I 65daysofstatic sono un gruppo che ve lo dovete andare a cercare, perché non vi piove addosso. Escono per quest’etichetta che si chiama Monotreme di cui non so NIENTE, e per quanto mi riguarda potrebbe anche essere di proprietà del cane di uno di loro, o un modo per non dire che si autoproducono, che comunque ci si vergogna, dopo un po’. Però è pure vero che sono in giro da sei anni anni, e questo è il loro terzo disco dal 2004, e insomma proprio novizi non sono, se poi ci mettete che il gruppo si è formato per musicare di un film di John Carpenter (che si chiama come loro ma dicono non sia mai uscito, quindi non perdete tempo a cercarlo), ve ne rendete conto ulteriormente.
I 65daysofstatic sono un buon gruppo tutto sommato. Diciamo che loro fanno più o meno una di quellc cose che vanno un botto di moda, ultimamente – insieme all’elettropop, all’emosessualità e alle puttane tatuate con macchinetta (a proposito, sabato vado a un concerto con un “live act” di puttane tatuate, anche se senza macchinetta, quindi poi vi racconto com’è andata – sarebbe a dire questo postrock intenso e ad alto volume, sullo stile dei Red Sparrowes o dei gruppi da cui sono usciti fuori.
Il che è una cosa curiosa perché la musica di derivazione posthardcore, o metal (quello buono, non quello RIDICOLO con gli spadoni e le mutande di pelouche) sta chiaramente andando in due direzioni. Da una parte la sintesi estrema – il powerviolence o come cazzo si chiama, il grind, il math quello che vi pare tipo Locust (di cui comunque parleremo) – cioè: un minuto un minuto e mezzo di CASINO e sticazzi. Dall’altra, la dilatazione: pezzi di 7/8 minuti, spesso anche di più, in scuola Neurosis, che pure sta andando fortissimo ultimamente (e forse pure un po’ troppo).
I 65dos appartengono nettamente a questa seconda categoria, ma invece di proporre la solita brodaglia boriosa e rompipalle – tipo Pelican, un gruppo che ha superato qualsiasi soglia della mia sopportazione – uniscono il flusso di coscienza strumentale tipico del genere a una forte componente elettronica che grazie al cielo li distingue da questa nuova generazione di postrockers e li rende veramente degni di un ascolto.
Insomma, immaginatevi una roba che sta a metà tra Mogwai (dicono che siano fasci, l’avete sentito anche voi?), Explosions in the sky, Sigur Ros (sì, sono MOLTO intensi) e gruppi smaccatamente elettronici (non elettronici à la mode: elettronici SERI) tipo Four Tet, Telefon Tel Aviv e compagnia glitchando: chitarre e synth; batteria acustica (tra l’altro parecchio articolata e fantasiosa) e beat elettronici insieme.
Il risultato è interessante, perché l’accostamento non lascia insoddisfatto nessuno dei due tipi di approccio e nessuno dei due tipi di ascoltatore, anche. I momenti di quiete e quelli di esplosione dialogano in maniera dinamica ed equilibrata, aiutati e tenuti insieme dalla presenza quasi costante di campionatori e suoni di computer che bombano, pianoforti e chitarre piuttosto sapienti.
La domanda è Perché sto parlando di questo gruppo? Mo’ ve lo dico:
Perché è uscito il loro disco nuovo (che si chiama The destruction of small ideas) e io dopo aver ascoltato i precedenti due, me lo sono procurato e ascoltato con la dovuta calma. E questo perché beninteso, avevo deciso che I 65DAYSOFSTATIC NON SONO AFFATTO MALE (questa era la morale di tutta la storia, mi sembrava il minimo metterla in risalto).
Tuttavia, in fin dei conti, è pure vero che non sono nemmeno un gruppo fondamentale, o anche imperdibile, diciamoci la verità. Non dicono niente di veramente nuovo, non hanno la poesia della gente a cui si ispirano (leggi sopra), né un’intensità e una potenza fuori dell’ordinario. Ci può stare che questo disco non sia particolarmente indovinato, o anche solo all’altezza del loro primo (The fall of math) che finora rimane il loro punto di riferimento. Ci può stare anche che in generale siano un gruppo che debba trovare una soluzione sonora efficace, visto che a sound e produzione ci siamo, e anche tanto.
Però può darsi pure che seppur acerbo, questo sia il germoglio di un postrock alternativo, meno trombone e tristanzuolo, e meno legato al solito codice FenderJaguar + riverberostanzasullabatteria.
