28 febbraio 2007

e dopo Carosello, tutti a nanna.

Primo: NON stiamo parlando della “Next big thing”.
Secondo: NON stiamo cercando di fare giustizia musicale sommaria.
Quanto segue è, molto semplicemente, pubblicità. Perché è questo che ci vuole, in fondo.
Voglio dire, passi giornate in un negozio di dischi, ascolti gente che parla di musica, ti informi, compri le rivistespecializzate, compri le fanzin’ (alla veneta), ti guardi i concerti e poi ti passa sotto al naso un gioiello e non ci fai manco caso. Sarà la jella. Sarà che in realtà, nella stampa musicale, tu questo tizio (questo tizio di cui andrò a parlare tra breve), ce lo hai anche trovato, ma così infilato in mezzo alla solita buriana di recensioni che manco te ne sei accorto. E così il primo disco che ti ascolti è, in verità, il suo terzo album e tu avevi letto le recensioni anche dei primi due. Allora cosa fai in quei momenti? Semplice: indossi l’impermeabile dell’ispettore Derrick e ti vai a spulciare tutta la stampa musicale degli ultimi sei fottuti anni che hai dentro casa e, ad un certo punto, mentre sei sommerso dalla carta e in camera tua c’è una tale puzza di polvere (ebbene sì, la polvere PUZZA) che pòi pure morì, trovi le recensioni. E sono buone, davvero. Tristemente seppelito sotto cumuli di merda commerciabile trovi IL nome che cercavi: M WARD. Dopo aver fatto un rapido confronto all’americana con l’unico disco in tuo possesso, dopo aver visto che tutto corrisponde e aver preso nota dei titoli degli album già registrati e che ancora non hai, sempre con l’impermeabile dell’ispettore Derrick, esci di casa e li vai a cercare. Giri di qua, vai in quel posto là, poi in quell’altro posto lì e non trovi un cazzo. A questo punto è evidente che sei andato in fissa un’altra volta per una cosa che non c’ha nessuno e che non si trova da nessuna parte.
ORA, se sei un collaboratore esterno di Blow-up questa cosa ti manderà le mutande in frantumi – tanto ci godi ad amare solo il Minoritario ed il Ricercatissimissimo; se sei un collezionista di dischi solleverai con compiacimento il sopracciglio che riesci ad alzare (alcuni alzano il destro, altri il sinistro, chi non è bbono tutt’e due) e accederai ad internet dove, con la tua carta di credito, comprerai il disco su un catalogo estero. E SE PER CASO FOSSI SOLO UNO SFIGATO ASCOLTATORE SENZA CARTA DI CREDITO O COPIE AGGRATISE PER LA STAMPA COSA FAI?!? Facile: lo scarichi. La domanda è: perché? Perché non posso avere una copia originale dei dischi di M WARD?
Perché, purtroppo, M WARD non lo conosce nessuno.
Allora eccomi qua a rimediare.
M WARD è un contemporaneo cantautore pop di estrema raffinatezza. Non ho idea di cosa voglia la stampa musicale da lui, né del perché invece di dedicargli un po’ di spazio quando ciccia fuori con un disco, lo si accerchi di recensioni neanche stessimo applicando marcature a uomo. Forse il piglio del fantasista, che il nostro possiede senza dubbio, tira fuori nell’italiano musicofilo medio il Nereo Rocco che è in lui. Va’ a capirci qualcosa. Si mettono graziose cornicette blu intorno a Lucinda Williams, Will Oldham e compagnia bella, si dedicano copertine a quei depressoni dei Sunn O))) o al perenne Van Morrison che non azzecca un disco dal Devoniano, e poi si mimetizza M WARD in qualche rubrichetta sfigata di emergenti (per la cronaca, il nostro eroe sta in giro dal 2001) o in mezzo al coro di generiche “Uscite” pop-rock-country del mese.
Il fatto è che, anche se i generi succitati c’entrano qualcosa con M WARD, forse tanta dolce e varia levità tende a spiazzare anche i più smaliziati. Beh, non è comunque un buon motivo per cagarselo così poco, ecco!
M WARD da ragazzino deve essere rimasto folgorato dall’effetto eco sulla voce di BLUE MOON; deve avere avuto un trasporto fanatico per Elvis, Hank, Woody, il gospel e i Beatles; deve essere inciampato in Tom Waits quando aveva appena terminato l’adolescenza e deve aver pensato, un giorno imprecisato, che in fondo Nick Drake sarebbe stato delizioso con qualche chitarrina Hawaiana in più e qualche paranoia in meno.
Lo immagino alle prese con vecchie radio a transistor mentre le smonta per scoprirne i segreti. Me lo vedo in qualche posto d’America a provare a registrare i suoi brani con la cornetta del telefono per microfono e ad attaccare la chitarra acustica ad un amplicatore giapponese a pile da 10 dollari per suonarla col distorsore.
Stiamo parlando di una personalità non convenzionale, di uno che gioca nello stesso campionato di Howe Gelb (che infatti si è accorto di lui) e che gli contende la guida della classifica. Sono abbastanza sicuro che i Calexico i suoi dischi li possiedono mentre io ho dovuto scaricarli (ah, me tapino, me derelitto, me merda!).
Alla fine della fiera se possiedete un disco di M WARD saprete che suona come se uscisse da una vecchia radio o da un grammofono; saprete di certo che le sue composizioni sanno esprimere una vena pigramente domenicale, dolcemente notturna, con sentori di fine estate in riva ad una spiaggia semi-deserta; avrete ovviamente notato che scimmiotta il Re (e se conoscete più di un Re siete dei poveri infelici senza rimedio) con un encomiabile menefreghismo e, proprio quando state per gridare: “Dagli al copione!” vi mette sotto il naso una sequenza di accordi inaspettata, sorprendente e tanto piacevole da farvi incazzare.
Inoltre è deliziosamente assenteista, rilascia poche interviste e, come un vecchio e geniale hobo, si fa i beneamati cazzi suoi mischiando tutta la musica americana delle origini con un suono talmente vecchio e delle idee talmente leggere e sintetiche che alla fine dell’ascolto non avete buttato via nulla.
Che altro aggiungere? Per esperienza personale posso dire che funziona benissimo anche quando siete stonati da qualcosa e che, anche se non mi è ancora successo (ho un carattere di merda, cosa ci volete fare?), deve essere sublime quando siete innamorati – ma così innamorati che siete fradici di ormoni e romanticismo e sorridete come coglioni anche di fronte alle più turpi tragedie.
Basta. Ora sapete abbastanza, andavetelo a cercare e, se trovaste un cd originale di questo fantasma dell’umor lieve FATEMELO IMMEDIATAMENTE SAPERE!
Fine dello spot.

25 febbraio 2007

le mie mejo cose

Di conseguenza andavo dicendo in giro che il jazz è una musica per segaioli, e il sassofono, il sassofono in particolare era il mio strumento spreferito. Sempre a gemere negli assoli rock, roco e muggente come un secondo prima dell’orgasmo, pornografico più che erotico – ingabbiato in quattro stilemi che sono stati ripetuti per circa 20 lunghissimi anni – sempre a rendere mimesi i riferimenti sessuali che nel rock ci sono sempre stati e sarebbe bene che sempre rimanessero perché se spariscono i riferimenti sessuali dal rock vuol dire che anche quella minima nicchia di divertimento caciarone e genuino che ci è rimasta è stata fatta preda dei preti, delle mamme antirock o delle armate emo.
Il sassofono, no no, proprio no. Uno strumento che può fare solo assoli, che diavolo me ne potrei mai fare nella vita?, ho sempre pensato. Come la voce, ma non parla, come un flauto – di cui non ho bisogno – come la tromba, e perfino più lascivo. Il sassofono non serve a nulla.
No no, il sassofono no, che mi fa Kenny G., che mi fa anni ‘80 che dai 50’s avevano preso solo il peggio (andiamo, il sassofono insieme alla BATTERIA ELETTRONICA? Ma scherziamo? Cos’è, un esperimento di resistenza per verificare quanta bruttezza il pubblico può sostenere?).
E poi il sax era uno dei simboli del jazz, appunto, LA musica masturbatoria (e ha pienamente ragione il cuoco quando dice che la chitarra col jazz non c’entra proprio niente, e poi insomma questo ragionamento mi calza a pennello ma non corriamo). Prendi una persona che sa suonare BENISSIMO (altrimenti non puoi suonare il jazz, a meno che non hai il culo di essere Motorhead Sherwood, ma anche questo è un caso limite) e falle fare ciò che vuole. Niente di più stucchevole, pensavo, niente di più perfettamente e sontuosamente inutile: inutile fino nei minimi dettagli, nella più leggera e sapiente sfumatura armonica.
Nella bildung di un Sedicente Musicista Consapevole, uno che impara l’arte e la mette da parte, il jazz passa dalla categoria Musica per cui nutrire un profondo rispetto alla categoria Perfettamente trascurabile, una volta scoperta la roccarolla, capiti i Beatles e i Sonics e comprati dei plettri più grandi e più duri.

