano a dirsi, non c’ho fame per un cazzo.
Come spesso avviene, il mio ditino clicca inopinatamente sul tasto sinistro del mouse quando la freccetta è in sosta sul link del sito di Repubblica.
Scorrendo con tedio le varie stronzate che costituiscono il bagaglio di una testata talmente desiderosa di farsi “voce democratica” da essere noiosa come il sabato fascista, finisco sul link di XL – estensione musicale e di costume della suddetta testata – che in copertina presenta una sparata agiografica per Manuel Agnelli e gli Afterhours presentati al lettore come esempio della “valida scena indipendente italiana più o meno ostracizzata dalle major ma che spigne all’estero...”. E giù via con una sfilza di nomi che vanno da Cesare Basile e passano per i Baustelle o i Subsonica o altri ameni musicanti di questa nostra sventurata nazione.
E poi giù un’altra volta, questa volta per voce di Manuel Agnelli, con una sparata sulla cecità delle major e delle testate giornalistiche che prima di pronunciarsi su qualcosa consultano i numeri, le cifre e poi scrivono. E ancora giù co’ ‘ste cazzate del “fare informazione piuttosto che del fare cultura” e di quanto l’italia sia un paese sottosviluppato per cultura musicale e per tutto e blah blah blah blah...
Ad avvalorare il tutto v’erano poi altri link parecchio irritanti in cui, udite udite, vasco rossi e ligabove (si notino le minuscole) quasi quasi si scusavano per il fatto di onorare un contratto ancora valido e da loro non rescisso (e volevo pure vede...) e sparavano a zero sulle etichette, tutti pronti a tirare fuori i Radiohead come esempio fulgido di indipendenza e di lungimiranza comunicativa, e pontificavano sul fatto che la crisi è nel supporto e non nella musica.
Non pago della tortura già ricevuta e sempre per un beneficio del dubbio forse più benevolo del solito a causa del martini, me ne vo per la rete alla ricerca di tracce degli Afterhours, di cui trovo un brano intitolato “il paese è reale” che credo abbia concorso a sanremo e poi incappo in tale The Niro il quale è di Roma come me e come me o cane o altri diecimila scrive in albionico ma ha successo, lui.
Che devo dire, non so, mi sono detto che ero dentro un paradosso e nel dubbio – come ogni volta che ho un dubbio – ho iniziato a bestemmiare sommessamente, come un sisma che sta arrivando.
Ma che vogliono questi? Ma che dicono?
Quando erano indipendenti si cacavano addosso dalla voglia di essere presi da una major e poi, dopo che questa gli ha insegnato come essere dei maledetti, dei ribelli VENDIBILI, sparano sul quartier generale come se glielo avesse detto il presidente Mao in persona.
Ma che vogliono? Ma, soprattutto, chi si credono di essere?
A me sembrano, a me sembrano, come dire... Ecco! A me sembrano il PD!
Pieno di alternativi ma col buon senso, pieno di ribelli ma senza rabbia vera, pieno di democrazia da rivistine benpensanti. Mi fanno impazzire questi che, arrivati alla soglia dei quaranta, dei cinquanta, dei cinquanta e rotti scoprono il “sistema” e scoprono che gli sta sul cazzo: bella mossa, davvero, originale, cioè ovviamente fare queste affermazioni su un inserto a tiratura nazionale non ha nulla a che spartire con una cosa come, che ne so, la PROMOZIONE o la PUBBLICITÀ vero, avanguardie rivoluzionarie dei miei genitali sudati nel torrido meriggio siculo?
Voglio dire, la crisi dei quaranta o, che ne so, la prostata, non costituiscono il sostrato emotivo delle vostre esternazioni libertarie e ribellistiche, VERO?
Io, nel dubbio, lo dico: ANNATEVENE AFFANCULO!!!
