27 novembre 2008

un'apologia

Vedi Valerio, io volevo scrivere un pezzo sui cinque chitarristi più fighi del mondo di cui non sentirete mai parlare e dentro ci volevo mettere almeno Johnny Ramone e Steve Cropper, ma poi alla fine ho ritenuto urgente, credimi, urgentissimo, dover scrivere due righe due su questa faccenda degli Smiths per il semplice motivo che tu hai ragione, hai perfettamente ragione.
Ma io pure.
Vedi: io sono d’accordo con te sul fatto che mettermi ad ascoltare in maniera intensiva gli Smiths nel 2008 è una gravissima ingenuità umana prima ancora che musicale, sarebbe come mettersi a rispolverare i Doors, e dico i Doors non a caso – nonostante stai sereno, piuttosto che ascoltare i Doors sarei in grado di mangiare immondizia, e perdipiù senza lavarmi le mani prima, per acchiappare ancora più malattie.
Capisco bene, Valerio, che negli Smiths inquadri i capostipiti di tutta una serie di prese a male che ti sono state sul culo per anni e che tuttora continuano a rompere i coglioni con le loro cravatte dritte e l’aria di non divertirsi mai (e le righe, le onnipresenti righe che posso perdonare SOLO a G. G. Hey) e pensi che se non fosse stato per loro probabilmente avremmo avuto meno gente suicidal chic in giro, cosa opinabile tra l’altro perché le prese a male sono in scorta infinita, nelle mani del destino. Però per esempio, come io vedo nei Doors quello che tu vedi negli Smiths, la responsabilità e la COLPA eterna dei gesti dei loro figli e figliocci, va fatto un distinguo. Del resto ci sono mille e mille gruppi che sono odiati per il loro pubblico, ma non tutti se lo sono meritato, dopotutto.
Eh sì tu hai ragione ma anche io, come dicevamo, perché io negli Smiths ci vedo talento e tante cose valide, a differenza dei Doors che non sapevano suonare particolarmente bene cose non particolarmente originali per un pubblico non particolarmente accorto che beveva praticamente qualsiasi cosa dicesse loro un leader non particolarmente capace ma dotato di un carisma innegabile anche se basato su basi non particolarmente autentiche. Insomma ci siamo capiti, la truffa del secolo, altro che Sex Pistols.
E va bene, sempre a proposito di leader è chiaro e facile identificare un gruppo con il suo cantante, ed è fin troppo immediato ricordare che Morrissey non è l’uomo più simpatico del mondo, con le sue pose da poeta decadente (curiosa analogia, once again) e la sua aria saccente ci mette zero a finire sul cazzo a punk come noi, e se dobbiamo dirla tutta basta anche solo il fatto che lui voleva ballarci sulla tomba, del punk, quindi figuriamoci.
Però mettiti nei miei panni e pensa a un gruppo che ha due motori eccezionali: uno è una specie di crooner post-Sinatriano, imbevuto di letteratura e dai guizzi feroci e geniali come solo un inglese gay colto snob e depresso può avere, che ha fatto quattro dischi senza uno straccio di linea vocale riconoscibile, pare che faccia i cazzi suoi e canti da solo come ubriaco e depresso e gay colto e snob al tavolino del pubbetto – se vogliamo non posso non sentirmi immedesimato in questa figura (tranne la parte inglese). L’altro è (e la parte gay, ovviamente) uno dei chitarristi che a ben pensarci volevo pure infilare nella top 5 di cui sopra, uno che ha preso il punk e ha detto Vabbé, non ne facciamo una sola questione di suono: vediamo se riusciamo a dire le stesse cose con parole diverse, per poi scoprire che c’era un lato nascosto del disagio e dell’incazzatura, e io tu sai benissimo che vado in brodo di giuggiole, Valerio, quando qualcuno cerca di CAPIRE e poi rimontare tutto: cioè, davvero, se riesci a costruirmi una moto da cross rimontando un tavolino dell’Ikea io ti stimerò per il resto della mia vita, e al di là delle pippe sul postmodernismo, sulla neutralizzazione del mezzo attraverso il riaccostamento e blah blah, io con queste premesse non potevo almeno non dare una possibilità a questi puzzasottoilnaso - senza contare che davvero senza Johnny Marr niente The Edge (anche se sono coevi, ma io comunque sono sicuro che mmm...) e senza The Edge cane è TRISTISSIMO, e devo assolutamente ricordarmi di metterlo in cima alla top 5 anche se non penso proprio che me lo dimentico.