Poi cresci, ti calmi, e scopri che anche quella è una deformazione storica. Anche perché negli anni 90 il jazz non era il jazz. Negli anni 90 il jazz ERA la masturbazione perché andiamo, la gente che sapeva suonare – che bene o male ha lo stesso orientamento degli appassionati di automobilismo: la performance, le cromature e la precisione della meccanica, come i ragazzotti provinciali che sanno tutto sui carburatori – impazziva per dei personaggi sinistri, che del jazz hanno fatto polpette, rispettando la costante (a percentuale statistica pressoché piena) per cui più è evidente la tua perizia sullo strumento, meno interessante è la musica che fai.
Negli anni 90, il jazz, no: la FUSION, quella roba tremenda che voleva mettere il jazz nella musica caraibica o sudamericana, nel rock, un po’ ovunque, le case discografiche tipo la GRP o malfattori tipo Mark Varney si ingrassavano con gente come Chick Corea, Frank Gambale, Dave Weckl (dio mio, Dave Weckl, la Sylvia Saint della batteria) e così via, un tripudio di ghost notes e camicie hawaiiane (già: perché i jazzisti a un certo punto non hanno più avuto buon gusto nel vestire? Come posso fidarmi musicalmente di un uomo in T-shirt gialla e pantaloni rosa, se quest’uomo non è Mick Jagger?), sambe in semibiscrome e suoni sterili, sempre attenamente SOTTO il livello di clip. Chiaro che un ragazzetto cresce in un ambiente del genere e sviluppa un rigetto, chiaro che ascolta Gardenia e va fuori di testa, chiaro che poi si mette a fare l’ardecore (che NON è quello che leggete sulle riviste, ma di questo promesso parliamo per bene prima o poi).

Insomma una mattina ero in macchina con Foschiani (vatti a ricordare dove stavamo andando, ricordo solo che stavamo nella zona nord del raccordo) e Foschiani caccia su una roba che io non capisco cos’è perché è blues ma pieno di colore e di fumo e viaggia modale e liscio come una pomiciata e gli chiedo A Foschia’, ma che è sta roba? E lui, indignato mi fa Ma come cos’è, è MILES DAVIS. Cazzo, penso io, mi sa che l’ho ferito nell’orgoglio, visto che da un po’ è entrato in fissa con la tromba e si è pure comprato l’autobiografia. Mentre lo guardo vuoto che guida la Saxò azzurra con i sedili rotti penso Miles Davis, Miles Davis, mi sa che qualcosa girava per casa quando ero pischelletto, e mi ricordo che tutti dicevano Miles Davis era un grande, un grandissimo, uno dei personaggi che, senza, il Novecento sarebbe stato proprio diverso, ma mica poco. Miles Davis, Miles Davis, oddìo ecco: mia madre aveva una cassetta di Miles Davis passatale da qualche cugina con dentro una versione pessima di Human Nature di Michael Jackson. Per carità, una tromba efficacissima, silenziosa e dritta, ma maledizione: un accompagnamento sterile come un trapano da dentista (ed erano indovinate chi? proprio loro, i jazzisti fusion che implorano per la vasectomia). Mi ricordai che quand’ero pischelletto pensavo Mah, ma a me ‘sto Miles Davis un grande proprio non mi sembra. E questo un po’ perché avevo pochi anni, un po’ perché ero traviato da quell’ascolto, un po’ perché quando ero pischelletto Foschiani non mi aveva ancora fatto ascoltare All Blues sul raccordo (e io non avevo ancora rilanciato facendogli ascoltare Mildred Pierce, provocandogli uno smarrito silenzio).

Voi direte Cosa c’entra questo con il sassofono? Io dirò Buoni che ci arriviamo: oggi è domenica ed è plausibile che io ci metta fino a stasera per tirarla fuori tutta. Qualsiasi cosa, per dimenticarmi che è domenica.

Vagavo senza scopo per casa, qualche settimana fa, e mi accorsi che l’unica cosa che mi avrebbe fatto bene sarebbe stato Kind Of Blue. Il perché non ve lo dirò che questo è un blog musicale, e non una sceneggiatura di Woody Allen.
Insomma: rimesto sugli scaffali per trovarlo (già, non ho ancora ripristinato il mio sacerrimo ordine per casa discografica/anno/artista) e lo metto su, mentre rimetto in ordine la stanza (quelle cose da pulizia mentale che i ragazzetti aspiranti scrittori come me fanno per poter poi raccontare cose come questa).
Sapete bene (e se non lo sapete andate a camminare bendati in tangenziale) che Kind Of Blue parte con So What, una meditazione su cui è stato scritto talmente tanto e talmente bene che non farei mai la figura di merda di parlarne. Del resto io non capisco nulla di jazz, non so perché queste persone erano in grado di PENSARE quella musica, di immergersi in un ambiente armonico di quel tipo e uscirne vivi.
Era una questione di formazione? Di cibo, di ambiente sociale, di sostanze disciolte nell’aria pre-Kyoto che rendeva le persone Davis o Bogart o Audrey Hepburn o Francis Scott Fitzgerald? Non lo so, non lo posso sapere: siamo quasi un secolo dopo, se semo magnati tutto e siamo talmente smaliziati che non riconosceremmo una rivoluzione nemmeno se ci mordesse sul culo (grazie, FZ).
Dunque: non parlerò di So What, ma del fatto che a un certo punto entra in ballo uno grosso, uno che (non mi odiate) è più grosso di Davis – almeno per il mio personalissimo gusto – entra in ballo il peso massimo di John Coltrane.
Quando ha registrato So What John Coltrane aveva 33 anni: era un uomo d’esperienza (ché 33 anni alla fine dei ‘50s non erano i 33 anni di adesso, col precariato e MTV a tenerci ragazzini per sempre), era uno che aveva sentito e pensato ed eseguito già musica, uno che contemporaneamente aveva in testa Giant Steps, proprio mentre prendeva ordini da Davis, uno che si era già buttato in corpo di tutto, e aveva già i mesi contati – ma questo non avrebbe potuto saperlo.
Finora è successo l’inverosimile. Il tema che è la scarnificazione del linguaggio jazz, il primo intervento di Davis, svogliato come al solito, come uno che deve parlare di ermeneutica del soggetto dopo una sbronza, e poi Coltrane.
Coltrane che stacca in maniera evidentissima perché è nervoso, ansioso, che più che cercare pazientemente (come Davis) fruga, febbrilmente, tra le note e i fraseggi e i microtemi che sviluppa, allarga e dilata per poi appresso. Coltrane che suona come se stesse parlando a se stesso di qualcosa che non ha ancora ben capito. Si mette lì più o meno tranquillo e si fa brainstorming da solo finché non arriva a una soluzione – una soluzione che io posso anche non capire, ci mancherebbe altro, ma del resto non sono stato io a scrivere Syeeda’s Song Flute, quindi se i parametri sono questi io alzo le mani e prendo atto, e così dovreste fare anche voi.
Con la testa sempre una battuta avanti, con un senso della sintassi spaventoso, e con un sacco di gentilezza, perché comunque ancora devono venire i tempi in cui Coltrane s’incazza e decide di prendere a rasoiate ciò che ha fatto e contribuito a fare fino a quel momento.