No: mica per altro, semplicemente perché il sottoscritto, cane, valerione, nanni e altri splendidi eroi e compagni di sbronze mentre voi vi appisolavate nel bus da paura affittato per il tour statunitense respiravano merda nelle loro automobili a gpl e, se la serata era di quelle buone, ascelle e fiati etilici sul palco, vicino al palco, nel backstage (quando c’era) e fuori dal locale-spazio-posto dove avevano suonato. E quindi com’è la storia? Voi siete gli indipendenti e noi gli sfigati ?
ANNATEVENE AFFANCULO!!! Voi sputate in faccia alle major e noi rosichiamo? Non è così, dunque, ANNATEVENE AFFANCULO !!!
Con quello che di veramente indipendente, indipendente nel senso che non gliene frega una sega delle major, dei grandi canali di informazione e di tutto il resto, solo a Roma ci si può riempire un elenco telefonico, ci si fa le pagine utili. E molti di noi ci sono stati lo stesso in America, in Russia, in U.R.S.S., in Germania, nella perfida Albione senza tutte ’ste pippe, quindi Manuel Agnelli, Vasco Rossi e compari ANNATEVENE AFFANCULO!!!
Agli indipendenti, ai, perché no, autonomi (licenza poetica) ’ste storie non hanno mai interessato, sono rimasti a stomaco vuoto e hanno continuato a mantenere i loro impieghi perché la musica non ingrassa né loro né i loro figli e tutta la vita è un combattimento contro amplificazioni di merda, locali semideserti, esercenti rottinculo, strumenti di quart’ordine, bollette, multe, affitti, conflitti d’interesse con le consorti, i fidanzati, le fidanzate, i suoceri, le madri, i padri, i rimorsi per aver mollato l’università, il rimorso per aver desiderato e per desiderare ancora la stessa cosa: SUONARE !
E con questo rimorso, ammesso che sia tale, ci si vive da paura, ci si sente liberi, ci si sente uomini e quando arriva uno di voi santarellini col naso zozzo di coca a fare la predica l’unica risposta è ANNATEVENE AFFANCULO, quindi, di grazia, fatelo.
Perché poi, alla fine della fiera, me la sono sentita la roba degli Afterhours e di The Niro, bravi bravi ma, per parafrasare Sam Phillips quando Johnny Cash andò alla Sun per registrare brani gospel: ”NON VI CREDO”. Johnny Cash, lì per lì, riuscì a tirare fuori Folsom prison blues, voi cosa tirerete fuori, il 740?
Bravi bravi, mentre scimmiottate la star inglese o il cantautore scandinavo ma in finale io vi leggo dentro: voi avete il culo ampiamente coperto e forse lo avevate anche prima della notorietà. Come dire? Ancora co’ ’sta solfa veterocomunista del figlio di papà?
Sìììììììììììììì!!!
Adoro quella roba. Tra l’altro, spesso, è più vera di quanto ci si aspetti e dunque, bravi, bravi, belle le chitarre, l’immagine, il trucco, il sound, bello tutto ma non serve. Un giorno sarete passati e niente, ripeto, NIENTE, nessun trucco, nessuna nostalgia, nessuna retrospettiva vi resusciterà. Inutili come fotografie del vostro presente; inutili come digestivo tradizionale ad un indigeribile futuro.
La musica non ha bisogno di supporti, né del mercato, né di voi, fondamentalmente è tradizione orale, tramandata nei modi più strani, passata di mano in mano, attraverso canzoni insegnate, sessions consumate in casa sui resti della gricia, concerti incontrati per sbaglio e sogni, infiniti sogni ad occhi aperti, fatti mentre Sam Cooke smuove i culi dell’empireo tutto. A tutti piace entrare in “un mercato”, per carità, semplicemente, l’indipendente, se non ci riesce, continua a suonare lo stesso, perché non ne può fare a meno.
E poi, in finale, a Manuè, sempre Agnelli fai de cognome, vedi d’annàttene...

