Ve lo dico io perché In Rainbows è il disco più importante degli ultimi dieci anni. Sette, anzi. Primo, perché abbiamo dovuto aspettare sette anni (da Kid A, per intenderci) per ascoltare una sintesi così elegante ed equilibrata di pop, sperimentazione, azzardo e tradizione. Ma per questo basta capirci un minimo di musica e dare un’ascoltata anche veloce al disco per capire che c’è dentro qualcosa di miracoloso che conferma i Radiohead tra i più grandi gruppi di tutti i tempi. E questo perché hanno capito la lezione di tutti i migliori (i Beatles e gli anni 60 ma non le fesserie hippie, gli U2 e gli anni 80 ma non la wave a righine da Circolo degli Artisti, i Pink Floyd ma non la spocchia e gli stronzi assoli di chitarra, l’elettronica ma non la masturbazione punta e clicca) e l’hanno rimescolata in maniera sapiente, autosufficiente (non c’è bisogno di conoscere i modelli per apprezzare la grandezza il risultato finale) e soprattutto accessibile a TUTTI i livelli.
Ma c’è di più.
In Rainbows è il disco più importante degli ultimi dieci (ok, sette) anni perché è facile pensare che sia il disco più venduto di tutti i tempi che non sia mai stato pubblicato da una casa discografica. Sette anni fa i Radiohead hanno fatto il colpaccio mandando alle stelle Kid A senza uno straccio di singolo o di video (tranne quella roba da dieci secondi a botta che tenevano per un po’ sul sito per poi levarla di mezzo): il disco era bello e si vendeva da solo, in culo ai maxicartelloni pubblicitari, ai pusher delle radio e chiaramente alla Premiata Macelleria MTV. Adesso replicano mandando alle stelle un disco senza uno straccio di disco. Capito bene. E volete sapere perché è importante? Perché questo disco è la goccia che fa traboccare il vaso.
Che le major siano nella merda è assodato (se ne parla anche la stampa italiana vuol dire che ormai è cosa trita e di dominio pubblico). Tutto questo da diverso tempo, da quando i Metallica ottennero la chiusura di Napster perché rosicando per non avere abbastanza soldi, fecero i bulli con dei ragazzetti brufolosi che non avevano pagato dazio per sentire i loro tronfi riffoni di chitarra giapponese. Le major hanno iniziato a emanare un odore strano e da allora niente è stato più lo stesso.
Oggi, a dieci (sette, ci risiamo) anni di distanza, lo smottamento è in piena corsa e non c’è più verso di frenare la fuga di brani, capitali e (novità!) artisti dal portafoglio delle principesse conglomerate.
La stampa, in più, con questa cosa ci va a nozze. Sembra che questo colpo fatale al sistema discografico as we know it sia non più che una stramberia di quattro snob ossoniensi capitanati da uno che si è permesso perfino di dire di no a Sir Paul (questo in titolo: poi si legge nell’intervista che l’ha fatto perché non si sentiva all’altezza – bravi, era Repubblica: l’avrete riconosciuta dal sensazionalismo spicciolo, vero?). Il che è ovvio, tenuto conto che la stampa fa capo allo stesso meccanismo: grossi giganti mediatici che a un certo punto hanno iniziato a partorire topolini, ma costosissimi e pure protetti anche da crittografie anticopia che non girano nell’autoradio. Chiaro che minimizzando l’accaduto iniziano anche a pararsi sottilmente il culo: non sia mai domani dovessimo tutti scoprire che possiamo anche fare a meno dei quotidiani, dei loro faccendieri in quota opposizione e della loro pessima, pessima sintassi.
Eppure è così: dopo cinquant’anni (se non di più) di prassi consolidata, è chiaro che oggi la gente pensa che sia una cosa inaudita e incosciente rinunciare a una casa discografica per mettere fuori qualcosa. Questo perché la gente (e la stampa, che è fatta da gente, mentre noi speravamo fosse fatta da professionisti) non ha la minima idea di come funzionino le cose, e del fatto che le case discografiche sono un costo: come qualsiasi struttura costano, e richiedono risorse e passaggi che oggi – nell’era dell’accesso – sono risparmiabili.