E allora è da Coltrane che bisogna ripartire, dagli anni 40, da quando c’era Bogart e la vita era più semplice (buoni, buoni, non sto dicendo sul serio). Chissà, probabilmente i jazzisti fusionisti onanisti Coltrane lo conoscevano e se l’erano lasciati alle spalle, anche se io ho i miei dubbi perché se c’è una cosa che Coltrane ti insegna è che te per andare da qui a lì puoi anche fare un milione di giri, e arrivarci ballando il tip tap invece di camminarci spedito. Ma cazzo, prima o poi ci devi arrivare.
E allora è Coltrane che salva il jazz e il sassofono, e che mi dà speranza quando sono costretto ad ascoltare gli assoli di sassofono di Clarence Clemons (non accetto commenti alle mie idiosincrasie), è Coltrane il parametro in base al quale a molti studenti – e insegnanti – dell’UM andrebbe revocata la licenza elementare, è Coltrane il meccanismo che fa cambiare idea a despoti del gusto come me, ed è di Coltrane uno dei dischi (per la cronaca: My favorite things) senza il quale da qualche mese NON SI ESCE PIU’ DI CASA.
Perché va bene l’ardecore a palla (di nuovo, come un mantra: che NON è quello che leggete sulle riviste, ma di questo promesso parliamo per bene prima o poi) che fa da firewall ed impedisce alla bruttezza umana di entrarmi in testa passando dalle orecchie, ma un po’ di bellezza nella vita, dopotutto, ci vuole.



playlist >
james brown: tighten up (live)
ben folds: give judy my notice
the rolling stones: all down the line
ani difranco: gratitude (live)
the sonics: good golly miss molly
paul weller: roll along summer
tom waits: altar boy
paul weller: the start of forever
explosions in the sky: day six
sarah blasko: all coming back
physique du role: concreto
motorpsycho: walking on the water (you lied)
mark lanegan: field song
josé gonzàlez: slow moves
seidenmatt: inseln

17 febbraio 2007

una serata francamente non entusiasmante

Andrea ha scritto (non qui: qui non ha ancora scritto niente) che i Blood Brothers hanno un problema, e il problema è che vogliono mettere insieme l’aggressività dell’hardcore e l’attitudine indie rock, ma ciononostante non arrivano da nessuna parte (ho parafrasato). Questo perché – dice ancora Andrea, ma non mi ricordo se l’ha scritto o me l’ha detto quando abbiamo chiacchierato subito dopo il concerto – non hai niente da cantare (cantare cantare, non gli slogan da manifestazione del liceo) e non appena inizi a ballare, loro ti cambiano il riff sotto il naso.
Vero: i Blood Brothers hanno preso anche questa cosa dal post-hardcore, e cioè il fatto che i loro pezzi non hanno una struttura “pop”, non identifichi mai una strofa, un ritornello e una variazione: al massimo qualcosa che gli si avvicina, ma che non si alterna mai in maniera strutturale, appunto.
L’altra sera dunque è valsa la pena di dar loro una chance, se non altro perché ultimamente non si sta parlando che di loro, la V2 sta spingendo un casino, e tutto sommato ero curioso come tiravano fuori i suoni dal vivo.
Insomma, abbiamo capito che i suoni dal vivo i Blood Brothers li tirano fuori bene. Hanno la pezza (e hanno anche il fonico, per cui ci sta tutto), hanno la confidenza del gruppo che suona bene e suona tanto e da tanto tempo, hanno anche una decente presenza scenica, ma i conti continuano a non tornare.
E perché? Perché anche dal vivo – anche distratti e coinvolti dalla dimensione scenica che comunque catalizza l’attenzione e generalmente fa pigliare a bene il pubblico – ai Blood Brothers manca una coesione musicale che potrebbe far fare loro veramente il botto, il botto che la V2 e la stampa sostengono abbiano già fatto, il botto che li renderebbe veramente il Gruppo Più Figo Del Bigonzo.
Diciamocelo chiaramente: i Blood Brothers vorrebbero essere gli At The Drive-In rivisti e corretti. Si capisce dal tipo di sonorità (il Rhodes del cantante che sembra Rita Pavone), si capisce dal tipo di figure ritmiche, si capisce dal tipo di impiego della voce (delle voci, insomma), che tendono ad avere una distribuzione isterica. O ci sono e sono ovunque, o non ci sono mai. E devo dire la verità? Preferisco quando non ci sono.
Questo perché al di là dell’antipatia epidermica che posso nutrire per la scelta e per la timbrica specifica – soprattutto per quanto riguarda quella di Rita Pavone (ma devo dire che un po’ tutto in lui è destinato a suscitare controversia: dal tipo di approccio vocale all’abbigliamento da Popeye gay, ai capelli a meringa, alle movenze da Diana Ross o chi diavolo vi può venire in mente) – sono proprio le voci che appiattiscono la musica dei Blood Brothers e tolgono anche l’ultimo rimasuglio di varietà dalle loro intuizioni – che comunque ci sono, eh?
Dico: ok che la via più semplice per arrangiare un pezzo è buttarlo in cagnara. Ormai da almeno 50 anni siamo abituati alle chitarre distorte e almeno da 20 alla gente che si strilla le budella dal petto, questo vuol dire che ormai l’aggressività, l’informale la sporcizia la sugna, come cavolo lo vogliamo intendere, è un linguaggio entrato a far parte integrante della musica rock – qualsiasi musica rock, da Jon Spencer ai Pig Destroyer, se è vero che il rock è un’applicazione culturale, come ho letto in uno dei milioni di saggi che mi stanno facendo perdere il sonno ultimamente, ma che prima o poi vi rintraccio e vi dico chi è.
Quindi va bene l’espressività che trascende, si contiene a stento e diventa urlo, ma diamine: anche un po’ di intelligenza tattica a volte non guasta. E ne basterebbe poca, pochissima, per intuire che forse l’attitudine hardcore i Blood Brothers farebbero bene a conservarla per l’impatto sonoro, per il carattere complessivo, e – va bene, eh? – per le strutture lineari e a sviluppo orizzontale (cioè del tipo: succede una cosa, poi un’altra poi un’altra, poi altre, poi il pezzo finisce). Insomma, non c’è pop. Non c’è pop.
E se ne stiamo parlando da 50 anni direi che è un segnale da prendere in considerazione.

PS: Non voglio nemmeno parlare del loro gruppo spalla, i Circle qualcosa. Dico solo quattro parole: “polo” “a” “righe” “orizzontali”. Direi che basta. E basta anche polo a righe orizzontali.



playlist >
sneaker pimps: walking chance
team sleep: ever (foreign flag)
coalesce: for all you are
broken social scene: lover’s spit
some girls: blues singer
ani difranco: reckoning
sonic youth: waist
the kinks: i don’t need you anymore
the beatles: think for yourself
the police: peanuts

16 febbraio 2007

geni si nasce

da groovebox.it
Una nuova canzone dei Nine Inch Nails intitolata "My Violent Heart" è recentemente apparsa sul web dopo esser stata rinvenuta in una penna USB ritrovata nel bagno di un locale di Lisbona, nel quale la band di Trent Reznor aveva appena suonato.Sembrerebbe non trattarsi di un caso unico, poichè gira voce che siano state trovate altre penne USB contenenti la stessa canzone, sempre nei bagni dei locali dove i NIN si sono esibiti: a questo punto appare chiaro che si tratterebbe di una nuova tattica promozionale per pubblicizzare il nuovo album "Year Zero", atteso per il 16 aprile.

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E che gli volete dire? Reznor è un genio in tutti i sensi, un artista completo che non riesce a stare fermo un secondo. Inoltre è un'anima che coincide perfettamente con l'epoca in cui stiamo vivendo. Anzi, credo che fino a poco tempo fa il luciferino Trent si sentisse - come si dice in italiano? - "ahead of his time". Con i suoi NIN sfrutta con enorme intelligenza e infinita inventiva tutta la tecnologia che c'è. Fatevi un giro sul suo sito (www.nin.com) per credere: troverete perfino tutte le tracce di "Only", uno dei singoli di "With Teeth", suddivise per ogni singolo strumento in modo da poterli usare per dar vita ad un remix con Garage Band (cos'è? il programma della Apple per creare musica).

Di tutte le genialate che si è inventato, la trovata della penna USB mi fa rosicare una cifra perché è una di quelle tipiche cose che mi fa dire: "Ma perché non ci ho pensato io?". "Perché tu non suoni nei NIN", mi rispondo immediatamente dopo. Eggià... è un problema in effetti.