23 novembre 2008

Luciano Bianciardi: La vita agra

gione la prefazione anche se non mi ricordo di chi è mi sa Corsicato ma mi potrei sbagliare adesso non ho il libro sottomano perché ho dovuto pensarci ho preferito evitare di scrivere a caldo perché per un libro del genere era troppo facile gridare al capolavoro subito è meglio gridare al capolavoro con calma tanto bianciardi è morto e il libro non scappa da nessuna parte quindi direi che fretta non ne a 

ssa sensazione di quando in pieno doposbronza vieni svegliato da un clacson che ha bisogno di uscire da un parcheggio dove è stato intrappolato avete presente lo stesso strizzare le palpebre e pensare Perché non sono nato nel 700 quando certamente potevo morire di meningite uscendo per strada ma i clacson non c'erano e probabilmente anche la birra era meglio e questo doposbronza non l'avrei mai avuto ecco è la stessa cosa dove il doposbronza sta a simboleggiare prezzo da pagare per la moderna civiltà consumista e disponibile e il clacson sta a simboleggiare quanto è più stronza la gente quado non sei proprio in grado di sosten 

uttosto sicuro che buona parte della letteratura italiana se mai ne possiamo parlare è postbianciardiana anche perché l'italia stessa a essere un minimo acuti è postbianciardiana è come gianni livore stessa cosa è l'intera italia che pensa Ma tutta sta roba che c'abbiamo per le mani che è stata resa indispensabile mo' che ce famo come la manteniamo poi per forza ci sono gli estremisti e gli alcolisti e il punk quello vero con le maniche lunghe anche d'estate e poi morto prima dei 90 è come giocare a cambiali gira gira cro 

rme malumore ma i tono grazie al cielo smorzati e per niente epici io vado in fissa per queste cose quando non c'è uno straccio di redenzione e non c'è uno straccio di santità in tutto questo c'è solo il rodimento di culo a denti stretti c'è solo il dover fare i conti e le coperte troppo corte e non sapere a chi dare i resti ha voglia bianciardi a parlare del superamento del neorealismo per arrivare al realismo ancora una volta va bene ma che ce famo tocca essere capitombolati almeno una volta dalla torre d'avorio ecco perché non possiamo non essere bianciardiani e tutto sommato ecco perché non posso non pensare che sto lavorando be

13 novembre 2008

ammazza che anno infame

Arthur C. Clarke, Neil Aspinall, Danny Federici, Sydney Pollack, Bo Diddley, Dino Risi, George Carlin, Isaac Hayes, Jerry Wexler, David Foster Wallace, Richard Wright (ma sì, pure lui), Mauricio Kagel, Paul Newman, Yma Sumac, Jimmy Carl Black, Miriam Makeba, e mo' pure Mitch Mitchell.
...Ma che è?



Playlist>
Billy Bragg: Accident waiting to happen
Giovanni Pierluigi da Palestrina: Messa Viri Galilei, Sanctus
Blind Lemon Jefferson: Corrina blues

12 novembre 2008

"Una frase, un rigo appena"

ste sono proprio le cose di einaudi che non sopporto cioè non puoi pubblicare Franzen e Albertino devi deciderti ho capito che da quando è arrivato il nano non si capisce più un cazzo ma perdio non l'ho capito proprio il senso di pubblicare questo libro che dal titolo sembrerebbe una cosa interessante e poi proprio non lo è sembra il grande fratello che dalle premesse poteva quasi essere un esperimento interessante qualcosa che potesse dare uno spunto di riflessione un paradigma della convivenza forzata che è la società contemporanea e invece visto che c'è di mezzo il nano arieccolo si tratta di sempre de scopa' e quindi l'esperimento fallisce anzi nemmeno parte scusate anzi se ci ho pensato questo libro stessa cosa perché a questo punto non premiare le barzellette più carine o le freddure più simpatiche o fare direttamente un dizionario delle citazioni invece di andare a intralciare la mia ricerca tra le gloriose coste azzurro sbiadito che adesso nemmeno sono più tali perché ormai sto diventando grande e le gioie sempre di meno sempre di m