Bone cose.



Playlist>
Quincy Jones: You’ve got it bad, girl (***)
Talk Talk: Spirit of eden (****) (hanx dog)
The Human Beinz: Nobody but me (****)
Various Artists: The best of Loma records (****)

14 luglio 2009

Ramones: Road to ruin (Sire - 1978)

Si sente che gli anni 70 o meglio la fine degli anni 70, insomma: si vede che il 77 sta finendo come l'estate che quando finisce uno è un po' triste un po' no come quando finisce una lunghissima festa o come quando per esempio finiscono i vent'anni: sai che forse il meglio è passato, ma almeno si inizia a fare sul serio. E insomma le chitarre elettriche per incominciare per una volta possiamo anche metterle un po' più dietro e dichiarare in maniera anche sonora l'amore per gli anni 50 e per le melodie teenyboppers e doowop e chewinggum e tutte queste cose di serie Z; anzi sapete cosa farebbe veramente RIDERE? Che a questo punto noi questi cazzo di anni 50 ABBRACCIAMO una volta per TUTTE, finiamo per tuffarcici DENTRO. Tipo farci produrre il disco prossimo da che ne so, Phil Spector. Ha. Hahaha. Gabba gabba hey. Ha ha. Ha ha. Che gag.
Sentenza: ****

9 luglio 2009

Ben Kweller: Sha sha (ATO - 2002)

Grazie Ben Kweller, enfant prodige dell'alt-pop ammeregàno, per avermi scritto e registrato a ventun anni un bignami dell'alt-pop ammeregano condito di Ben Folds, Weezer e una spruzzatina di Gomez. Il tuo disco è godibile per chi ancora non è addentrato all'idea che il pop non è sempre melenso e non è sempre scontato e non è per forza scritto in maniera sciatta su hook ripetitivi e trite accessibilità ed è un ottimo biglietto da visita per un'Americana scanzonata e non per forza bifolca. Grazie Ben Kweller ma io ho GIA' ascoltato Ben Folds e Weezer e Gomez e di conseguenza il tuo riassuntino mi risulta un po' superfluo, quindi due stellette per te, e la prossima volta, se vuoi un consiglio, non iniziare a scrivere subito dopo aver sentito un disco che ti piace, che di fessi come me il mondo è già pieno e onestamente rosichiamo un po' tutti se a te ti pubblicano il disco e a noi no.
Sentenza: **

8 luglio 2009

Giuseppe Berto: Il male oscuro

ice pure berto nella postfazione lui non sapeva proprio niente quando ha scritto questo libro ha portato una bozza da un suo amico critico perché aveva sentito dire che c'era joyce che poteva incombere e non è così perché nonostante questo libro abbia come spina dorsale l'asse freud-svevo-joyce è qualcosa di profondamente diver 

mpre il pericolo che un libro scritto praticamente senza punteggiatura sia un libro in cui l'autore non fa altro che parlarsi addosso e quindi pensi la sua storia nel raccontarla e dopo aver letto un milione di questi stronzi giovani scrittori italiani e non che pensano che basta scrivere scrivere e basta probabilmente facendo affidamento sul fatto che un editore guarda 500 pagine e pensa che devono essere belle per forza anche perché non ha voglia di leggerle dopo aver letto un milione di questi stronzi è stato sorprendente leggere un libro scritto a questo modo in cui l'autore sa SEMPRE ESATTAMENTE cosa ti sta dicendo e perché e non si dilunghi in derive manieris 

re male lui sta male non capisce che cos'è che lo prende quando sta male nella postfazione parla di un conflitto interiore mal placato e aggravato da "madornali errori clini" dice una cosa del genere ma a stare male è evidente che non sta male solo lui ed è per QUESTO che questo libro è geniale sono tutti a stare male perché l'italia è uscita distrutta dalla guerra eppure ha motivi di sperare che le cose possano andare meglio ha alle spalle un dramma e davanti il mondo moderno che anche attraverso la cultura dei nuovi colonizzatori è un mondo di nevrosi e mali oscuri ed è questo che berto non capisce come fa lui a stare male se ha fatto la guerra se aveva il padre carabiniere suo padre non aveva motivi di stare male non aveva tempo di stare male la depressione la nevrosi sono roba per ricchi borghesi completamente sconosciuta al mondo contadino o rurale o paesano da cui proviene e da cui fondamentalmente proviene tutta l'ita 

vorare a fondo per trovare una spiegazione e alla fine la spiegazione la trova tanto che per farci pace deve ritirarsi in solitudine e riprendere il contatto con suo padre e con il mondo che lo rappresentava e in cui agiva bisogna fare pace col passato per poter affrontare il futuro questo è il messaggio di berto e questo è il messaggio del libro che checché ne dica lui E' un romanzo neorealista però scritto col piglio dei minimalisti che però sarebbero venuti troppo più tardi e troppo più numero