Cmq, se volete sapere la tracklist completa di "Year Zero" (ma che titoli fighi fai???) andate qui: yearzero.nin.com

meno male!

da Repubblica.it:

Il Blasco sta con i poliziotti
Intervista di Vasco Rossi alla rivista ufficiale della polizia: «La vera vita spericolata è quella degli agenti»
ROMA - Altro che sbirri. Dopo qualche incontro ravvicinato con la divisa, Vasco Rossi ha cambiato opinione sui poliziotti, instaurando con essi un rapporto di stima. Il rocker di Zocca lo spiega in un'intervista a Poliziamoderna, la rivista ufficiale della Polizia di Stato, che dedica il numero di febbraio alla tragica morte dell'ispettore capo Filippo Raciti. «Mi dispiace che spesso il messaggio di "Vita spericolata" (la sua canzone cult uscita nel 1983, ndr.) sia stato travisato e strumentalizzato per sostenere che inneggiavo al non rispetto delle regole e quant'altro» spiega il Blasco. «Allora avevo 31 anni e desideravo una vita spericolata nel senso di non ordinaria, non piatta o fatta di sole certezze. Ma chi del resto - chiede - quando è giovane non sogna di fare esperienze emozionanti e straordinarie?».
«Problemi con la giustizia li ho avuti e sono noti. Ma ora - spiega Vasco - ho un rapporto splendido con i poliziotti. Adesso se mi fermano è per chiedermi un autografo. Certo qualche multa dalla Stradale l'ho presa, ma neanche tante e solo una per eccesso di velocità di 5 km/h rispetto al limite, per cui niente decurtazione di punti dalla patente. Del resto viaggio in automobile molto meno di prima», chiosa.

13 febbraio 2007

guitar shop asshole

Sarebbe bello poter argomentare sempre; aprire un dibattito ad ogni occasione come insegnavano i gloriosi anni '70 di ECCE BOMBO ma quello che segue è un blitz e, per quanto verboso potrà uscire fuori, alla fine resta un blitz.
Per fare un blitz è necessaria una preparazione – non troppo minuziosa per lasciare alla creatività vandalico-ribellista lo spazio per esplicarsi – e poi si passa all'azione.
Se all'età di 15 anni niente e nessuno sarebbe stato in grado di convincervi del fatto che NON eravate degli sfigati; se nel decennio successivo avete lottato con le unghie e coi denti per uscire da questa linea deleteria di pensiero; se l'unico momento in cui vi siete sentiti sessualmente appetibili è stato quando avete imbracciato la vostra chitarra: beh, questa è per voi!!!
Vi ricordate? La chitarra era appena entrata nella vostra vita, la guardavate con un interesse quasi scientifico, cominciavate a farvi sanguinare le mani, cominciavate a far caso a come erano suonati i dischi. La notte vi addormentavate con quell'osso di prosciutto affianco e ve lo portavate anche al cesso (casomai sul pitale foste stati colti da improvvisa ispirazione). Un giorno (maledetto!) una corda si ruppe e il destino impose il più funesto tra gli eventi: dovevate andare in un negozio di strumenti per comprare una corda di ricambio.
Ve lo ricordate che eravate degli sfigati? Molto giovani e anche un po' ignoranti in materia di strumenti? Vi ricordate quanto eravate timidi?
Continuaste a suonare per qualche giorno una chitarra a cinque corde (voglio dire, Keith Richards lo fa da una vita ma LUI è Keith Richards) scoprendo nuove celate sonorità e questo anche perchè la vostra chitarra – probabilmente un orrido Leviatano made in Korea comprata a pochi spiccioli così, per imparare – faceva una fatica della madonna a restare accordata; poi, infine, giungeste a capitolazione. Il giorno seguente, indossata la faccia meno timida e più competente che avevate nel cassetto (lo stesso delle mutande presumibilmente), spingevate il petto in fuori e vi recavate in uno dei 4-5 negozi di strumenti più forniti.
Giunti sul posto l'impatto era sbalorditivo!!! Qualunque articolo, qualunque, era attraente, interessante, assolutamente da acquistare; vi aggiravate con la stessa espressione di Pinocchio e Lucignolo nel paese dei balocchi, attratti persino da strumenti che a distanza di poco tempo avreste disprezzato più di, che ne so, Bettino Craxi o Luciano Moggi o la Lazio (ve le ricordate le JACKSON? Le CARVIN? Le YAMAHA col manico più sottile di un Oro Saiwa?). Tutto era bellissimo. Ad un certo punto venite avvicinati da un tipo con la maglietta dei Megadeth e i capelli fino al culo, talmente pieno di orecchini da sembrare una gioielleria che vi squadra con sorrisetto mangiamerda e vi dice: “serve qualcosa?”. E a quel punto la vostra facciata di competenza, già fiaccata dal tour nel paese di Bengodi, cade e voi cominciate a biascicare qualcosa sulle “corde di ricambio” e che, suonando avete scassato una corda – il sol vi pare, o era il re? – e lo stronzo (sempre col sorriso mangiamerda in faccia)vi fa: “che scalatura?”. SCALATURA??? MA CHE CAZZO ERA LA “SCALATURA”??? E allora il sadico bastardo insiste: “ma sì, la misura della corda!” e voi, che vi sentite improvvisamente molto stanchi e già state pensando di accannare la chitarra e dedicarvi all'armonica che, quando si rompe, si cambia e basta, rispondete: “Boh, non saprei”.
Il teatrino che segue vede il rotto in culo, ormai raggiante, mostrarvi una serie di bustine tipo quelle per le preparazioni galeniche, con sopra dei numeri “010, 011, 027” e profondersi nei consigli più tecnici e drammaticamente indecifrabili. Alla fine della tortura uscite dal negozio con una muta di corde intera, della misura sbagliata.
Negli anni, con il tempo, abbiamo imparato a gestire la timidezza e a conoscere e saper scegliere, oltre a una muta di corde, uno strumento, un effetto a pedale, un amplificatore. QUESTI STRONZI INVECE SONO RIMASTI UGUALI SPICCICATI. Supponenti, poco disponibili, spesso interessati solo a piazzarvi il pezzo più costoso, maleducati e sbrigativi. La loro gentilezza e disponibilità verso di voi è proporzionale ai soldi che state per spendere. Se volete acquistare un pedaletto del cazzo a malapena vi filano, se invece state per acquistare un bel pacco di cacca con delle valvole Kazake e un suono copromorfo a 600 euri (una di quelle robbe per merdallari tristi) vi cagano comunque troppo poco ma usano il loro tempo per tessere lodi sperticate della sòla che state per portarvi a casa.
Mai che ti chiedano su che chitarra e con quale ampli devi usare quel pedale. Mai che ti chiedano che genere di musica fai. Mai che ti chiedano quale tipo di suono vuoi ottenere. No, loro stanno là a spararsi pose da intenditori e magari si gingillano con quello che stai per prendere e ti fanno vedere LORO QUANTO SONO BRAVI.
E sorvoliamo sulla fauna che frequenta 'sti esercizi commerciali fatta di segaioli che passano le giornate a scorrazzare a 200 all'ora sulla tastiera di qualunque strumento (ma farvi una pelle no?) fino che, all'ora di chiusura, implorano il negoziante di fargli provare anche il manico della scopa che sta usando la donna delle pulizie per vedere se lo sweep gli viene più fluido – o di azzimati signori in cravatta che provano semiacustiche costose quanto un anno di pensione di mia madre perché hanno messo su un “gruppetto con quelli dell'ufficio” con cui fanno le cover degli Steely Dan – o ancora di qualche mezza sega appartenente al Gotha dei turnisti romani che si diletta in chiacchiere con il mellifluo esercente e, proprio sulla porta, decide di portarsi via quell'amplificatore a valvole che stavate risparmiando dal secolo scorso per comprarvi e che avevate visto una volta nella vita, che quando andate con gli occhi lucidi a chiedere al negoziante se pensava di riordinarlo vi spara una faccia come a dire: “ahh, saperlo!”.
I NEGOZI DI STRUMENTI MUSICALI SONO PROPRIO DEI POSTI DI MERDA!
Gestiti di merda da una lobby grassatrice e sozzamente capitalista. In fondo è risaputo che qualunque articolo in vendita in uno di questi posti costa mediamente meno in altre città d'Europa e non solo, se vai in Francia o in Irlanda o persino in Lussemburgo i commessi sono meno cafoni e enormemente più ferrati. Evitano le masturbazioni tecniche e ti danno consigli pratici utili e affidabili. MA CHE UN POVERO CRISTO PER COMPRARSI UN PLETTRO DEVE ANDARE FINO AD AMSTERDAM???
È per questo forse, che in uno scenario di ipotetica rivoluzione, oltre a far saltare in aria ministri e ministeri il sottoscritto vedrebbe bene anche la conversione dei negozi di strumenti in “Case del Popolo Sonante” e la spedizione in Siberia (o in provincia di Gela) degli addetti alle vendite.
Invece un abbraccio solidale va a voi, miei meravigliosi combattenti, che suonate strumenti di merda modificati per fare il massimo del casino; a voi che comprate una Squier e ci tirate fuori un'iradiddio; a voi telecasteristi fondamentalisti che avete sempre ridacchiato quando, negli anni '80 vi dicevano che la Tele era buona solo “per le ritmiche”; a voi che montate corde talmente grosse da poterci ancorare una libreria; a voi che fuggite gli assoli come lo scolo; a voi che piuttosto che suonare in una cover band andreste in seminario.
Questo è per tutti coloro che suonano perchè nella vita non potrebbero fare altro, splendidi dilettanti senza professione e senza riconoscimento (che da noi è risaputo: se fai la cacca e la spalmi su un muro sei uno scultore postmoderno, se suoni....ABBASSAAAAA!!!) il futuro della musica, come è sempre stato, vi appartiene. Appartiene a voi soltanto, non agli strumenti che suonate, non ai commessi frustrati che hanno ripiegato sul vendere gli ossi di prosciutto la loro pochezza nel fare e nel capire la musica. APPARTIENE A VOI CAPITO? Anche se fate musica di merda, purchè sia la vostra.
Devotamente,
Il cuoco