Fortunatamente i Radiohead, che snob saranno anche snob ma so’ pischelli per bene, stanno minimizzando la cosa. Abbiamo solo voluto mettere fuori un disco, hanno dichiarato, non era mica nostra intenzione portare un attacco al cuore dell’establishment facendo perdere all’apparato milioni di sterline: avevamo un disco, avevamo i canali, non avevamo un contratto, l’abbiamo messo fuori da solo. Noi poco ci crediamo, perché i Radiohead sono gente che riflette e a cui sta sul cazzo il sistema postcapitalista (soprattutto quello mediatico), ma tutto sommato non era un’osservazione troppo da santarellini.
Mettere fuori un disco da soli è possibile, anzi: spesso è addirittura meglio. Da queste parti, qui in basso, dove non girano i soldi ma le idee, i musicisti sanno perfettamente che la casa discografica è un canale, uno strumento che serve a raggiungere un pubblico. Si fa una cosa, e a cosa fatta, si dà a un’etichetta che distribuisce il tutto e si tiene una parte degli incassi – sempre a patto che l’accordo sia vantaggioso.
Qui da queste parti siamo disillusi al fascino della rockstar, e facciamo pure bene. Le rockstar sono delle persone fuori dal mondo e il 90% di loro sono perfettamente INCAPACI di fare buona musica, e questo anche perché all’interno di un contesto mediatico basato sull’apparire, in cui la gente diventa famosa perché È famosa (così, a buffo), le rockstar non sono nemmeno TENUTE a farla (qualcuno ha mai sentito DAVVERO un disco di Amy Winehouse? NON SERVE!) Dall’altra perché le rockstar sono dei fenomeni costruiti per dare stabilità, apparenza e quindi un ritorno d’immagine proprio alle etichette che le mettono sotto contratto e che lucrano sulla loro instabilità (non dimentichamo la morte di Sid Vicious o di Cobain, il colpo di culo più GROSSO che le loro etichette potessero avere).
Questa cosa ha alimentato un’idea collettiva per cui il fine ultimo della carriera di un musicista fosse quello di arrivare a un contratto discografico, e poi pace: campi di rendita. La casa discografica ti scrive e arrangia le canzoni, ti organizza un tour, ti manda in televisione e ti ci mantiene perché ne ha tutti gli interessi. È come essere il capo di un partito italiano: diventi la parte visibile di un apparato che lavora per tenerti esattamente dove sei. In più puoi anche spaccare le sedie e schiacciare due pischelle a botta.
Per cinquant’anni questa cosa ha funzionato, poi è arrivato Internet.
Come tutte le grandi istituzioni – commerciali e non – anche le major discografiche sono sempre e pesantemente indietro coi tempi. Non è stato capito che non bastava mettere sotto contratto le nuove sensazioni partite da Myspace perché le parabole di visibilità offerte da internet sono ancora più ripide di quelle rese possibile dalla televisione. Le major hanno pensato che essendo le uniche depositarie di mezzi di comunicazione e promozione a livello planetario (adesso chi è che non è mai uscito dagli anni ‘80, eh?!?), potevano tenere saldo il loro dominio approfittando di queste meteore, ignorando completamente le leggi che regolano le loro brevi traiettorie. Bisognava capire che stava cambiando il linguaggio promozionale, che la nuova disponibilità di materiale resa possibile dalle possibilità di comunicazione li detronizzava dal ruolo di nodo insostituibile dello scambio, che la visibilità di realtà underground metteva anche dei pesanti interrogativi critici sul loro ruolo. E questo sia per il pubblico che per i musicisti.
Qualche giorno fa Josh Homme – che è uno che dentro una major ci è nato e cresciuto perché quando è uscito il primo Kyuss per la Elektra (cioè BMG, se non ricordo male) aveva 18 anni – ha dichiarato in un’intervista che “le case discografiche fanno schifo”, e non è il primo pezzo grosso che sputa nel piatto dove ha mangiato; una cosa del genere l’aveva detta anche Trent Reznor. Insomma, la Interscope è in allarme rosso, e non stupirebbe nessuno se iniziasse una fuga o verso qualche indie, o addirittura verso il buon vecchio FattoInCasa, tanto non credo che ai succitati gentiluomini manchino le risorse per mettere su un baraccone di produzione distribuzione e stampa per fatti loro.