Che è chiaro che contraddistingue esattamente e impeccabilmente un genere visto che siamo negli anni 2000 e abbiamo bisogno di questi espedienti, ma cionondimeno potrebbe anche avere un po’ rotto il cazzo, in fin dei conti.
I 65daysofstatic sono un buon gruppo tutto sommato. Diciamo che loro fanno più o meno una di quellc cose che vanno un botto di moda, ultimamente – insieme all’elettropop, all’emosessualità e alle puttane tatuate con macchinetta (a proposito, sabato vado a un concerto con un “live act” di puttane tatuate, anche se senza macchinetta, quindi poi vi racconto com’è andata – sarebbe a dire questo postrock intenso e ad alto volume, sullo stile dei Red Sparrowes o dei gruppi da cui sono usciti fuori.
Il che è una cosa curiosa perché la musica di derivazione posthardcore, o metal (quello buono, non quello RIDICOLO con gli spadoni e le mutande di pelouche) sta chiaramente andando in due direzioni. Da una parte la sintesi estrema – il powerviolence o come cazzo si chiama, il grind, il math quello che vi pare tipo Locust (di cui comunque parleremo) – cioè: un minuto un minuto e mezzo di CASINO e sticazzi. Dall’altra, la dilatazione: pezzi di 7/8 minuti, spesso anche di più, in scuola Neurosis, che pure sta andando fortissimo ultimamente (e forse pure un po’ troppo).
I 65dos appartengono nettamente a questa seconda categoria, ma invece di proporre la solita brodaglia boriosa e rompipalle – tipo Pelican, un gruppo che ha superato qualsiasi soglia della mia sopportazione – uniscono il flusso di coscienza strumentale tipico del genere a una forte componente elettronica che grazie al cielo li distingue da questa nuova generazione di postrockers e li rende veramente degni di un ascolto.
Insomma, immaginatevi una roba che sta a metà tra Mogwai (dicono che siano fasci, l’avete sentito anche voi?), Explosions in the sky, Sigur Ros (sì, sono MOLTO intensi) e gruppi smaccatamente elettronici (non elettronici à la mode: elettronici SERI) tipo Four Tet, Telefon Tel Aviv e compagnia glitchando: chitarre e synth; batteria acustica (tra l’altro parecchio articolata e fantasiosa) e beat elettronici insieme.
Il risultato è interessante, perché l’accostamento non lascia insoddisfatto nessuno dei due tipi di approccio e nessuno dei due tipi di ascoltatore, anche. I momenti di quiete e quelli di esplosione dialogano in maniera dinamica ed equilibrata, aiutati e tenuti insieme dalla presenza quasi costante di campionatori e suoni di computer che bombano, pianoforti e chitarre piuttosto sapienti.
La domanda è Perché sto parlando di questo gruppo? Mo’ ve lo dico:
Perché è uscito il loro disco nuovo (che si chiama The destruction of small ideas) e io dopo aver ascoltato i precedenti due, me lo sono procurato e ascoltato con la dovuta calma. E questo perché beninteso, avevo deciso che I 65DAYSOFSTATIC NON SONO AFFATTO MALE (questa era la morale di tutta la storia, mi sembrava il minimo metterla in risalto).
Tuttavia, in fin dei conti, è pure vero che non sono nemmeno un gruppo fondamentale, o anche imperdibile, diciamoci la verità. Non dicono niente di veramente nuovo, non hanno la poesia della gente a cui si ispirano (leggi sopra), né un’intensità e una potenza fuori dell’ordinario. Ci può stare che questo disco non sia particolarmente indovinato, o anche solo all’altezza del loro primo (The fall of math) che finora rimane il loro punto di riferimento. Ci può stare anche che in generale siano un gruppo che debba trovare una soluzione sonora efficace, visto che a sound e produzione ci siamo, e anche tanto.
Però può darsi pure che seppur acerbo, questo sia il germoglio di un postrock alternativo, meno trombone e tristanzuolo, e meno legato al solito codice FenderJaguar + riverberostanzasullabatteria.
Che è chiaro che contraddistingue esattamente e impeccabilmente un genere visto che siamo negli anni 2000 e abbiamo bisogno di questi espedienti, ma cionondimeno potrebbe anche avere un po’ rotto il cazzo, in fin dei conti.
1 commento:
"o metal (quello buono, non quello RIDICOLO con gli spadoni e le mutande di pelouche)"
Mi crolla una certezza. Sono sempre stato convinto che il metal buono fosse proprio quello (anche se alla caratterizzazione avrei aggiunto draghi e cavalieri)... Vado a smaltire i postumi dell'inganno a lavoro. Ma prima carico gli Armored Saint nel lettore mp3. Oi!
V.
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