11 febbraio 2007

Epitaffio tardivo per Mark Sandman

Diceva (cane) che le rockstar hanno sempre la buona grazia di tirare le cuoia in posti fighi. Personalmente non posso che convenire con lui ma pensandoci bene mi viene in mente un'eccezione. Alcuni di voi (i più illuminati, ovviamente) forse ricorderanno che dalle parti di Roma, tempo addietro, si consumò una piccola tragedia: durante un concerto in quel di Palestrina morì il cantante dei MORPHINE, Mark Sandman. Nel suo scritto (cane) faceva riferimento a Sacrofano (dalla parte opposta rispetto a Palestrina) come provincia improbabile per un decesso eccellente, eppure proprio in un luogo tanto improbabile (Palestrina appunto), a tantimatanti km da casa, Mark Sandman pensò bene di lasciarci. Da cui le seguenti riflessioni parallele: A)Mark Sandman non era una rockstar; B) Palestrina non è un luogo sfigato; C) quando la grande mietitrice passa a riscuotere se ne fotte altamente del posto in cui ti trovi (ed è per questo che alcuni di noi stireranno seduti sulla tazza del cesso...).
Ammettendo senza fatica la pacifica verità contenuta al punto C, passiamo agli altri due.
Intanto spezzerei una lancia in favore di Palestrina. Siamo d'accordo non si tratta di New York o di Parigi ma c'è un bel tempio romano (dedicato a Giove se non erro), un centro storico impervio e tendenzialmente in salita, ben arroccato sul colle sopra cui si sviluppa il paese, e un simpatico belvedere. Venne rasa al suolo per ordine di papa Bonifacio VIII (quello del primo giubileo) se non erro, quindi significa che ai suoi tempi la stessa Palestrina era un centro rispettabile e influente.
Va da sé che è comunque un luogo insignificante al cospetto di una metropoli, specie se si tratta di lasciarci le penne. Morire a Roma ad esempio, che si trova a 30 km circa è certamente più nutriente per l'hype. Se però consideriamo la personalità di Mark Sandman e inseriamo l'evento fatale del decesso nel contesto di Palestrina otteniamo un'alchimia che, a modo suo, funziona. Vediamone il perchè.
Siamo negli anni '90, le chitarre elettriche si stanno prendendo una sonora rivincita nei confronti dei sintetizzatori, Kurt Cobain è, senza fallo, l'unica e sola rockstar (indegna, tra l'altro, di questo marchio infame), la contaminazione tra generi avviene ad un livello di compenetrazione e sintesi molto più profondo che nei decenni precedenti. In un modo o nell'altro i '90 sono un momento di svolta. In un panorama ampio, pieno di monnezza (ma registrata in digitale eh...), mentre la contrapposizione anche politica tra i generi musicali perde la sua forza e si afferma il concetto di ”artista indipendente” come di artista slegato dallo showbiz, dalla politica come elemento tematico e dal mercato come bidone aspiratutto, nascono piccole importanti realtà che fanno dell'autarchia una cifra stilistica.
In questo contesto inserisco i MORPHINE. La scelta - programmatica, che altro sennò? - di una line-up senza chitarra o pianoforte unita alla scrittura debitrice al linguaggio intimista del blues e della wave, al linguaggio ritmico di certo funk e ad atmosfere latentemente jazz, produce un gruppo improbabile, geniale e maledettamente affascinante.
Tra le categorie meno chiacchierate ed utilizzate dalla stampa musicale c'è il mistero. Il mistero non é mai considerato nella cifra stilistica di un artista e difficilmenente si parla di un brano come “misterioso”. Questo perché il mistero è un elemento complesso da maneggiare e di difficile fruizione per l'ascoltatore. Eppure era una delle componenti del suono dei MORPHINE. La narrazione, nei loro dischi, passa per atmosfere in cui c'è una cospicua percentuale di significato lasciata volutamente dietro il testo e dietro la musica. Perchè, necessariamente, affidandosi soltanto ad un basso a due corde (spesso suonato col bottleneck), ad una batteria pensata sovente come percussione e ad un sax (spettacolare a mio modo di vedere) intento più a rimpolpare una linea ritmico-armonica che non a condire di frizzi, lazzi e arabeschi il pezzo, una percentuale di motivi ed espressione finiva per celarsi nel retrobottega del pezzo stesso. Bene, questa é la bellezza dei MORPHINE e questo é uno dei motivi per cui noi troviamo il Blues (Blues come mood, come attitudine, come intenzione) tra i linguaggi principali che ne compongono il suono (mentre nel suono di Carla Bozulich NO!!). Non solo, questo è uno dei motivi per cui c'è... del mistero, nelle loro canzoni. Se pensate per un secondo alle incisioni di Robert Johnson o di Skip James, se avete in mente cosa intendo quando evoco Blind Willie Johnson sapete di cosa si sta parlando, sennò andate a procurarvi gli arretrati di "MUSICA!" di Repubblica e non mi rompete i coglioni: state bene così.
Il tipo di emotività che si trasmette all'ascolto di questi tre mostri sacri è basato in parte sull'archeologia. Il supporto fa la sua differenza e, of course, anche gli anni che sono passati da allora. Il fruscìo, la raucedine di quelle incisioni sono un inaspettato abbellimento. I MORPHINE non avrebbero mai potuto, negli anni '90, ottenere quella pochezza nella resa dei supporti ma la scelta autarchica menzionata diverse righe fa li avvicinò, forse inconsapevolmente, a qualcosa che, alla fine della fiera, suonava ben più antico del vintage stesso. Il Blues appunto. E il mistero, per l'appunto, celato in quanto non dichiarato apertamente, nascosto dentro al silenzio che fu una caratteristica della loro musica.
A Palestrina è stata dedicata una scalinata a Mark Sandman e i paesani, anche quelli che (penso ai più anziani) probabilmente non hanno mai avuto il bisogno di comprare un cd in vita loro, la percorrono ogni giorno tenendo in vita la circolazione periferica e intostando le chiappe e magari, ogni tanto, chi perché se lo ricorda, chi perché lo legge sulla targa che hanno apposto e fa mente locale, chi perché glielo ha detto il nipote, parla di quell'americano che era venuto a suonare sulle sue gambe e se ne era andato lungo sulla barella. In un modo molto strambo, traslando geograficamente le coordinate, i MORPHINE hanno reso a Palestrina lo stesso servizio che tanti hoboes e musicisti itineranti avevano reso alle strade d'America. Hanno creato una leggenda - hanno arricchito di un aneddoto l'aneddotica locale e hanno, in fondo, affrontato il proprio destino (Sandman più di tutti) esattamente come il più sconosciuto Bluesman nel buco del culo più stretto e remoto degli U.S.A.
Le rockstar muoiono in lussuosi alberghi al centro delle metropoli, i bluesman in bettole lercie alla periferia del mondo, da soli spesso e senza una lira; eppure, girando per la provincia americana, capita di trovare più di una tomba attribuita loro. E i locali rivendicano l'autenticità di quel tumulo neanche si trattasse della sepoltura di un santo.
Forse il buon Mark Sandman è riuscito, restando attinente all'estetica storica del bluesman ad avere un po' di più dalla vita (e ci ha risparmiato l'onere mica da poco di scrivere un'agiografia). In un posto più antico di qualunque posto della sua madrepatria ha suggellato con l'ultimo mistero che gli era possibile una storia, una poetica, un suono fatto del Mistero che necessariamente si nutre dell'antichità e dell'ignoto e che, solo parzialmente, a tratti, si svela.