In casa EMI c’è maretta pure da più tempo, dato che i Radiohead a fine contratto non solo non hanno voluto rinnovare (gravissimo) ma hanno anche dato lezione a tutti. A differenza del bullismo dimostrato da altre major, però, la EMI sta cercando di affrontare la situazione in casa, reclamando percentuali anche sugli incassi dei concerti e del merchandising (toh! un’idea brillante! miracolo!), o mettendo il pepe al culo direttamente agli artisti del suo carnet che non producono abbastanza o che abbastanza non vendono. Secondo quanto si è letto in giro (sempre su stampa scandalistica: Repubblica), nel mirino ci sarebbero fotomodelli come Robbie Williams o come i Coldplay (un ottimo esempio di gruppo che in un contratto major ha trovato la cuccagna: dopo il primo disco che tutto deve dimostrare hanno iniziato a sfornare dischi di canzoni di natale e ragazzini come conigli: pare mi’ cuggino che appena firmato l’L3 s’è comprato la Golf e ha messo su 5 chili). In più, bomba: la EMI ha deciso di non finanziare più la RIAA, la lobby che in America difende in Parlamento e in tribunale gli interessi delle major.
Non solo: la Free Software Foundation di Richard Stallman metterà gratuitamente a disposizione i suoi avvocati (specialisti del diritto d’autore, gente: roba da cagarsi sotto) nelle cause milionarie contro privati cittadini per aver scaricato illegalmente brani del loro catalogo, e per ridefinire la legge e il concetto di diritto d’autore, soprattutto dopo quella barzelletta del gestore telefonico tedesco che voleva brevettare un colore (ma come cazzo si fa…).
Un’altra tegola? La nota ufficiale della polizia canadese per la quale, data la diffusione del fenomeno e le controversie di diritto internazione in corso, la ricerca e i procedimenti contro chi scarica musica non rientra più nelle loro priorità. Ci rendiamo conto?
In uno scenario del genere, che si sta costellando di pericolosissimi precedenti, è chiaro che chi può corre ai ripari. Le grosse case discografiche, ormai trasformatesi in Oliver Hardy con la bombetta sfondata e la vernice addosso, si stanno avviando ad essere tra i più grandi fiaschi economici del decennio: gli investitori potrebbero iniziare a pensare che non vale la pena mettere soldi in questi mastodonti mangiasoldi, le holding potrebbero iniziare a lasciar perdere e in quattr’e quattr’otto avremmo la morte delle major as we know it. Altro che new economy. Ha ha ha.
La partita a questo punto è del tutto aperta. Da una parte alcuni discografici hanno già iniziato a diversificare il mercato: c’è chi ha pisciato tutto e si è buttato sulle bibite e sugli aerei (che spero non facciano cacare quanto le bibite), c’è chi sta iniziando a pensare di incrementare il giro di suonerie per cellulari (cosa che farebbe facilmente presa sul popolo bue e sarebbe più facilmente controllabile tramite accordi con i gestori) e c’è chi sta alzando i toni della guerra alla “pirateria”, finanziando le ricerche universitarie A PATTO che gli istituti riservino una percentuale della ricerca ai sistemi anti-copia o alla restrizione dei loro terminali ai protocolli P2P. Insomma, di ridimensionamento o di politica economica alternativa per il momento sembra che non se ne parli. Un po’ perché come strutture economiche sono troppo articolate e sviluppate per poter operare tagli sensibili – e poi sappiamo che i loro artisti, viziati e fuori dal mondo, non rinuncerebbero mai a qualche punto percentuale sugli introiti, cosa che tiene alti i prezzi dei cd molto più della siae o dell’iva al 20%, e questo TENIAMOLO A MENTE; un po’ perché per la loro stessa sopravvivenza all’interno delle multinazionali a cui appartengono devono tenere alto il giro di soldi, per non essere vendute o peggio smantellate.
In più, ci saranno sempre larghe fasce di ascoltatori che nonostante le lamentele per i prezzi dei cd – e, cosa più IPOCRITA: per la scarsa qualità del pop dei giorni nostri – continueranno a spendere 30 carte per la solita robaccia gangsta o per qualche puttana col toppino aderente. E dimoselo, su.Possibile allora che le major approfittino di questo nuovo mercato e inizi a specializzarsi su questo, continuando allora una tendenza già iniziata una ventina d’anni fa: la musica di qualità alle indipendenti (che avranno SEMPRE il loro mercato, con o senza napster, con o senza mp3), e la musica di massa alle major, distaccandosi quindi definitivamente dal pubblico critico e consapevole e sintetizzandosi su prodotti indifferenziati per gente diseducata e qualunquista. Come il McDonald’s: roba veloce e totalitaria, per un pubblico senza gusto e pronto a cacciare fuori i soldini per la merda, purché si presenti bene.