11 novembre 2008

Proprio come il Gibbons

Quindi se non altro, tutto questo ci insegna una cosa, e sarebbe a dire che non ci si può VERAMENTE fidare di nessuno. E, se vogliamo per forza leggerci qualcos’altro, che probabilmente il povero cane porta sfiga, perché se è stato in grado di sbrodolarsi per due persone DUE su questo blog che normalmente è una sassaiola, ecco prontamente che queste due persone DUE iniziano a deludere come un candeggio sbagliato.
Che poi, se vogliamo, la puzza di qualcosa di storto già si poteva sentire da lontano, perché sarà che sono schizzinoso, che c’ho i miei pregiudizi (gelosamente custoditi in una teca di vetro e guai chi me li tocca), ma a me mica m’era andata giù questa cosa di iniziare a spingere il disco nuovo su Myspace tipo tre mesi prima dell’uscita, e questo non in senso assoluto, ma data la caratura di questi due personaggi. Cioè: posso capire se sei gli Avenged Sevenfold e devi farti strada a gomitate tra la memoria cortissima delle tue fan che essendo tredicenni hanno ancora l’attention span di un infante, o posso capire anche se sei i REM e per recuperare le mastodontiche spese di QUALSIASI cosa tu faccia devi iniziare a spingere forte OVUNQUE – Myspace, radio, Chi l’ha visto.
Ma che succede quando sono due eroi dell’indie a immischiarsi in queste manfrine? Presagio di guai, ve lo dice cane. Ma attenzione, perché come al solito occorre fare un distinguo: qua non stiamo parlando di pischelletti tipo gli esasperanti Arctic Monkeys (l’unico gruppo non brutal che mi fa letteralmente comprimere la cassa toracica), che sulla promozione attraverso internet hanno trovato (l’unica?) ragione del loro successo, ma di due eroi del fare le cose per bene e con calma.
Per intenderci, una ha iniziato facendo la cantastorie itinerante con la chitarra a spalla nella perfetta tradizione hobo che piace tanto agli ammeregani illuminati e facendosi le cassette collo stereo a casa; l’altro manco c’ha la chitarra perché sta in fissa co’ Billy Joel e Joe Jackson: ho capito che è tutto un altro sistema produttivo, ma seguitemi, perché qua non stiamo parlando di budget, ma perdio: del fascino discreto della DISCREZIONE.

Ani DiFranco e Ben Folds sono due tra i songwriter che ho ascoltato di più ultimamente, e che più ho apprezzato. Lei, fiera e cazzuta guerrigliera dell’onestà morale e intellettuale, prova vivente che le major se ne possono anche andare affanculo quando l’alternativa è il rimboccarsi le maniche; lui, uno che sa ancora scrivere al pianoforte cose che non si trasformino in christmas carols (vero, Chris Martin?), intelligente, acuto e mammamia, ESTREMAMENTE raffinato nonostante le parolacce, che fa ridere sentirle cantare da uno dietro a un pianoforte: di solito cose del genere succedono quando c’hai una chitarra in mano e scambiandola per il pisello ti senti un attimo onnipotente.
Nel 2008, questi due figuri mettono fuori un disco a testa: io vado in fissa. Lei, un disco che si chiama Red Letter Year, lui uno che si chiama Back To Normal (dopo – tra l’altro – aver fatto nientemeno che una reunion dei Ben Folds Five proprio PER myspace, poi dice che non dovevo voltargli le spalle prima che fosse troppo tardi). Li ascolto: delusione. Ci sono sicuramente pezzi carini e meno carini, entrambi non brillano e non sono destinati a diventare pietre miliari della loro discografia. Ma che c’entra: non tutti i dischi sono memorabili e non tutti i pezzi escono come meccanismi perfetti. C’è dell’altro.
Entrambi questi dischi hanno una caratteristica comune, che quindi non risiedendo tanto nella scrittura o nel concetto, sta nell’atteggiamento. Sì, voi lo sapete benissimo come ragiono, e sapete altrettanto bene che io metto in conto ANCHE e ALLA PARI il tipo di attitudine che un disco o i suoi creatori hanno nel mettermelo in mano: siamo nel 2008, ormai ci sono più rockstar che postini in giro, quindi occhio agli accordi e statemi dietro.
Ci può stare – ci mancherebbe, anzi: è necessario – che un artista che ci tiene un attimo alla propria credibilità o ad evitare quantomeno una stagnazione dovrebbe muoversi in avanti (a meno che non parliamo dei Motorhead o degli AC/DC, e in quel caso viva la reazione) e provare terreni nuovi. Questo nel caso di Ani è stato più frequente e più evidente, dato che di fasi ne ha attraversate, dalla cantantessa combattiva degli inizi all’introspezione e alla sperimentazione con sonorità più raffinate alla gran cagata di To the teeth (e quindi già un precedente deludente ce l’avevamo) allo scandaglio emotivo e minimalista iniziato su Revelling: Reckoning e finito – ahimé – con Reprieve.
Ben Folds è sempre stato invece più assestato sulle sue posizioni, tanto da avere un approccio quasi punk alla scrittura: ha giocato e flirtato di meno con le novità e quindi ha prestato meno il fianco anche a possibili fallimenti, almeno finora, quando il voler mettere in mezzo l’elettronica o questa wave che piace tanto alle nuove generazioni (le stesse generazioni che non sanno niente, votano male, si fanno esplodere su youtube: io un paio di conti me li farei) ha dato come l’impressione (e chiudiamo il cerchio qui) di aver voluto fare il passo più lungo della gamba, o, in una parola: si sono fatti cogliere IMPREPARATI da quello che loro stessi volevano fare.