elogio del succedaneo

Quindi va bene, va bene Nicolai Dunger. Anche se sembra una versione dopata di Van Morrison. E va bene soprattutto e proprio nella misura in cui Van Morrison sono anni che non fa musica così, ma fa uscire normalmente dei dischi di Van Morrison (un po’ come Al Pacino che interpreta Al Pacino da qualche tempo a questa parte, no?), o altrimenti della roba un po’ country cantata a bocca mezza chiusa come sta facendo ultimamente – ma del resto immagino che questo sia lo scotto che si finisce per pagare nel diventare vecchi e non essere morti a ventisette anni stroppiati da qualche polvere in qualche vasca da bagno di qualche albergo di qualche città particolarmente figa (perché le rockstar non muoiono mai a Sacrofano, no: muoiono a Parigi o a New York o insomma in posti fighi).
E allora la sorte dice – a Van Morrison –: Vanmo’, tu hai campato fino a sessantadue anni, hai fatto la bella vita, non è che puoi tirare troppo la corda. Hai avuto il tuo periodo d’oro, poi a una certa finisce, che io – dice la sorte a Van Morrison – non ho risorse illimitate, e nemmeno tu. Guarda che ho fatto a Paul McCartney: per fargli fare un disco sobrio da solo l’ho fatto aspettare trent’anni, e dire che lui è sempre stato uno dei miei preferiti – dice la sorte, sempre.
Quindi, visto che si è messa male, per Van Morrison, salta fuori Nicolai Dunger. Che è uno che Van Morrison dev’esserselo sentito pure mentre dormiva, come il Corso per Arricchimento del Linguaggio del dottor Marvin Monroe. Però è fresco e netto, ed è uno che anche se scrive canzoni da sei sette minuti è uno che si sente che scrive sulla chitarra acustica. E quando scrivi sulla chitarra acustica canzoni da sei sette minuti devi farlo girare, il pezzo, altrimenti la gente si spacca le palle fortissimo. E grazie al cielo Dunger l’ha capita presto, questa cosa. Quindi colori, quindi grande tensione – positiva, la sua musica è sempre festosa, generalmente – e quindi Van Morrison, il “soul brother” intendiamo.
E non importa che gli assomiglia spiccicato, che alla fine queste cose sono belle e ci piacciono e noi ne sentiamo la mancanza e ne vogliamo ancora, che Moondance lo conosciamo a MEMORIA, e per quanto possa essere bello come poche cose, non è che possiamo ascoltarlo per sempre. E poi è nuovo, non lo sappiamo ancora, Nicolai Dunger, non ci ha già detto tutto, e in definitiva questo è ciò che abbiamo in dono dai tempi bui che stiamo vivendo.
Dopotutto, se non ci fosse nient’altro con cui fare un dessert, lo rifiutereste DAVVERO, il CiaoCrem?

10 febbraio 2007

mai sbagliare il soffritto

Quindi non sono il solo a pensare che ci sia qualcosa che non va, nel disco di The Good, The Bad And The Queen. Leggevo, su un numero dell’Internazionale di qualche settimana fa, la stroncatura ad opera di un giornalista di Billboard (badate, testata inglese, probabilmente sta cambiando un po’ l’aria, oltremanica) dell’esordio (o episodio unico?) di questo supergruppo inglese.
Ricapitoliamo al volo: è una cosa superfiga che ha voluto mettere in piedi Mr. Mani d’Oro Damon Albarn convocando Paul Simonon (lui lui, il bassista dei Clash, quello che a ventott’anni di distanza fa ancora venire le erezioni a guardarlo sulla copertina di London Calling), il chitarrista dei Verve (Simon Tong, se interessa a qualcuno) e Tony Allen, che è il batterista di Fela Kuti.
In più, Mr. Mani d’Oro ha voluto coronare questo immenso sogno postmoderno chiamando nientemeno che DJ Mani d’Oro per la produzione del disco, sarebbe a dire Danger Mouse, l’uomo da cui tutti vogliono farsi produrre, da un po’ di tempo a questa parte.

Ora, se fossi il cuoco sarei in grado di argomentare per bene i mille e mille motivi per cui anche avendo gli ingredienti perfette nelle dosi esatte, ciò che stai cucinando può venir fuori che non sa di un cazzo. Può essere un discorso di cottura, può essere un problema di tempi nei dosaggi, può essere – attenzione che NON è una cazzata – un discorso di passione (o di amore, proprio, come direbbe lui).
Allora, abbiamo capito negli anni che Albarn non è mai stato esattamente un passionale, abbiamo anche capito che l’anima pop dei Blur era Coxon (e l’abbiamo capito bene nei suoi dischi solisti a cui COMUNQUE manca qualcosa), abbiamo capito pure che Albarn è uno “peso”, e pure come si deve, soprattutto dopo essersene uscito con Mali Music, che insomma: non era esattamente un greatest hits di Madonna.
In particolare, non mi ha del tutto convinto del non voler essere una specie di media aritmetica tra Thom Yorke e Jonny Greenwood (da soli, non con i Radiohead) che insomma, diciamocela tutta: sono il punto di riferimento del rock inglese almeno da una decina d’anni a questa parte.
E allora anche se Thom Yorke se n’è uscito con The Eraser, che è un disco che a sentirne parlare semba una palla e – magia – NON LO E’ (pensate, un disco glitch pop nudo, prodotto in maniera minimalista e con Yorke che ci mette dentro TUTTE le nevrosi che ha nei diari da quando ha almeno sedici anni, eppure un disco che non spacca le palle come 13, nonostante invece lì dentro ci fosse del vero pop, regolarmente dichiarato e denunciato alla questura), e anche se Greenwood ha scritto la colonna sonora intellettuale per questo film inglese intellettuale (o era un documentario? Ma del resto, a chi importa? Nessuno ha mai avuto intenzione di vederlo davvero...), sono riusciti a fare dei lavori freschi, saporiti, con dentro un po’ di vita.
Quello che invece fa Albarn da un po’, è MORTO. E insomma: io capisco che tu sei un inglese post-Thatcheriano, con le crisi della sinistra laburista e una società in cerca di sé come substrato culturale alla tua musica; capisco che hai sempre cantato il grigiore dei suburbs britannici e insomma, sei stato la colonna sonora degli anni ‘90 che certo una passeggiata non sono stati, ma allo stesso modo non c’è nessun tipo di germoglio, da tutto questo concime.
Allora, capisco i Gorillaz, che sono l’esperimento di necrofagia tra i più riusciti degli ultimi anni. Un pop totale, con dentro perfino l’elettronica e l’hip hop. Ne capisco la perversione ai limiti del cannibalismo e alla masticazione e digestione della carcassa del rock and roll morto da anni (anche se non sono morti i parassiti che vi hanno attecchito, ma questo è un altro discorso), ma visto da qui è innegabile che il risultato non è stato all’altezza delle premese. I Gorillaz volevano essere un gruppo fantasma, un gruppo che non c’è, e invece MTV è impazzita per loro (e insieme a MTV anche il suo popolo, altra schiatta di cannibali mica da ridere), e il loro secondo disco era ancora più ruffiano e sfacciato (anche qui grazie alla complicità di Danger Mouse), e quindi ancora più stridente è stato il contrasto tra la provocazione lanciata e il modo in cui è stata COMPLETAMENTE IGNORATA dal pubblico.
Pazienza, direte, ma sembra che Albarn si stia un po’ cacciando in un ruolo da incompleto (più che incompreso) che questo The Good, The Bad And The Queen ha un po’ confermato.

E allora parliamone: il disco non decolla mai – esattamente come dice questo giornalista di Billboard, usando a paragone un deludente blockbuster hollywoodiano – e quando finisce ci si ricorda poco o nulla, se non una produzione densissima, una continua strizzatina d’occhio al dub (ma con una sezione come quella c’è poco da meravigliarsi) e che in definitiva il disco sembra un quaderno di bozze ancora poco sistemate per poter avere una struttura o una logica. Forse era proprio questa, però, la scommessa di Albarn e di questo gruppo (che potrebbe pure essere una situazione one-shot, per come si mettono questo tipo di cose, di solito): non dimentichiamoci infatti che le ricerce etnomusicologiche di Mr. Girls and Boys si sono orientate verso l’Africa, un continente in cui la musica ha uno sviluppo orizzontale, e non ingabbiato nel 4/4 come siamo normalmente abituati a pensare nella tradizione eurocentrica (mi seguite?). In altre parole, è possibile che la scrittura sia orientata in questo modo proprio per la ricerca fatta, il che è cosa plausibile anche se non particolarmente popolare – diciamo così.
In pratica pure questo disco suona morto. Morto perché appunto non contiene un’idea pop che sia una (e per favore non toglietemi il pop, che anche noi oltranzisti abbiamo bisogno di qualcosa da cantare sotto la doccia), morto perché non si è mai perfettamente sicuri che possa crescere e diventare qualcosa. Morto, anche, perché a un certo punto vale la pena di chiederci quanto in realtà questo disco possa essere il risultato di un esperimento musicale condotto a prescindere, giusto per mettere in funzione un sistema di persone che fanno la musica, e poi la musica viene messa sul disco, come a testimonianza, come una pubblicazione dell’ISTAT. Morto, appunto, una cosa che semplicemente è ciò che è, e non può diventare nient’altro.
Insomma è perfettamente possibile che – ripagando tributo all’immensa saggezza del cuoco – The Good, The Bad And The Queen sia un disco uscito sciapo nonostante gli ingredienti perfetti nelle dosi esatte. Cosa che dopotutto è verosimile perché non è che mo’ te chiami Damon Albarn o Danger Mouse e non puoi fare un disco di merda, eh?



PLAYLIST
Radiohead: Hail to the thief

6 febbraio 2007

uncle dave

E quindi ho capito. Dopo (quasi) 10 anni di ascolto (quasi) ininterrotto, ho capito. Dave Matthews e la sua band sono dei fighi. Ma non dei fighi qualunque. Sono dei fighi veri. Intendiamoci, ho sempre pensato che la Dave Matthews Band fosse un gruppo figo ma è da poco che ho capito che sono dei fighi veri. Mi spiego meglio. Era l'estate del 1998, la scuola era terminata ed io, invece di andare in vacanza, avevo deciso di passare un po' di tempo a Roma. Una mattina, zaino-in-spalla-cuffie-nelle-orecchie-passo-veloce+due autobus+una metro - una combo in grado di dare il colpo di grazia a chiunque ma non al me stesso di quella mattina - mi sono magicamente ritrovato di fronte al Ricordi di Piazza Indipendenza che ora non esiste più, pronto a fare qualche acquisto da ascoltare con calma nel pomeriggio. Volevo qualcosa di forte, che al tempo significava qualche disco metal puzzolente o qualsiasi cosa si avvicinasse al crossover, ma non trovavo niente che mi ispirasse davvero quando mi capitò fra le mani "Before These Crowded Streets" della DMB. Di certo non era un album metal ma fu amore a prima vista. Ricordavo di aver ascoltato e apprezzato il primo singolo, "Don't Drink The Water", una canzone che negli anni mi avrebbe procurato un'assuefazione cronica incurabile e mi recai in cassa per sbrigare la faccenda e sostituire il disco nel cd player (l'ipod non era neanche stato concepito...). Una metro+due autobus+passo-veloce-cuffie-nelle-orecchie-zaino-in-spalla tornai a casa. In trance. Ascoltai quel disco per l'intera giornata e poi per tutta l'estate. E poi negli anni successivi. Lo ascolto ancora adesso, magari scegliendo le tracce migliori. "Before These Crowded Streets" è un disco semplice, tutto sommato. Un disco non eccelso, con punte vertiginose e qualche passo falso. Ma un disco fatto di canzoni, seppure filtrate attraverso le fissazioni e gli arzigogoli di una jam band statunitense che ancora non aveva incontrato Glen Ballard (ascoltatevi "Everyday", una sorta di bignami della DMB... vabbé questa è un'altra storia). Un disco che mi ha rapito e fatto scoprire un gruppo che, a distanza di 10 anni, continua a stupirmi.
E qui arriviamo al punto. Avrete ormai capito perché Dave Matthews e la sua band sono dei fighi ma non perché io li ritenga dei fighi veri.
Finora c'è sempre stata una cosa che non ho capito appieno della DMB. Hanno inciso un milio... no, voglio essere preciso. E, per la precisione, hanno inciso 7 album dal vivo (tutti con almeno 2 cd ma arriviamo anche a cofanetti da 8!) + altri 7 che fanno parte di una serie intitolata 'Live Trax' (alcune di queste opere contano 4 cd per album) per un totale di 14 lavori live. Un po' tanti per una band che ha inciso 7 (daje!) album in studio + 1 EP ("Recently") + 1 greatest hits compresivo di secondo disco dal vivo (il che porterebbe i conti totali a 15 opere dal vivo e 8 in studio...). E invece no! Ogni singolo album dal vivo è una storia a sè stante e possiede tutte le caratteristiche per reggersi in piedi da solo. Negli anni passati ho sempre pensato che la DMB propinasse all'ascoltatore, e soprattutto ai super-fan, tutti questi dischi dal vivo perché, in fondo, si tratta pur sempre di una jam band statunitense. Ovvero di un gruppo che fa della dimensione live il suo ambiente naturale.Sbagliavo, signori miei. L'ho capito solo ora ascoltando i 7 album della serie 'Live Trax' e lo splendido cd di 8 tracce allegato al greatest hits "The Best Of What's Around Vol. 1". La DMB è un gruppo in grado di raccontare ogni sera una storia diversa attraverso le proprie canzoni. La versione di "Rapunzel" contenuta nel live di Fenway Park del 2006 è una canzone completamente diversa dalla "Rapunzel" del Meadows Music Theatre del 2000, così come è differente dalla versione registrata a Worchester nel 1998. Ogni versione dello stesso pezzo ha una particolarità evidente, un dna distintivo che la rende completamente difforme dalle proprie gemelle: può essere qualche cosa riguardante l'arrangiamento, l'interpretazione di Dave, la presenza o meno di ospiti e strumenti aggiuntivi o mera esecuzione. E' come se la DMB non riuscisse a suonare un pezzo per due volte nello stesso identico modo. E' come se i 5 musicisti parlassero con le loro canzoni, facendo discorsi diversi ogni sera. Già, perché la sensazione è che la DMB si lasci travolgere dalle proprie composizioni, sapendo perdersi in esse e con esse. Senza mai perdere il bandolo della matassa. Ed è così con tutti i mille brani registrati dalla DMB in (quasi) 15 anni di carriera. Non me ne ero mai accorto.
playlist:bloc party - "a weekend in the city" (tutto!)

2 febbraio 2007

Non tutto è perduto.