Ecco il mio coniglio dal cappello. Il problema non è artistico, non è creativo, non è legato all’ispirazione, il problema è BIOGRAFICO. Che voglio dire? Arriva.
Prendete un gruppo qualsiasi di quelli che hanno fatto la storia del rock. I Rolling Stones, gli Who, i Kinks, i Beatles superstiti, i Black Sabbath ma anche i vari Clapton, Page e Plant e compagnia bella – ma mettiamoci pure dentro i Pink Floyd, mi voglio rovinare, o perfino Zappa. Hanno scritto pagine insostituibili della storia del musica, del costume, della cultura popolare blah blah. Nei 60’s sono nati, nei 70’s sono cresciuti (quasi tutti), negli 80’s si sono rincoglioniti. E fin qui ci siamo, ma non dobbiamo puntare il dito esclusivamente nei confronti degli anni 80 nell’individuare la causa principale della MORTE di un certo tipo di rock’n roll. Se così fosse dovremmo anche dimenticare che negli anni 80 abbiamo avuto il punk, la wave buona, l’hardcore, insomma non solo merda. E allora il problema deve stare altrove.
Pensiamoci bene, tutti questi gruppi formati da baby-boomers (gente nata nel secondo dopoguerra, per intenderci) negli anni 80 si avvicinano a – o superano – la soglia dei 40. Guardano alla loro giovinezza come un evento passato, il corpo comincia a mostare i primi segni di affaticamento, ma soprattutto, dopo vent’anni venti dall’inizio della loro carriera, la musica intorno a loro è completamente cambiata: nuove formule, nuove sonorità, nuovi modi di avvicinarsi al pubblico, nuovo tutto. E allora vai con la crisi. Del resto è abbastanza frequente che laddove finisce la fisicità dei 20 e la sicurezza dei 30, iniziano i danni. Aoh, non sono certo io che mi sono inventato la crisi di mezza età, e se è vero che per un cristo qualunque può iniziare intorno ai 50, figuriamoci per una rockstar: quindi laddove a un Pete Townshend sicuramente non sono le macchine nuove o le mignotte che gli sono mai mancate, cosa può portare una ventata di freschezza nella stantia vita di un quarantenne? Ma è semplice, un disco che suona NUOVO, fresco, che rimetta al passo coi tempi. Ed ecco le grandi cagate degli anni 80.

Oggi, Ani DiFranco ha 38 anni, Ben Folds 42. Non stanno in giro proprio da vent’anni, ma è anche vero che l’accelerazione di informazioni, l’indigestione di novità e di avvicendamenti degli ultimi due decenni (i 90 e gli anni 2000 che ve lo ricorderei, signori, stanno già finendo), hanno bruciato un po’ di tappe e schiacciato un po’ di tempi. E voilà il trucco: Way to normal e Red letter year sono due dischi che suonano sinistramente GIOVANILI, due dischi liftati nei suoni e nelle soluzioni, che vogliono fare dichiaratamente i conti con troppe cose e troppo in fretta e alla fine assomigliano più al carrello della spesa di uno che non ha mai messo piede in un ipermercato (avete presente: whisky, uova, nutella, salsa di soia e filetti di merluzzo, non una cosa che serva a mettere in piedi una cena).
In questo senso, a questi due poveri cristi non gliene posso fare una colpa: ormai sono dei punti di riferimento di un certo tipo di showbusiness, tutti gli vogliono bene e possono anche iniziare a scialare un po’ di occasioni, senza dimenticare il fatto che appunto (vabbé che Ani come dicevamo aveva già dato): un disco completamente fuori dalla realtà più o meno lo fanno tutti a un certo momento (tranne Tom Waits, che magari l’ha anche fatto, ma noi non ce ne siamo accorti), e a noi non rimane altro che aspettare i tempi della maturità che – se dobbiamo leggere nella parabola dei baby boomers un altro presagio – arriverà, prima o poi arriverà, ma con tutta probabilità non in questo scorcio di fine decennio.
Invece sapete qual è un disco veramente bello? Quello dei Calexico. Quello dei BellRays invece no, ma per altri motivi che però adesso non fa niente, magari un’altra volta.



PLAYLIST>
Ramones: Blitzkrieg bop
Stevie Wonder: He's misstra know it all
Bob Dylan & The Band: Yazoo street scandal
The Rolling Stones: Yesterday’s papers
Mudhoney: Inside out over you
Billie Holiday: Until the real thing comes along
Reigning Sound: So easy
Sham 69: I gotta survive
Tom Waits: Big in Japan
Skip James: Hard time killin’ floor blues
Social Distortion: Live before you die
Anti You: Fucked once
Nancy Sinatra: These boots are made for walkin’
Gil Scott-Heron: The train from Washington
Eddie Floyd: Blood is thicker than water
Calexico: Falling from sleeves
Big Bill Broonzy: Joe Turner blues no. 2 (blues of 1890)
D.O.A.: The enemy