C’è questo tipo che conosco che ha una quarantina d’anni e a quanto ho capito non ha mai fatto altro che ascoltare musica, in vita sua. Fa una trasmissione alla radio, suona benissimo la batteria anche se non l’ho mai sentito suonare – ma mi fido – sa un sacco di cose e si informa. Insomma, lui è uno da stare ad ascoltare.
Una sera questo tipo che conosco parlava con un altro mio amico – uno che voi conoscete – e come spesso accade, si sono messi a parlare di musica, uno dei tre argomenti principe nelle conversazioni tra loro due come tra chiunque, diciamocelo, anche se non è di questo che voglio parlare.
Insomma lui è nato negli anni ’60. Ha avuto strascichi di Dylan, si è preso tutto Springsteen in faccia: era insomma in grado di intendere e di volere quando è uscito Nebraska, insomma: cose che ti segnano, o almeno ti investono. Lui ha delle carte grosse da calare, quando si parla della sua generazione, eppure c’è una cosa, che lui non ha avuto, e che noi – nostra generazione, intendiamo, gente nata anche già alla fine dei 70 – possiamo considerare propria, se lo vogliamo. Questa cosa è Ani DiFranco.
Loro non ce l’hanno, Ani DiFranco: loro possono avere Joni Mitchell, possono avere Carole King, possono avere Joan Baez, carrettate di altre cantautrici validissime e di spessore indiscutibile, ma una come Ani DiFranco no, non ce l’hanno.
Non ce l’hanno, insomma, una che cresce con il punk ma non si è mai vista con una chitarra elettrica in mano. Una che sorride quando canta, cazzo. Una che non ha mai – MAI – avuto bisogno di una casa discografica per diventare ciò che è (e diciamo ciò che è: un punto di riferimento) e non è mai diventata stantia sebbene stia in giro da quasi vent’anni. E anche se ce l’hanno è nostra, e non ce la possono portare via.
Me lo sono chiesto un sacco di volte, da dove cazzo è spuntata fuori, Ani DiFranco. Una gentile, che scrive canzoni intense, spesso parecchio tristi (ma non è emo, brutti stronzi), conosce profondamente le cose di cui parla, cioè la vita, e in definitiva è una delle poche sopravvissute a fare una musica che sa di vero, e che – va da sé – non è nata negli anni ’40.

Quando è uscito Reprieve io mi stavo ancora riprendendo dalla botta di Knuckle Down, che contiene una delle mie canzoni preferite – non solo sue, ma credo al mondo –, che è Studying Stones. Una chitarra – che da sempre è la sua voce almeno quanto la sua voce –, archi (uno strappo alla regola rispetto alla spartana scelta del contrabbasso da solo, che è poi il suo contraltare da almeno tre dischi, ma la tiro giù così: non ho pretese di fedeltà perché sto pensando ad altro, in questo momento) e la sua voce che racconta una storia di delusione, di quiete e desiderio di rinascita con una tessitura melodica da strapparvi il cuore dal petto.
Reprieve non mi ha preso subito: l’ho ascoltato in treno, quando di solito mi dedico a cose rumorose che possano fare da parete e isolarmi dalle cose stupide che dicono le persone quando vogliono fare conversazione anche se non sono in grado. Ero distratto, disattento, pensavo a un amore finito senza nemmeno essere sicuro fosse stato un amore. Pensavo se non era amore che diavolo era, e pensavo al perché non si riuscisse a venirne a capo. Lasciamo perdere. Insomma, diciamo che non ero esattamente ricettivo, in quel momento, che era fine di Dicembre, ed ecco spiegato perché ero in treno.

Oggi per lavare i piatti ho messo Reprieve nel radiolone sul frigo, e sgrassando sgrassando ho capito che Reprieve è un gran disco.
A questo punto, spezziamo una lancia per il lavare i piatti: è un’attività manuale e silenziosa, come cucinare o guidare da solo, che si presta magnificamente a un ascolto nuovo, o a un riascolto critico. Anche Brian Eno diceva che cucinare è un ottimo modo per sentire la radio e tenersi aggiornati. Lo diceva in un libro che poi erano i suoi diari. Un libro che ho prestato a un idiota borioso e che non mi è mai tornato indietro. Conteneva appunti interessanti, maledizione. Vabè.
Aveva ragione Joo, dunque – uno dei contagiati dalla mia monomania per Ani che mi ha influenzato per mesi, fino a portarla al secondo posto nella mia classifica generale su last.fm, dritto alle spalle dei Beatles. “Dagli tempo”, mi aveva detto Joo, e darglielo in senso stretto non è stato nemmeno ciò che ho avuto bisogno di fare, dato che se l’è preso da solo.
Ci sono dischi che all’inizio credi sepolti, che all’inizio credi siano destinati a prendere polvere e a un certo punto invece semplicemente spuntano fuori e reclamano attenzione: dischi di quel genere poi raramente si fanno da parte una seconda volta. Piuttosto, rimangono dentro, si attaccano da qualche parte e poi si saldano. Che ne so: War, Moondance, O’God The Aftermath, Dilate, e Reprieve, appunto.
E però è un po’ così un po’ per tutto ciò che riguarda Ani DiFranco. Lei a un certo punto esplode – dentro, e con calma – e ti accompagna. Probabilmente lei è la cantautrice di cui abbiamo bisogno in questo momento. Una che si fa domande che non sempre hanno risposta, una che scruta gentilmente nello specchio e descrive: non vuole spaccarlo (non siamo più negli anni 70) e non desidera farsi più bella per mascherare la propria debolezza (va da sé, non siamo nemmeno negli anni '80).
In questo senso, Ani è un animale della stessa specie di Cobain. È una che ha saputo ascoltarsi anche nei cedimenti più dolorosi, che ha capito quali sono state le delusioni e le rinunce e le ha chiamate col proprio nome. Fortunatamente, lei è ancora viva, almeno: non meno arrabbiata (non ci si arrabbia solo strillando), non meno profonda, e di certo ancora con tante domande in tasca.
E impegnata politicamente, pure, ma mai con il sussiego veterocomunista e palloso, cosa che la affranca da qualsiasi paragone da gente tipo la Baez – una tra le musiciste più noiose al mondo, diciamolo. Insomma, non le manca niente, a ’sta regazzetta.

Quindi, Reprieve è di nuovo un disco semplice fino all’osso – come Knuckle Down e Educated Guess prima –, fatto di vocalità sbilenche e tante piccole pennellate, marrone e ruvido come la copertina. C’è dentro il blues (quello vero, regà, quello vecchio e nero, non il McBlues di Eric Clapton), c’è dentro PJ Harvey (ma senza invidia del pene). C’è dentro quell’elettronica analogica che sta tornando linguaggio comune negli ultimi anni – e speriamo tutti si comporti bene –, filtrata per bene da una grande intelligenza nel dosaggio, e poi c’è il consueto contrabbasso.
Anzi, è proprio lui – credo che sia sempre e ancora quel capoccione di Todd Sickafoose – che apre il disco con l’intento preciso (preciso almeno secondo me, ma del resto sono io che sto scrivendo) di portare alla mente Kind Of Blue, un altro disco gentile, intenso, minimale, senza un secondo sprecato e piuttosto caruccio, devo dire (joke). Se è così, ha un senso: un tributo necessario al jazz con cui ha sempre flirtato, lei musicista anche colta – e preparata: si vede dall’impostazione classica della mano destra quando suona la chitarra.
Certo, fa un po’ strano il nuovo taglio di produzione che ha scelto Ani. I suoni sono densi, la voce è staccata dalla musica e dà la sensazione che vi stia cantando nella testa (lei e il suo pancione, che ha lasciato il mondo di stucco – o almeno il mondo che sa della sua esistenza e che quindi spero si salvi dall’imminente catastrofe planetaria), cosa nuova per lei che ci aveva abituato a una voce immersa nel suo ambiente, che arrivava nelle orecchie insieme alla stanza in cui cantava. Fa un po’ strano sentire Ani astratta, insomma, sopra la musica invece che dentro, anche se questa cosa non rispecchia un cambiamento o uno slittamento di contenuti, che rimangono sempre taglienti come quando ti dicono come stanno le cose, una volta per tutte.
E allora bisogna esserle grati, ad Ani. Perché lei è una che sa raccontare cose che possono afferrare tutti senza scendere al minimo comune denominatore, perché co’ ’sti chiari di luna, parlare di emozioni umane in termini non epici, non falsi e non piagnucolosi è un servizio sociale, perché lei va in culo allo show business e a MTV e alle radio, perché lei fa in definitiva della musica strepitosa che va bene a qualsiasi ora della giornata (miracoloso), e aoh, perché sì, e basta: anzi, quando la incontrate, datele un fiore da parte mia e ditele una cosa tipo Grazie.